|   | 
Capitolo 34 
Pinocchio, gettato in  mare, è mangiato dai pesci e ritorna ed essere un burattino come prima; ma  mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pesce-cane.  
 
              Dopo cinquanta minuti che  il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo: 
  — A quest’ora il mio povero  ciuchino zoppo deve essere bell’affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con  la sua pelle questo bel tamburo. 
              E cominciò a tirare la  fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine  vide apparire a fior d’acqua… indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide  apparire a fior d’acqua un burattino vivo che scodinzolava come un’anguilla. 
              Vedendo quel burattino di  legno, il pover’uomo credé di sognare e rimase lì intontito, a bocca aperta e  con gli occhi fuori della testa. 
              Riavutosi un poco dal suo  primo stupore, disse piangendo e balbettando: 
  — E il ciuchino che ho  gettato in mare dov’è? 
  — Quel ciuchino son io! —  rispose il burattino, ridendo. 
  — Tu? 
  — Io. 
  — Ah! mariuolo!  Pretenderesti forse burlarti di me? 
  — Burlarmi di voi?  Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio. 
  — Ma come mai tu, che poco  fa eri un ciuchino, ora, stando nell’acqua sei diventato un burattino di  legno?… 
  — Sarà effetto dell’acqua  del mare. Il mare ne fa di questi scherzi. 
  — Bada, burattino, bada!…  Non credere di divertirti alle mie spalle. Guai a te, se mi scappa la pazienza. 
  — Ebbene, padrone: volete  sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò. 
              Quel buon pasticcione del  compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo  della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un  uccello nell’aria prese a dirgli così: 
  — Sappiate dunque che io  ero un burattino di legno come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di  diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia  poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa… e  un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto di  orecchi… e con tanto di coda!… Che vergogna fu quella per me!… Una vergogna,  caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi!  Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal direttore di una  compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e  un gran saltatore di cerchi; ma una sera durante lo spettacolo, feci in teatro  una brutta cascata, e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il direttore  non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi  avete comprato! 
  — Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri  venti soldi? 
  — E perché mi avete  comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!… un  tamburo!… 
  — Pur troppo!… E ora dove  troverò un’altra pelle? 
  — Non vi date alla  disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti, in questo mondo! 
  — Dimmi, monello  impertinente: e la tua storia finisce qui? 
  — No, — rispose il  burattino, — ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi  avete condotto in questo luogo per uccidermi; ma poi, cedendo a un sentimento  pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi  in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo, e io ve  ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete  fatto i vostri conti senza la Fata… 
  — E chi è questa Fata? 
  — E la mia mamma, la quale  somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi  e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia,  anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi  portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balìa a se  stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di  affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali  credendomi davvero un ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che  bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti  anche dei ragazzi! Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il  collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena..  e fra gli altri, vi fu un pesciolino così garbato, che si degnò perfino di  mangiarmi la coda. 
  — Da oggi in poi, — disse  il compratore inorridito, — faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce.  Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di  trovargli in corpo una coda di ciuco! 
  — Io la penso come voi, —  replicò il burattino, ridendo. — Del resto, dovete sapere che quando i pesci  ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla  testa ai piedi, arrivarono com’è naturale, all’osso… o per dir meglio,  arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma  dopo dati i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accorsero subito che il legno  non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne  andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie… Ed eccovi  raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino  vivo, invece d’un ciuchino morto. 
  — Io mi rido della tua  storia, — gridò il compratore imbestialito. — Io so che ho speso venti soldi  per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò  daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il  fuoco nel caminetto. 
  — Rivendetemi pure: io sono  contento, — disse Pinocchio. 
              Ma nel dir così, fece un  bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e  allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore: 
  — Addio, padrone; se avete  bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me. 
              E poi rideva e seguitava a  nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte: 
  — Addio, padrone: se avete  bisogno di un po’ di legno stagionato, per accendere il caminetto, ricordatevi  di me. 
              Fatto sta che in un batter  d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si  vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in  tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un  delfino in vena di buonumore. 
              Intanto che Pinocchio  nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo  bianco: e su in cima allo scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente  e gli faceva segno di avvicinarsi. 
              La cosa più singolare era  questa: che la lana della Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata  di due colori, come quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un  color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella  Bambina. 
              Lascio pensare a voi se il  cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza  e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza  strada, quando ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile  testa di mostro marino, con la bocca spalancata, come una voragine, e tre  filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte. 
              E sapete chi era quel  mostro marino? 
              Quel mostro marino era né  più né meno quel gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e  che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato  « l’Attila dei pesci e dei pescatori ». 
              Immaginatevi lo spavento  del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cerco di scansarlo, di cambiare  strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre  incontro con la velocità di una saetta. 
  — Affréttati, Pinocchio,  per carità! — gridava belando la bella Caprettina. 
              E Pinocchio nuotava  disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. 
  — Corri, Pinocchio, perché  il mostro si avvicina! 
              E Pinocchio, raccogliendo  tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa. 
  — Bada, Pinocchio!… il  mostro ti raggiunge!… Eccolo!… Eccolo!… Affréttati per carità, o sei perduto! … 
              E Pinocchio a nuotar più  lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già  era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli  porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua! 
              Ma oramai era tardi! Il  mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero  burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta  violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al  Pesce-cane, batté un colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un  quarto d’ora. 
              Quando ritornò in sé da  quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si  fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e  profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno  d’inchiostro. Stette in ascolto e non senti nessun rumore: solamente di tanto  in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio  non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai  polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo  d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana. 
              Pinocchio, sulle prime,  s’ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di  trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a  strillare: e piangendo diceva: 
  — Aiuto! aiuto! Oh povero  me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi? 
  — Chi vuoi che ti salvi,  disgraziato?… — disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata. 
  — Chi è che parla così? —  domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento. 
  — Sono io! sono un povero  Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei? 
  — Io non ho che vedere  nulla coi pesci. Io sono un burattino. 
  — E allora, se non sei un  pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro? 
  — Non son io, che mi son  fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo  fare qui al buio?… 
  — Rassegnarsi e aspettare  che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!… 
  — Ma io non voglio esser  digerito! — urlò Pinocchio, ricominciando a piangere. 
  — Neppure io vorrei esser  digerito, — soggiunse il Tonno, — ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo  pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che  sott’olio!… 
  — Scioccherie! — gridò  Pinocchio. 
  — La mia è un’opinione, —  replicò il Tonno, — e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno  rispettate! 
  — Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire… 
  — Fuggi, se ti riesce!… 
  — È molto grosso questo  Pesce-cane che ci ha inghiottiti? — domandò il burattino. 
  — Figùrati che il suo corpo  è più lungo di un chilometro, senza contare la coda. 
              Nel tempo che facevano  questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una  specie di chiarore. 
  — Che cosa sarà mai quel  lumicino lontano lontano? — disse Pinocchio. 
  — Sarà qualche nostro  compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser digerito!…. 
  — Voglio andare a trovarlo.  Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi  la strada per fuggire? 
  — Io te l’auguro di cuore,  caro burattino. 
  — Addio, Tonno. 
  — Addio, burattino; e buona  fortuna. 
  — Dove ci rivedremo?… 
  — Chi lo sa?… È meglio non  pensarci neppure!  | 
  | 
CAPÍTULO XXXIV 
Pinocho, es arrojado al mar y devorado por los peces.   --Vuelve a su primitivo estado de muñeco; pero mientras nada para   salvarse, se lo traga el terrible dragón marino. 
 
Ya llevaba el burro más de cincuenta minutos en el mar, cuando el que lo había comprado dijo para sí: 
              -Ya debe estar ahogado y más que ahogado. ¡Ea! Voy a   sacarlo, y aquí mismo le arrancaré la piel para hacer un magnífico   tambor. 
              Comenzó a tirar de la soga que había atado a la pata de   Pinocho, y tirando, tirando, tirando... ¡Qué diréis que sacó! Pues, en   vez de un burro muerto, se encontró con un muñeco vivo, que se retorcía   como una anguila. 
              Al ver aquel muñeco de madera creyó soñar el pobre hombre,   y se quedó como atontado, con la boca abierta y los ojos asustados. 
              Cuando se repuso un poco de la primera impresión, dijo balbueando y hecho un mar de lágrimas: 
              -Pero, ¿y mi burro! ¿Dónde está el burro que he tirado al mar? 
              -¡Ese burro soy yo! -respondió el muñeco riéndose. 
              -¿Tú? 
              -¡Yo! 
              -¡Granuja! ¡No consiento que te burles de mí! 
              -¿Burlarme de usted? Todo ]o contrario, querido amo; le hablo completamente en serio. 
              -Pero, ¿cómo es posible que siendo tú hace poco un burro   de carne y hueso, te hayas convertido dentro del mar en un muñeco de   madera? 
              -¡Psch !... ¡Cosas del agua del mar! Al mar le gustan estas bromas. 
              -¡Mucho ojo con tomarme el pelo, muñeco; múcho ojo! ¡Como se me acabe la paciencia, pobre de ti! 
              -Pues bien, mi amo: ¿quiere usted saber toda la verdadera   historia? Pues yo se la contaré; pero antes hágame el favor de soltarme   esa soga, que me hace daño. 
              Deseando conocer aquella verdadera historia, que prometía   ser maravillosa, el bueno del comprador desató el nudo que sujetaba la   pierna de Pinocho, que quedó libre como un pájaro en el aire, y empezó   de este modo su relación: 
              -Sepa usted que yo era antes un muñeco de madera, como lo   soy ahora; pero por mi poca afición al estudio y por seguir los consejos   de malas compañías, me escapé de mi casa, y un día me desperté siendo   un pollino, con unas orejas así de grandes y una cola así de larga. ¡Qué   vergüenza más grande pasé! Una vergüenza como no quiera Dios que la   pase usted nunca, querido amo. Me llevaron al mercado de ganados, y me   compró el Director de una compañía ecuestre, al cual se le metió en la   cabeza hacer de mí un gran bailarín y gran saltador de aro; pero una   noche di una mala caída durante la función, y me quedé cojo de las dos   patas. Entonces el Director dijo que no quería a su lado un burro cojo, y   me envió a vender al mercado, que fue cuando usted me compró. 
              -¡Por mi desgracia! ¡Como que pagué por ti veinte perros chicos! Y ahora, ¡quién va a devolverme mi dinero! 
              -¿Para qué me compró usted? ¡Para hacer un tambor con mi piel! ¡Un tambor! 
              -Dime ahora, monigote impertinente: ¿has terminado ya tu historia? 
              -No -respondió el muñeco-; faltan pocas palabras para   terminarla. Después de haberme comprado me trajo usted a este sitio para   matarme; pero, sintiéndose compasivo, prefirió atarme una piedra al   cuello y tirarme al mar. Este sentimiento de humanidad le honra a usted   mucho y se lo agradeceré eternamente. Pero usted no había contado con el   Hada. 
              -¿Y quién es esa Hada? 
              -Es mi mamá, que como todas las mamás buenas que quieren   mucho a sus hijos, no les pierden nunca de vista, y cuidan de ellos   amorosamente, aunque estén muy lejos, y aunque esos hijos, por su mala   conducta, por sus travesuras y por sus escapatorias, merezcan que se les   deje abandonados y no se les vuelva a hacer caso en toda la vida.   Decía, pues, que apenas mi buena Hada me vio en peligro de ahogarme,   envió alrededor de mí un ejercito de peces, que comenzaron a comerme,   creyendo que era un burro de verdad. ¡Y qué bocados tiraban! Nunca   hubiera creído que los peces fueran aún más glotones que los niños. Unos   me comían las orejas, otros el hocico, otros el cuello y la crin, otros   las patas; en fin, hasta hubo uno, chiquitín y muy gracioso, que tuvo   la bondad de comerme la cola. 
              -¡Desde hoy -dijo horrorizado el comprador- juro no comer   ningún pescado! ¡Me desagradaría mucho comer un salmonete o un besugo y   encontrarme con un pedazo de cola de burro! 
              -Estamos de acuerdo -dijo riendo el muñeco-. Después,   cuando ya los peces terminaron de comer toda aquella envoltura de carne y   de piel de burro que me cubría desde la cabeza hasta los pies,   llegaron, como es natural, al hueso, o, por mejor decir, a la madera;   porque, como usted verá, estoy hecho de una madera muy dura. Pero apenas   trataron de tirar algunos bocados, se convencieron, a pesar de su   glotonería, de que yo no era plato a propósito para ellos, y se fueron   cada cual por su lado con la barriga llena, sin darme ni siquiera las   gracias por el banquete que les había proporcionado. Y aquí tiene usted   explicado por qué, cuando ha tirado de la soga, se ha encontrado usted   con un muñeco vivo, en vez de un burro muerto. 
              -¡Bueno, bueno! ¡Toda esa historia me importa un rábano!   -gritó el comprador, encolerizado-. Lo que yo sé es que he dado veinte   perros chicos por ti, y quiero mi dinero. ¿Sabes lo que voy a hacer?   Llevarte de nuevo al mercado y venderte como leña para encender la   chimenea. 
              -¡Oh, muy bien! ¡No tengo el menor inconveniente! -dijo Pinocho. 
              Pero al mismo tiempo dio un salto y se zambulló en el   agua. Y mientras nadaba alegremente, alejándose de la orilla, gritaba al   pobre comprador: 
              -¡Adiós, mi amo; si necesita usted una piel para hacer un tambor, acuérdese de mí! 
              Y se reía estrepitosamente y seguia nadando, para volverse poco después y gritar con más fuerza: 
              -¡Adiós, mi amo; si necesita usted un poco de leña para encender la chimenea, acuérdese de mí! 
              Poco después se había alejado tanto de la orilla, que ya   no se le distinguía más que como un punto negro en la superficie del   agua, que de vez en cuando sacaba fuera un brazo o una pierna, o bien   daba saltos como un delfín que está de buen humor. 
              Nadando a la ventura, vio Pinocho en medio del mar un   islote que parecía de mármol blanco, y en lo más alto de él una linda   cabrita que balaba tiernamente y que le hacía señas de que se acercase. 
              Lo más singular del caso era que el pelo de la cabrita, en   vez de ser blanco, o negro, o rojo, como el de las demás cabras, era de   color azul turquí; pero tan brillante, que se parecía mucho a los   cabellos de la hermosa niña. 
              ¡Figuraos cómo latiría el corazón del pobre Pinocho!   Redobló sus esfuerzos para nadar más de prisa en dirección del islote   blanco, y ya habría avanzado una mitad de la distancia, cuando he aquí   que vio salir del agua la horrible cabeza de un monstruo marino con la   boca abierta, que parecía una caverna, y tres filas de dientes que   hubieran causado miedo con sólo verlos pintados. 
              ¿Sabéis quién era aquel monstruo marino? 
              Pues aquel monstruo marino era nada menos que el   gigantesco dragón de que se ha hablado varias veces en esta historia, y   que por su insaciable voracidad venía causando tales estragos por   aquellos mares, que se le llamabn el «Atila de los peces y de los   pescadores». 
              ¡Cuál no sería el espanto del pobre Pinocho a la vista del   monstruo! Trató de escaparse, de cambiar de dirección, de huir; pero   todo era inútil; aquella enorme boca se le venia siempre encima con la   velocidad de un tren expreso. 
              -¡Date prisa, Pinocho, por Dios! -gritaba, balando, la linda cabrita. 
              Y Pinocho nadaba desesperadamente con los brazos, con las piernas, con el pecho, con todo el cuerpo. 
              -¡Corre, Pinocho, corre; que se acerca el monstruo! 
              Y Pinocho redoblaba sus esfuerzos para aumentar la velocidad. 
              -¡Más de prisa, Pinocho, que te coge! ¡Ya está ahí! ¡Más a prisa o estás perdido! ¡Que te coge! ¡Que te coge! 
              Y Pinocho nadaba desesperadamente y se deslizaba por el agua como una bala de fusil. 
              Ya se acercaba al escollo, y ya la linda cabrita se   inclinaba sobre la orilla, alargándole las dos patitas delanteras para   ayudarle a salir del agua; pero... 
              ¡Pero ya era tarde! Tan cerca estaba el monstruo, que no   hizo más que dar un sorbo, y se tragó al muñeco con el agua que le   rodeaba, como quien se sorbe un huevo de gallina. Y se lo tragó con tal   ansia y violencia, que Pinocho se dio contra una muela del drag-ón un   golpe tan tremendo, que le hizo estar sin sentido un cuarto de hora. 
              Cuando volvió de su desmayo no sabía en qué mundo se   encontraba. En torno suyo reinaba una gran oscuridadl pero tan negra y   profunda, que le parecía hallarse en la bolsa de tinta de un calamar. 
              Quiso escuchar, pero no oyó ruido alguno; únicamente   sentía de cuando en cuando una bocanada de aire que le daba en la cara.   Al principio no podía saber de dónde vendría aquel aire; pero después   comprendió que salía de los pulmones del monstruo. Porque hay que   advertir que el monstruo padecía mucho de asma, y cuando respiraba   parecía que se había desatado el huracán. 
              Al pronto trató Pinocho de infundirse a sí mismo algún   valor; pero cuando ya tuvo la seguridad de que se encontraba encerrado   en el cuerpo del monstruo marino, empezó a llorar y a gritar, diciendo: 
              -¡Socorro! ¡Socorro! ¡Desgraciado de mí! ¿No hay quien venga a salvarme? 
              -¿Y quién va a salvarte, desgraciado? -contestó en aquella   oscuridad una voz cascada, como de guitarra sin templar. 
              -¿Quién me ha hablado? -preguntó Pinocho, sintiendo aún mayor espanto. 
              -¡Soy yo: un mísero bacalao que el dragón ha engullido lo mismo que a ti! ¿Y tú, qué pez eres? 
              ¡Que pez ni qué narices! ¡Yo no soy pez de ninguna clase! ¡Yo soy un muñeco! 
              -Pues si no eres un pez, ¿Por qué te has dejado tragar por el monstruo? 
              -¡Hombre, eso no se le ocurre más que a un bacalao! He   hecho todo lo posible para que no me tragara; pero se ha empeñado, y   como este diablo de dragón corre que se las pela.. Bueno, ¿y qué hacemos   en esta oscuridad? 
              -Resignarnos y esperar a que el dragón nos digiera a los dos. 
              -¡Es un lindo porvenir! -dijo Pinocho. 
              Y poniéndose muy triste de repente, empezó a llorar como un becerro. 
              -Hombre, a mi tampoco me hace una gracia extraordinaria   -contestó el bacalao-; pero soy filósofo, y me resigno. Bien mirado,   hasta me alegro; porque cuando uno nace bacalao, es más honroso morir en   el agua que en el aceite frito. 
              -¡Valiente majadería! -dijo Pinocho. 
              -Es una opinión; y como dicen los peces de la política, todas las opiniones deben ser respetadas. 
              -Bueno, yo lo que digo es que quiero salir de aquí, que quiero escaparme. 
              -Prueba, si lo consigues, mejor para ti. 
              -¿Es muy grande este dragón que nos ha tragado? -preguntó el muñeco. 
              -Figúrate que su cuerpo tiene más de un kilómetro de largo, sin contar la cola. 
              Mientras así conversaba Pinocho en aquella oscuridad, le   parecio ver allá lejos, pero muy lejos, una especie de resplandor. 
              -¿Qué será aquella ]uceclta que se ve allá lejos? -dijo Pinocho. 
              -Será algún compañero nuestro de desgracia, que estará esperando, igual que nosotros, el momento de ser digerido. 
              -Me voy a buscarle. ¿Quizá sea algún pez viejo que pueda enseñarme la salida! 
              -Te lo deseo con toda mi alma, simpático muñeco. 
              -¡Adiós, amable bacalao! 
              -¡Adiós, muñeco, y buena suerte! 
              -¿Dónde volveremos a vernos? 
              -¡Vete a saber! ¡Vale más no pensarlo!  |