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Capitolo 36

Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo.

Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana.

Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa? Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per confortarlo:
— Coraggio babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.
— Ma dov’è questa spiaggia benedetta? — domandò il vecchietto diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. — Eccomi qui, che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare.
— Ma io vedo anche la spiaggia, — disse il burattino. — Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno.
Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buonumore: ma invece… Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso… insomma non ne poteva più, la spiaggia era sempre lontana.
Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte:
— Babbo mio, aiutatemi… perché io muoio! E il padre e il figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse:
— Chi è che muore?
— Sono io e il mio povero babbo!…
— Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!…
— Preciso: e tu?
— Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.
— E come hai fatto a scappare?
— Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io.
— Tonno mio, tu càpiti proprio a tempo! Ti prego per l’amor che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: aiutaci, o siamo perduti.
— Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutt’e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva.
Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.
— Siamo troppo pesi?… — gli domandò Pinocchio.
— Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchiglia, — rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta, da parere un vitello di due anni.
Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto; poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:
— Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!…
Il Tonno cacciò il muso fuori dall’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e spari.
Intanto s’era fatto giorno.
Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse:
— Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi ci riposeremo lungo la via.
— E dove dobbiamo andare? — domandò Geppetto.
— In cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da letto.
Non avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina.
Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella trista ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.
— O Pinocchio, — gridò la Volpe con voce di piagnisteo, — fai un po’ di carità a questi due poveri infermi.
— Infermi! — ripeté il Gatto.
— Addio, mascherine! — rispose il burattino. — Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più.
— Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!
— Davvero! — ripeté il Gatto.
— Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine!
— Abbi compassione di noi!…
— Di noi!…
— Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca».
— Non ci abbandonare!…
— …are! — ripeté il Gatto.
— Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia».
E così dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada: finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola in mezzo ai campi una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di mattoni.
— Quella capanna dev’essere abitata da qualcuno, — disse Pinocchio. — Andiamo là e bussiamo.
Difatti andarono, e bussarono alla porta.
— Chi è? — disse una vocina di dentro.
— Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto, — rispose il burattino.
— Girate la chiave, e la porta si aprirà, — disse la solita vocina.
Pinocchio girò la chiave, e la porta si apri. Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno.
— O il padrone della capanna dov’è? — disse Pinocchio maravigliato.
— Eccomi quassù!
Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello il Grillo-parlante
— Oh! mio caro Grillino, — disse Pinocchio salutandolo garbatamente.
— Ora mi chiami il «tuo caro Grillino», non è vero? Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di legno?…
— Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me… tira anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo…
— Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
— Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna?
— Questa capanna mi è stata regalata ieri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino.
— E la capra dov’è andata? — domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.
— Non lo so.
— E quando ritornerà?…
— Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse: «Povero Pinocchio… oramai non lo rivedrò più… il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!…».
— Ha detto proprio così?… Dunque era lei!… era lei!… era la mia cara Fatina!… — cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente.
Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante:
— Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?
— Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Va’ da lui e troverai il latte, che cerchi.
Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio; ma l’ortolano gli disse:
— Quanto ne vuoi del latte?
— Ne voglio un bicchiere pieno.
— Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo.
— Non ho nemmeno un centesimo, — rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente.
— Male, burattino mio, — replicò l’ortolano. — Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.
— Pazienza! — disse Pinocchio e fece l’atto di andarsene.
— Aspetta un po’, — disse Giangio. — Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?
— Che cos’è il bindolo?
— Gli è quell’ordigno di legno, che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna, per annaffiare gli ortaggi.
— Mi proverò…
— Dunque, tirami su cento secchie d’acqua e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.
— Sta bene.
Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.
— Finora questa fatica di girare il bindolo, — disse l’ortolano, — l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
— Mi menate a vederlo? — disse Pinocchio.
— Volentieri.
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova!
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
— Chi sei?
A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
— Sono Lu…ci…gno…lo.
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
— Oh! povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.
— Ti commovi tanto per un asino che non ti costa nulla? — disse l’ortolano. — Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
— Vi dirò… era un mio amico!…
— Tuo amico?
— Un mio compagno di scuola!…
— Come?! — urlò Giangio dando in una gran risata. — Come?! avevi dei somari per compagni di scuola!… Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!…
Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.
E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da sé stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo alle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria.
Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.
Fatto sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.
Una mattina disse a suo padre:
— Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un paio di scarpe. Quando tornerò a casa, — soggiunse ridendo, — sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore.
E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella Lumaca che sbucava fuori della siepe.
— Non mi riconosci? — disse la Lumaca.
— Mi pare e non mi pare…
— Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? Non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa?
— Mi rammento di tutto, — gridò Pinocchio. — Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? che fa? mi ha perdonato? si ricorda sempre di me? mi vuol sempre bene? è molto lontana da qui? potrei andare a trovarla?
A tutte queste domande fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma:
— Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!…
— Allo spedale?…
— Pur troppo! Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata e non ha più da comprarsi un boccon di pane.
— Davvero?… Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera Fatina!… Se avessi un milione, correrei a portarglielo… Ma io non ho che quaranta soldi… eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va’ a portarli subito alla mia buona Fata.
— E il tuo vestito nuovo?…
— Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Va’, Lumaca, spìcciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto.
La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto.
Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:
— E il vestito nuovo?
— Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!… Lo comprerò un’altra volta.
Quella sera Pinocchio, invece di vegliare flno alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte suonata; e invece di far otto canestre di giunco ne fece sedici.
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così.
— Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice.
A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.
Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: « La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore ». Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
— E il mio babbo dov’è? — gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.
— Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? — gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
— Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo, — disse Geppetto.
— Perché merito mio?…
— Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.
— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
— Eccolo là, — rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
— Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…

 

CAPÍTULO XXXVI

Por fin Pinocho deja de ser un muñeco y se transforma en un muchacho.

Mientras Pinocho nadaba velozmente hacia la playa, notó que su padre, siempre a caballo sobre su espalda y con las piernas dentro del agua, temblaba sin cesar como si estuviese con fiebres tercianas.
¿Temblaba de frío o de miedo? ¡Vaya usted a saber! Quizás de las dos cosas. Pero Pinocho, creyendo que era solo de miedo, le dijo para animarle:
-¡Valor, papaíto! ¡Dentro de pocos minutos llegaremos a tierra y estaremos a salvo!
-Pero, ¿dónde está esa dichosa playa? -preguntó el viejecito, cada vez más inquieto y mirando por todas partes-. Yo no veo más que cielo y mar de frente, a derecha y a izquierda.
-Pues yo sí la veo -dijo el muñeco-. Te advierto que yo soy como los gatos: veo mejor de noche que de día.
El pobre Pinocho fingía buen humor y confianza, pero... Pero empezaba a perderla y a desazonarse. Estaba muy cansado, su respiración era cada vez más jadeante; en suma: veía que se le acababan las fuerzas y que la playa aún estaba muy lejos.
Siguió nadando, nadando; pero llegó un momento en que no pudo más, y volviendo la cabeza hacia su padre, le dijo con voz entrecortada:
-¡Papá!... ¡Papá!... ¡No tengo fuerzas!... ¡Me muero!...
Ya estaba casi desmayado, y empezaban a hundirse los dos, cuando oyeron una voz de guitarra desafinada que decía:
-¿Quién es el que se muere?
-iSoy yo y mi pobre papá!
-iYo conozco esa voz:! iEres Pinocho!
-iEl mismo! Y tú, ¿quién eres!
-Yo soy el bacalao, tu compañero en la barriga del dragón.
-¿Cómo has conseguido escapar?
-He imitado tu ejemplo. Tú me has enseñado el camino, y yo no he hecho más que seguirte.
-¡Oh, querido bacalao; no has podido llegar más a tiempo! iPor nuestra amistad, por la salud de la respetable bacalada, tu mujer, y de tus bacalaítos, te ruego que nos ayudes, porque si no estamos perdidos!
-¡Pero, hombre! ¡Pues ya lo creo! ¡Con mil amores ¡agarraros a mi cola y dejaos llevar! ¡En cuatro minutos os conduciré a la orilla!
Ya podéis suponeros que padre e hijo se apresuraron a aceptar la amable invitación del buen bacalao; pero en vez de agarrarse a la cola, creyeron mucho más cómodo sentarse encima de él, pues era un bacalao mucho mayor que los corrientes y con una fuerza tan grande, que era campeón de boxeo en su pueblo.
-¿Pesamos mucho? -le preguntó Pinocho.
-¡Ca, hombre! ¡Absolutamente nada! ¡Me parece llevar encima dos conchas de almeja! -respondió el complaciente bacalao.
Al llegar a la orilla saltó Pinocho el primero, y ayudó a su papá a hacer lo mismo. Después. dirigiéndose al bacalao, le dijo con voz conmovida:
-¡Amigo mío, has salvado a mi padre, y mi agradecimiento es tan inmenso, que no puede expresarse con palabras! ¡No te olvidaré nunca, porque los ingratos son los más despreciables de los hombres!
Ahora permíteme que te de un beso en señal de eterna gratitud.
El bacalao sacó la cabeza del agua, y Pinocho se acercó y le dio un cariñoso beso en la boca. Ante esta expresiva muestra de afecto, a la que no estaba acostumbrado, el pobre bacalao se conmovio de tal manera, que, avergonzándose de que se le viera llorar como un chiquillo, metió la cabeza en el agua y desapareció.
Mientras tanto se había hecho de día.
Entonces Pinocho ofreció el brazo a su padre, que apenas tenía fuerzas para ponerse en pie, y le dijo:
-Apóyate en mi brazo, querido papá, y vamos andando muy despacito, como las hormigas, y cuando estemos cansados nos sentaremos junto al camino.
-¿Y adónde vamos! -preguntó.
-En busca de una casa o de una cabaña donde nos den por caridad un pedazo de pan y un poco de paja donde dormir.
Aun no habian andado cien pasos, cuando vieron sentados en la linde del camino dos tipos muy feos, en actitud de pedir limosna.
Eran el gato y la zorra; pero apenas si se podía reconocerlos. El gato, a fuerza de fingirse ciego, había cegado de verdad; y la zorra, envejecida y desastrada, andaba con muletas y estaba sin cola, porque hallándose un día en la mayor miseria, se vio obligada a vender su magnífica cola a un buhonero, que la compró para hacer un limpiatubos.
¡Oh, Pinocho! -gritó la zorra con voz plañidera-. ¡Una limosna para dos pobres enfermos que no ]o pueden ganar!
-¡No lo pueden ganar! -repitió el gato.
-¡Ah, bribones! -respondió el muñeco-. Me engañasteis una vez, pero ya he escarmentado. Adiós granujas!
-¡Créenos, Pinochito; que ahora es verdad que somos muy desgraciados y estamos en la miseria!
-¡En la miseria! -repitió el gato.
-¡Si sois pobres, bien empleado os está! ¡Quien mal anda, mal acaba! ¡Ahora pagáis las maldades que habéis cometido! ¡Adiós, granujas!
-¡Ten lástima de nosotros!
-¡De nosotros!
-¿La tuvisteis antes de mí? ¡Adiós, granujas!
Y Pinocho y su papá siguieron su camino tranquilamente. Unos cien pasos más allá vieron a lo lejos una -preciosa cabaña de paja, con el techo cubierto de flores azules.
-En aquella cabaña debe de vivir alguien -dijo Pinocho-. Vamos allá, y llamaremos.
Así lo hicieron.
-¿Quién es? -dijo desde dentro una vocecita.
-¡Somos un pobre papá y un pobre hijo sin pan ni hogar! -respondió el muñeco.
-¡Empujad la puerta y entrad! -dijo la misma vocecita.
Pinocho abrió la puerta, y entraron; pero por más que miraron, no vieron a nadie.
-¿Dónde está el dueño de esta cabaña? -preguntó Pinocho admirado.
-¡Aquí arriba estoy!
Padre e hijo se volvieron hacia el techo, y vieron en una viga al grillo parlante...
-¡Oh, mi querido grillito! -exclamó Pinocho saludando graciosamente.
-Ahora me llamas «tu querido grillito», ¿no es verdad? Pero, ¿te acuerdas de cuando me tirabas un mazo para arrojarme de tu casa?
-¡Tienes razon, grillito! ¡Arrójame también a mí de tu casa, tírame otro mazo, pero ten compasión de mi pobre papá!
-Tendré compasión no sólo del pobre padre sino también del hijo; pero te he recordado la mala acción que cometiste conmigo, para enseñarte que en este mundo se debe ser cortés con todos si se quiere que tengan con nosotros igual cortesia.
-¡Tienes razón, grillito; tienes razón que te sobra, y no olvidaré nunca la leccián que me has dado! Pero, oye: ¿cómo te has arreglado para comprarte esta cabaña tan bonita?
-Esta cabaña me la regaló ayer una linda cabrita que tenía el pelo de hermoso color azul turquí.
-¿Y adónde se fue la cabrita? -preguntó Pinocho con grandísimo interés.
-No lo sé.
-¿Y cuándo volverá?
-No volvera nunca. Ayer se marchó muy afligida, y balando parecia decir: «¡Pobre Pinocho; ya no volveré a verle más! A estas horas lo habrá devorado el dragón».
-¿Dijo eso? ¡Entonces era ella, mi -ueridísima Hada! -grití Pinocho llorando y sollozando desesperadamdnte.
Después de llorar un buen rato se secó los ojos, y preparando un buen lecho de paja, acostó en él al pobre viejo. Luego preguntó al grillo parlante:
-Dime, amable grillo: ¿dónde podría encontrar un poco de leche para mi padre?
-Ahí al lado vive el hortelano Juanón, que tiene vacas de leche, ve a su establo y encontrarás lo que buscas.
Pinocho fue a casa del hortelano Juanón, pero éste le dijo:
-¿Cuánta leche quieres?
Un vaso lleno.
-Un vaso lleno cuesta diez céntimos. Dame primero los cuartos.
-Pero, ¡si no tengo un céntimo! -respondió Pinocho tristemente.
-Pues, hijo -replicó el hortelano-, si tú no tienes un céntimo, yo no tengo ni un dedo de leche.
-¡Todo sea por Dios! -dijo Pinocho haciendo ademán de marcharse.
-¡Espera un poco! -exclamó entonces Juanón-. Creo que aún podremos arreglarnos. ¿Quieres dar vueltas a la noria?
-¿Y qué es la noria?
-Pues mira: no es más que ir tirando de ese palo largo que ves ahí, y que sirve para sacar del pozo agua con que regar las hortalizas.
-Probaré.
-Si me sacas cien cubos de agua, te daré en cambio un vaso de leche.
-¡Está bien!
Juanón condujo a Pinocho a la huerta, y le enseñó la manera de sacar agua de la noria. Pinocho se puso en el acto al trabajo; pero antes de haber sacado los cien cubos de agua estaba ya bañado en sudor de la cabeza a los pies. Nunca había sentido tanta fatiga.
-Hasta ahora venía haciendo este trabajo mi borriquillo -dijo el hortelano-, pero el pobre animal se está muriendo.
-¿Podría verle? -dijo Pinocho.
-Sin inconveniente. Ven conmigo.
Apenas hubo entrado Pinocho en la cuadra, vio un lindo borriquillo extendido sobre la paja; conocíase a primera vista que el hambre y el exceso de trabajo habían llevado a aquel pobre animal a tan desesperada situación. Después de mirar fijamente al burro, se dijo Pinocho:
-¡Yo conozco a este borrico! ¡Su cara no es nueva para mí!
Y arrodillándose al lado del animal, le preguntó en lenguaje asnal.
-¿Quién eres?
Al oir esta pregunta, abrió el borriquillo los moribundos ojos, y balb;ceó én el mismo ]enguaje:
-¡Soy Es... pá... rra... go!
Y, cerrando los ojos, expiró.
-¡Pobre Espárrago! -dijo Pinocho a media voz, y tomando un puñado de paja, se enjugo una lágrima que corría por sus mejillas.
-Mucho te conmueve la muerte de un burro que no te ha costado nada -dijo el hortelano-. Pues, ¿qué debía hacer entonces yo que le he comprado con mi dinero contante y sonante?
-Le diré a usted. Era amigo mío...
-¿Amigo tuyo?
-Y compañero de escuela.
-¿Cómo? -exclamó Juanón soltando una carcajada-. ¿Has tenido burros por compañeros de escuela? ¡Valientes estudios haríais!
Mortificado por estas palabras, no respondió Pinocho; tomó su vaso de leche, aún caliente, y se fue a la cabaña.
Y desde aquel día en adelante, se levantó todas las mañanas antes del alba para ir a la noria, y ganar de este modo aquel vaso de leche que sentaba tan bien a su pobre padre. No se contentó con esto, sino que andando el tiempo se dedicó a fabricar cestas y canastos de junco, y con el dinero que ganaba atendía cuidadosamente a los gastos necesarios. Fabricó también, entre otras muchas cosas, un elegante carrito para llevar a su papá de paseo cuando hacía buen tiempo, para que tomase el aire y el sol.Durante las primeras horas de la noche se ejercitaba en leer y escribir. Por unos cuantos céntimos había comprado en la población vecina un libro muy grande, al cual sólo le faltaban unas hojas del principio y el ÍNDICE, y en este libro hacía su lectura. Para escribir se servía de una paja cortada a guisa de pluma; y como no tenía tinta, ni siquiera de calamares, mojaba su pluma en una jicara en la que había echado jugo de moras o de guindas.
Con su constante deseo de trabajar y su incansable actividad, no sólo conseguia atender cumplidamente a todas las necesidades de la vida, y especialmente a las de su padre enfermo, sino que había podido ahorrar hasta unas cuarenta perras chicas para comprarse un traje nuevo.
Una mañana dijo a su padre:
-Me voy al mercado vecino para comprarme una chaqueta, un gorro y un par de zapatos. Cuando vuelva a casa -agregó sonriendo-, estaré tan elegante, que no me cambiaré por un gran señor.Y en cuanto salió de casa, comenzó a correr alegre y contento. A poco oyó que pronunciaban su nombre, y al volverse vio un caracol que salía de entre un matorral.
-¿No te acuerdas de mi?
-Por un lado me parece que sí, y por otro que no.
-¿No te acuerdas de aquel caracol que estaba al servicio del Hada de cabellos azules? ¿No te acuerdas de aquella noche que bajé a abrirte la puerta y estabas con un pie sujeto entre las tablas?
-Me acuerdo de todo -interrumpió Pinocho-; pero contéstame en seguida, mi buen caracol. ¿Dónde has dejado a mi buena Hada? ¿Qué hace? ¿Me ha perdonado? ¿Se acuerda de mi? ¿Sigue queriéndome ]o mismo? ¿Está muy ]ejos de aquí? ¿Dónde podria encontrarla?
A todas estas preguntas, hechas precipitadamente y sin tomar aliento, contestó el caracol con su acostumbrada calma:
-Pinocho mio, la pobre Hada esta en el hospital.
-¿En el hospital?
-Desgraciadamente. Perseguida por las calamidades y gravemente enferma, hoy no tiene ni para comprar un triste pedazo de pan.
Pero, ¿es de veras? ¡Oh, qué pena tan grande! ¡Pobre Hada mía! ¡Si tuviera un millón, correría para entregárrelo, pero no tengo más que cuarenta perros chicos! ¡Míralos! Era lo justo para comprarme un traje nuevo. ¡Tómalos, caracol, y corre a llevárselos a mi buen Hada!
-¿Y tu traje nuevo?
-¿Qué importa del traje nuevo? ¡Vendería hasta los harapos que llevo encima para poder ayudarla! ¡Anda, caracol, despacha pronto! Vuelve por aquí dentro de dos días, y espero que podré darte alguna otra perrilla. Hasta ahora he trabajado para mantener a mi padre; desde hoy en adelante, trabajaré cinco horas más para mantener también a mi buena mamá. ¡Vete ya, caracol, y hasta dentro de dos días!
Contra su costumbre, echó a correr el caracol como una lagartija durante los calores del verano.
Cuando Pinocho volvió a la cabaña, le preguntó su papá:
-¿Y el vestido nuevo?
-No he podido encontrar uno que me sentara bien. ¡Paciencia! ¡Otra vez lo compraré!
En vez de velar aquella noche hasta las diez, Pinocho estuvo trabajando hasta después de media noche, y en vez de ocho canastos hizo dieciséis.
Después se acostó, y se quedo dormido. Y mientras dormía, le pareció que veía en sueños a su Hada, bella y risueña, que le decía, después de haberle besado cariñosamente.
-¡Muy bien, Pinocho! ¡Por el buen corazón que has demostrado tener, te perdono todas las travesuras que has hecho hasta hoy! Los muchachos que atienden amorosamente a sus padres en la miseria y en la enfermedad, merecen siempre ser queridos, aunque no se los pueda citar como modelos de obediencia ni de buena conducta. Ten juicio en adelante, y serás feliz.
En este momento terminó el sueño y despertó Pinocho.
Ahora imaginaos vosotros cual sería su estupor cuando, al despertar, advirtió que ya no era un muñeco de madera, sino que se había convertido en un chico como todos los demás.
Miró en torno suyo, y en vez de las paredes de paja de la cabaña, vio una linda habitación amueblada con elegante sencillez. Salió de la cama y se encontró con un lindo traje nuevo, una gorra nueva y un par de preciosos zapatos de charol.
Apenas se hubo vestido, sintió el natural deseo de registrar los bolsillos; y al meter la mano, encontró un portamonedas de marfil que tenía escritas las siguientes palabras: «El Hada de los cabellos azules devuelve a su querido Pinocho los cuarenta perros chicos, y le agradece mucho su buena acción». Cuando abrió el portamonedas, en vez de cuarenta monedas de cobre encontró otras cuarenta relucientes monedas de oro.
Luego, fue a mirarse al espejo, y le pareció ser otro. No vio ya reflejada en él la acostubrada imagen del muñeco de madera, sino la imagen viva e inteligente de un lindo muchacho con los cabellos castaños, los ojos celestes y con un aire alegre y festivo como la pascua florida.
En medio de tan maravillosos sucesos, ya no sabía Pinocho si todo era realidad o estaba soñando con los ojos abiertos.
¿Dónde está mi papa? -gritó poco después; y entrando en una habitación contigua, encontró al viejo Goro sano, listo y con su antiguo buen humor, que habiendo vuelto a su oficio de tallista, estaba dibujando una preciosa cornisa adornada de hojas, de flores y de cabezas de diversos animales.
-¡Papá mío! Dime, por favor, ¿qué quiere decir todo esto?
¿Cómo se explican estos cambios tan imprevistos? -le preguntó Pinocho, saltando a su cuello y cubriéndole el rostro de besos.
-Todos estos cambios imprevistos son debidos a tus méritos.
-¿Por qué a mis méritos?
-Porque cuando los muchachos se convierten de malos a buenos, tienen la virtud de dar otro aspecto nuevo y mejor a su familia y a todo lo que los rodea.
-¿Donde se habrá escondido el viejo Pinocho de madera?
-Helo ahí -contestó Goro, y le indicó un gran muñeco apoyado en una silla, con la cabeza inclinada a un lado, los brazos colgando y las piernas cruzadas y dobladas por la mitad, de tal forma que parecía un milagro que se pudiese sostener derecho.
Pinocho volviose a contemplarlo y, cuando lo hubo observado un poco, dijo para sí con grandísima complacencia:
-¡Qué cómico resultaba yo cuando era un muñeco! ¡Y qué contento estoy ahora de haberme transformado en un chico como es debido!






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