|
IV: Fu così
Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e
panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo.
- Ti conosco, - gli dicevo, - ti conosco...
Poi, a un tratto, esclamai:
- To'! Batta Malagna.
Presi un tridente, ch'era lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il
pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato
e sbuffante, portava il cappello su le ventitré.
Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi;
gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dall'attaccatura del collo
le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data l'imminenza
di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a
tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che indossasse invece,
bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra.
Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io
non so. Anche i ladri m'immagino, debbono avere una certa impostatura, ch'egli mi pareva
non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la
schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe
sapere com'egli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava
a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso,
una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, pover'uomo.
Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si
fanno rispettare.
Aveva commesso l'errore di scegliersi la moglie d'un paraggio superiore al suo, ch'era
molto basso. Or questa donna, sposata a un uomo di condizione pari alla sua, non sarebbe
stata forse così fastidiosa com'era con lui, a cui naturalmente doveva dimostrare, a ogni
minima occasione, ch'ella nasceva bene e che a casa sua si faceva così e così. Ed
ecco il Malagna, obbediente, far così e così, come diceva lei - per parere un signore anche
lui. - Ma gli costava tanto! Sudava sempre, sudava.
Per giunta, la signora Guendalina poco dopo il matrimonio, si ammalò d'un male di cui non
poté più guarire, giacché, per guarirne, avrebbe dovuto fare un sacrifizio superiore alle sue
forze: privarsi nientemeno di certi pasticcini coi tartufi, che le piacevano tanto, e di simili altre
golerie, e anche, anzi soprattutto, del vino. Non che ne bevesse molto; sfido! nasceva
bene: ma non avrebbe dovuto berne neppure un dito, ecco.
Io e Berto, giovinetti, eravamo qualche volta invitati a pranzo dal Malagna. Era uno spasso
sentirgli fare, coi dovuti riguardi, una predica alla moglie su la continenza, mentre lui mangiava,
divorava con tanta voluttà i cibi più succulenti:
- Non ammetto, - diceva, - che per il momentaneo piacere che prova la gola al passaggio
d'un boccone, per esempio, come questo - (e giù il boccone) - si debba poi star male un'intera
giornata. Che sugo c'è? Io son certo che me ne sentirei, dopo, profondamente avvilito.
Rosina! - (chiamava la serva) - Dammene ancora un po'. Buona, questa salsa majonese!
- Majonese! - scattava allora la moglie inviperita. - Basta così! Guarda, il Signore dovrebbe
farti provare che cosa vuol dire star male di stomaco. Impareresti ad aver considerazione
per tua moglie.
- Come, Guendalina! Non ne ho? - esclamava Malagna, mentre si versava un po' di vino.
La moglie, per tutta risposta, si levava da sedere, gli toglieva dalle mani il bicchiere e andava
a buttare il vino dalla finestra.
- E perché? - gemeva quello, restando.
E la moglie:
- Perché per me è veleno! Me ne vedi versare un dito nel bicchiere? Toglimelo, e va' a buttarlo
dalla finestra, come ho fatto io, capisci?
Malagna guardava, mortificato, sorridente, un po' Berto, un po' me, un po' la finestra, un
po' il bicchiere; poi diceva:
- Oh Dio, e che sei forse una bambina? Io, con la violenza? Ma no, cara: tu, da te, con la
ragione dovresti importelo il freno...
- E come? - gridava la moglie. - Con la tentazione sotto gli occhi? vedendo te che ne bevi
tanto e te l'assapori e te lo guardi controlume, per farmi dispetto? Va' là, ti dico! Se fossi
un altro marito, per non farmi soffrire...
Ebbene, Malagna arrivò fino a questo: non bevve più vino, per dare esempio di continenza
alla moglie, e per non farla soffrire.
Poi - rubava... Eh sfido! Qualche cosa bisognava pur che facesse.
Se non che, poco dopo, venne a sapere che la signora Guendalina se lo beveva di nascosto,
lei, il vino. Come se, per non farle male, potesse bastare che il marito non se ne accorgesse.
E allora anche lui, Malagna, riprese a bere, ma fuor di casa, per non mortificare
la moglie.
Seguitò tuttavia a rubare, è vero. Ma io so ch'egli desiderava con tutto il cuore dalla moglie
un certo compenso alle afflizioni senza fine che gli procurava; desiderava cioè che ella un
bel giorno si fosse risoluta a mettergli al mondo un figliuolo. Ecco! Il furto allora avrebbe
avuto uno scopo, una scusa. Che non si fa per il bene dei figliuoli?
La moglie però deperiva di giorno in giorno, e Malagna non osava neppure di esprimerle
questo suo ardentissimo desiderio. Forse ella era anche sterile, di natura. Bisognava aver
tanti riguardi per quel suo male. Che se poi fosse morta di parto, Dio liberi?... E poi c'era
anche il rischio che non portasse a compimento il figliuolo.
Così si rassegnava.
Era sincero? Non lo dimostrò abbastanza alla morte della signora Guendalina. La pianse,
oh la pianse molto, e sempre la ricordò con una devozione così rispettosa che, al posto di
lei, non volle più mettere un'altra signora - che! che! - e lo avrebbe potuto bene, ricco come
già s'era fatto; ma prese la figlia d'un fattore di campagna, sana, florida, robusta e allegra;
e così unicamente perché non potesse esser dubbio che ne avrebbe avuto la prole
desiderata. Se si affrettò un po' troppo, via... bisogna pur considerare che non era più un
giovanotto e tempo da perdere non ne aveva.
Oliva, figlia di Pietro Salvoni, nostro fattore a Due Riviere, io la conoscevo bene, da ragazza.
Per cagion sua, quante speranze non feci concepire alla mamma: ch'io stessi cioè per
metter senno e prender gusto alla campagna. Non capiva più nei panni, dalla consolazione,
poveretta! Ma un giorno la terribile zia Scolastica le aprì gli occhi:
- E non vedi, sciocca, che va sempre a Due Riviere?
- Sì, per il raccolto delle olive.
- D'un'oliva, d'un'oliva, d'un'oliva sola, bietolona!
La mamma allora mi fece una ramanzina coi fiocchi: che mi guardassi bene dal commettere
il peccato mortale d'indurre in tentazione e di perdere per sempre una povera ragazza,
ecc., ecc.
Ma non c'era pericolo. Oliva era onesta, di una onestà incrollabile, perché radicata nella
coscienza del male che si sarebbe fatto, cedendo. Questa coscienza appunto le toglieva
tutte quelle insulse timidezze de' finti pudori, e la rendeva ardita e sciolta.
Come rideva! Due ciriege, le labbra. E che denti!
Ma, da quelle labbra, neppure un bacio; dai denti, sì, qualche morso, per castigo, quand'io
la afferravo per le braccia e non volevo lasciarla se prima non le allungavo un bacio almeno
su i capelli.
Nient'altro.
Ora, così bella, così giovane e fresca, moglie di Batta Malagna... Mah! Chi ha il coraggio di
voltar le spalle a certe fortune? Eppure Oliva sapeva bene come il Malagna fosse diventato
ricco! Me ne diceva tanto male, un giorno, poi, per questa ricchezza appunto, lo sposò.
Passa intanto un anno dalle nozze; ne passano due; e niente figliuoli.
Malagna, entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla prima
moglie solo per la sterilità o per la infermità continua di questa, non concepiva ora neppur
lontanamente il sospetto che potesse dipender da lui. E cominciò a mostrare il broncio a
Oliva.
- Niente?
- Niente.
Aspettò ancora un anno, il terzo: invano. Allora prese a rimbrottarla apertamente; e in fine,
dopo un altro anno, ormai disperando per sempre, al colmo dell'esasperazione, si mise a
malmenarla senza alcun ritegno; gridandole in faccia che con quella apparente floridezza
ella lo aveva ingannato, ingannato, ingannato; che soltanto per aver da lei un figliuolo egli
l'aveva innalzata fino a quel posto, già tenuto da una signora, da una vera signora, alla cui
memoria, se non fosse stato per questo, non avrebbe fatto mai un tale affronto.
La povera Oliva non rispondeva, non sapeva che dire; veniva spesso a casa nostra per
sfogarsi con mia madre, che la confortava con buone parole a sperare ancora, poiché infine
era giovane, tanto giovane:
- Vent'anni?
- Ventidue...
E dunque, via! S'era dato più d'un caso d'aver figliuoli anche dopo dieci, anche dopo quindici
anni dal giorno delle nozze.
- Quindici? Ma, e lui? Lui era già vecchio; e se...
A Oliva era nato fin dal primo anno il sospetto che, via, tra lui e lei - come dire? - la mancanza
potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si ostinasse a dir di no. Ma se
ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva giurato a se stessa di mantenersi onesta,
e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento.
Come le so io queste cose? Oh bella, come le so!... Ho pur detto che ella veniva a sfogarsi
a casa nostra; ho detto che la conoscevo da ragazza; ora la vedevo piangere per l'indegno
modo d'agire e la stupida e provocante presunzione di quel laido vecchiaccio, e... debbo
proprio dir tutto? Del resto, fu no; e dunque basta.
Me ne consolai presto. Avevo allora, o credevo d'avere (ch'è lo stesso) tante cose per il
capo. Avevo anche quattrini, che - oltre al resto - forniscono pure certe idee, le quali senza
di essi non si avrebbero. Mi ajutava però maledettamente a spenderli Gerolamo II Pomino,
che non ne era mai provvisto abbastanza, per la saggia parsimonia paterna.
Mino era come l'ombra nostra; a turno, mia e di Berto; e cangiava con meravigliosa facoltà
scimmiesca, secondo che praticava con Berto o con me. Quando s'appiccicava a Berto,
diventava subito un damerino; e il padre allora, che aveva anche lui velleità d'eleganza,
apriva un po' la bocca al sacchetto. Ma con Berto ci durava poco. Nel vedersi imitato finanche
nel modo di camminare, mio fratello perdeva subito la pazienza, forse per paura
del ridicolo, e lo bistrattava fino a cavarselo di torno. Mino allora tornava ad appiccicarsi a
me; e il padre a stringer la bocca al sacchetto.
Io avevo con lui più pazienza, perché volentieri pigliavo a godermelo. Poi me ne pentivo.
Riconoscevo d'aver ecceduto per causa sua in qualche impresa, o sforzato la mia natura o
esagerato la dimostrazione de' miei sentimenti per il gusto di stordirlo o di cacciarlo in
qualche impiccio, di cui naturalmente soffrivo anch'io le conseguenze.
Ora Mino, un giorno, a caccia, a proposito del Malagna, di cui gli avevo raccontato le prodezze
con la moglie, mi disse che aveva adocchiato una ragazza, figlia d'una cugina del
Malagna appunto, per la quale avrebbe commesso volentieri qualche grossa bestialità. Ne
era capace; tanto più che la ragazza non pareva restìa; ma egli non aveva avuto modo finora
neppur di parlarle.
- Non ne avrai avuto il coraggio, va' là! - dissi io ridendo.
Mino negò; ma arrossì troppo, negando.
- Ho parlato però con la serva, - s'affrettò a soggiungermi. - E n'ho saputo di belle, sai?
M'ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e che, così all'aria, le sembra che
mediti qualche brutto tiro, d'accordo con la cugina, che è una vecchia strega.
- Che tiro?
- Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura di non aver figliuoli. La vecchia, dura, arcigna,
gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla morte della prima moglie del Malagna,
si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti
i modi per riuscirvi; che poi, disillusa, n'abbia detto di tutti i colori all'indirizzo di quel bestione,
nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia presa
anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sé lo zio. Ora, infine, che il vecchio
si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la nipote, chi sa qual'altra perfida idea quella
strega può aver concepito.
Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino:
- Sta' zitto!
Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia - avendo
notizia delle scene ch'erano avvenute e avvenivano in casa Malagna - pensai che il sospetto
di quella serva potesse in qualche modo esser fondato, e volli tentare, per il bene
d'Oliva, se mi fosse riuscito d'appurare qualche cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di
quella strega. Mino mi si raccomandò per la ragazza.
- Non dubitare, - gli risposi. - La lascio a te, che diamine!
E il giorno dopo, con la scusa d'una cambiale, di cui per combinazione quella mattina
stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar Malagna in casa
della vedova Pescatore.
Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore.
- Malagna, la cambiale!
Se già non avessi saputo ch'egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei accorto senza
dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido, scontraffatto, balbettando:
- Che... che cam..., che cambiale?
- La cambiale così e così, che scade oggi... Mi manda la mamma, che n'è tanto impensierita!
Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo spavento che per
un istante lo aveva oppresso.
- Ma fatto!... tutto fatto!... Perbacco, che soprassalto... L'ho rinnovata, eh? a tre mesi, pagando
i frutti, s'intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco?
E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m'invitò a sedere; mi presentò alle donne.
- Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote.
Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.
- Romilda, se non ti dispiace...
Come se fosse a casa sua.
Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non
ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia
di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia:
- Ma no! ma no! Da' qua!
Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca,
nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una
botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt'intorno, che tintinnivano.
Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda,
no.
Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva
di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno
a goder con più agio della compagnia delle signore.
Non mi parve, dall'aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse
con molto piacere l'annunzio d'una mia seconda visita: mi porse appena la mano:
gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò
la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno
sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una
così forte impressione: occhi d'uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime
ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l'ebano, ondulati, che le
scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de
la pelle.
La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi
e goffi nell'ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica,
per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un'umilissima
mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice
tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio
d'affamato. C'era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro
zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro,
di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano
con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova
Pescatore.
Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il
Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch'erano opera di Francesco Antonio
Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, - aggiunse piano),
del quale volle anche mostrarmi il ritratto.
- Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio.
Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc'anzi pensato: « Somiglierà al padre!
». Adesso, di fronte al ritratto di questo, non sapevo più che pensare.
Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi, vedova
Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta bello, capace
d'essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo più pazzo del marito.
Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore
d'ammirazione, ch'egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta
e d'aver la mia approvazione.
Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l'aria d'essere una
strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire infami del
Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza.
- E come? - mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.
- Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar
bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare
a me: t'ajuterò. Codesta avventura mi piace.
- Eh... ma... - obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi sulle spine nel
vedermi così infatuato. - Tu diresti forse... sposarla?
- Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?
- No, perché?
- Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch'ella è
davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c'è dubbio, e ti piace,
non è vero?) - oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della
madre e di quell'altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame:
proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un'opera santa, di salvazione?
- Io no... no! - fece Pomino. - Ma... mio padre?
- S'opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella, sai? è
figlia d'un artista, d'un valentissimo incisore, morto... sì, morto bene, insomma, a Torino...
Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può dunque contentare, senza badare alla
dote! Che se poi, con le buone, non riesci a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e
s'aggiusta ogni cosa. Pomino, hai il cuore di stoppa?
Pomino rise, e io allora gli dimostrai quattro e quattr'otto che egli era nato marito, come si
nasce poeta. Gli descrissi a vivi colori, seducentissimi, la felicità della vita coniugale con la
sua Romilda; l'affetto, le cure, la gratitudine ch'ella avrebbe avuto per lui, suo salvatore. E,
per concludere:
- Tu ora, - gli dissi, - devi trovare il modo e la maniera di farti notare da lei e di parlarle o di
scriverle. Vedi, in questo momento, forse, una tua lettera potrebbe essere per lei, assediata
da quel ragno, un'àncora di salvezza. Io intanto frequenterò la casa; starò a vedere;
cercherò di cogliere l'occasione di presentarti. Siamo intesi?
- Intesi.
Perché mostravo tanta smania di maritar Romilda? - Per niente. Ripeto: per il gusto di
stordire Pomino. Parlavo e parlavo, e tutte le difficoltà sparivano. Ero impetuoso, e prendevo
tutto alla leggera. Forse per questo, allora, le donne mi amavano, non ostante quel
mio occhio un po' sbalestrato e il mio corpo da pezzo da catasta. Questa volta, però, -
debbo dirlo - la mia foga proveniva anche dal desiderio di sfondare la trista ragna ordita da
quel laido vecchio, e farlo restare con un palmo di naso; dal pensiero della povera Oliva; e
anche - perché no? - dalla speranza di fare un bene a quella ragazza che veramente mi
aveva fatto una grande impressione.
Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho
io se Romilda, invece d'innamorarsi di Pomino, s'innamorò di me, che pur le parlavo sempre
di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino
a farmi credere ch'io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza
di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d'una volta, con le mie uscite
balzane? Le vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un
giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non dubbii segni di
essere innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso la sua iniqua idea, se pure
le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto finalmente a dubitarne!
Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m'era più avvenuto d'incontrarmi col Malagna
in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch'ella mi ricevesse soltanto di mattina.
Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale, poiché io ogni volta, per aver maggior libertà,
proponevo gite in campagna, che si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato
anch'io di Romilda, pur seguitando sempre a parlarle dell'amore di Pomino; innamorato
come un matto di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche
d'un piccolo porro ch'ella aveva sulla nuca, ma finanche d'una cicatrice quasi invisibile in
una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo... per conto di Pomino, perdutamente.
Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda (eravamo alla
Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino), tutt'a un tratto, smettendo lo
scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido amante lontano, non avesse avuto un'improvvisa
convulsione di pianto e non m'avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi
tutta tremante che avessi pietà di lei; me la togliessi comunque, purché via lontano, lontano
dalla sua casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti subito, subito, subito...
Lontano? Come potevo così subito condurla via lontano?
Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a tutto, onestamente.
E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del mio prossimo matrimonio,
ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando, senza saper perché, mi vidi arrivare
una lettera secca secca di Romilda, che mi diceva di non occuparmi più di lei in alcun
modo e di non recarmi mai più in casa sua, considerando come finita per sempre la nostra
relazione.
Ah sì? E come? Che era avvenuto?
Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma ch'ella
era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa era per sempre distrutta.
Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figliuoli; era
venuto ad annunziarglielo, trionfante.
Ero presente a questa scena. Come abbia fatto a frenarmi lì per lì, non so. Mi trattenne il
rispetto per la mamma. Soffocato dall'ira, dalla nausea, scappai a chiudermi in camera, e
solo, con le mani tra i capelli, cominciai a domandarmi come mai Romilda, dopo quanto
era avvenuto fra noi, si fosse potuta prestare a tanta ignominia! Ah, degna figlia della madre!
Non il vecchio soltanto avevano entrambe vilissimamente ingannato, ma anche me,
anche me! E, come la madre, anche lei dunque si era servita di me, vituperosamente, per
il suo fine infame, per la sua ladra voglia! E quella povera Oliva, intanto! Rovinata, rovinata...
Prima di sera uscii, ancor tutto fremente, diretto alla casa d'Oliva. Avevo con me, in tasca,
la lettera di Romilda.
Oliva, in lagrime, raccoglieva le sue robe: voleva tornare dal suo babbo, a cui finora, per
prudenza, non aveva fatto neppure un cenno di quanto le era toccato a soffrire.
- Ma, ormai, che sto più a farci? - mi disse. - E' finita! Se si fosse almeno messo con qualche
altra, forse...
- Ah tu sai dunque, - le domandai, - con chi s'è messo ?
Chinò più volte il capo, tra i singhiozzi, e si nascose la faccia tra le mani.
- Una ragazza! - esclamò poi, levando le braccia. E la madre! la madre! la madre! D'accordo,
capisci? La propria madre!
- Lo dici a me? - feci io. - Tieni: leggi.
E le porsi la lettera.
Oliva la guardò, come stordita; la prese e mi domandò:
- Che vuol dire?
Sapeva leggere appena. Con lo sguardo mi chiese se fosse proprio necessario ch'ella facesse
quello sforzo, in quel momento.
- Leggi, - insistetti io.
E allora ella si asciugò gli occhi, spiegò il foglio e si mise a interpretar la scrittura, pian piano,
sillabando. Dopo le prime parole, corse con gli occhi alla firma, e mi guardò, sgranando
gli occhi:
- Tu?
- Da' qua, - le dissi, - te la leggo io, per intero.
Ma ella si strinse la carta contro il seno:
- No! - gridò. - Non te la do più! Questa ora mi serve!
- E a che potrebbe servirti? - le domandai, sorridendo amaramente. - Vorresti mostrargliela?
Ma in tutta codesta lettera non c'è una parola per cui tuo marito potrebbe non credere
più a ciò che egli invece è felicissimo di credere. Te l'hanno accalappiato bene, va' là!
- Ah, è vero! è vero! - gemette Oliva. - Mi è venuto con le mani in faccia, gridandomi che
mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l'onorabilità di sua nipote!
- E dunque? - dissi io, ridendo acre. - Vedi? Tu non puoi più ottener nulla negando. Te ne
devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo ch'egli può aver figliuoli...
comprendi?
Ora perché mai, circa un mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la
schiuma ancora alla bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione
perché io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana? Soggiunse
che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta,
non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi quella creatura, quando sarebbe nata,
come sua. Ma ora che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione d'aver un
figliuolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare
anche da padre a quell'altro che sarebbe nato da sua nipote.
- Mattia provveda! Mattia ripari! - concluse, congestionato dal furore. - E subito! Mi si obbedisca
subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare qualche sproposito!
Ragioniamo un po', arrivati a questo punto. Io n'ho viste di tutti i colori. Passare anche per
imbecille o per... peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un gran guajo. Già - ripeto - son
come fuori della vita, e non m'importa più di nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio
ragionare, è soltanto per la logica.
Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per indurre in inganno
lo zio. Altrimenti, perché Malagna avrebbe subito a suon di busse rinfacciato alla
moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre d'aver recato oltraggio alla nipote?
Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa, sua madre, avendo ricevuto
da lei la confessione dell'amore che ormai la legava a me indissolubilmente, montata
su tutte le furie, le aveva gridato in faccia che mai e poi mai avrebbe acconsentito a
farle sposare uno scioperato, già quasi all'orlo del precipizio. Ora, poiché da sé, ella, aveva
recato a se stessa il peggior male che a una fanciulla possa capitare, non restava più a
lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale fosse, era facile
intendere. Venuto, al- l'ora solita, il Malagna, ella andò via, con una scusa, e la lasciò sola
con lo zio. E allora, lei, Romilda, piangendo - dice - a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui,
gli fece intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò d'interporsi,
d'indurre la madre a più onesti consigli, poiché ella era già d'un altro, a cui voleva
serbarsi fedele.
Malagna s'intenerì - ma fino a un certo segno. Le disse che ella era ancor minorenne, e
perciò sotto la potestà della madre, la quale, volendo, avrebbe potuto anche agire contro
di me, giudiziariamente; che anche lui, in coscienza, non avrebbe saputo approvare un
matrimonio con un discolo della mia forza, sciupone e senza cervello, e che non avrebbe
potuto perciò consigliarlo alla madre; le disse che al giusto e naturale sdegno materno bisognava
che lei sacrificasse pure qualche cosa, che sarebbe poi stata, del resto, la sua
fortuna; e concluse che egli non avrebbe potuto infine far altro che provvedere - a patto
però che si fosse serbato con tutti il massimo segreto - provvedere al nascituro, fargli da
padre, ecco, giacché egli non aveva figliuoli e ne desiderava tanto e da tanto tempo uno.
Si può essere - domando io - più onesti di così?
Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al figliuolo nascituro.
Che colpa ha lui, se io, - poi, - ingrato e sconoscente, andai a guastargli le uova nel paniere?
Due, no! eh, due, no, perbacco!
Gli parvero troppi, forse perché avendo già Roberto, com'ho detto, contratto un matrimonio
vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover rendere anche per lui.
In conclusione, si vede che - capitato in mezzo a così brava gente - tutto il male lo avevo
fatto io. E dovevo dunque scontarlo.
Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già vedeva
la rovina della nostra casa e sperava ch'io potessi in qualche modo salvarmi, sposando la
nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai.
Mi pendeva, tremenda, sul capo l'ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore. |
|
capitulo 4 - He aquí cómo fue
Un día, yendo de caza, me detuve, extrañamente impresionado, delante de un pajar enano y panzudo que tenía por remate una olla.—Yo te conozco —le dije—. Me parece que te conozco... —Luego, de pronto, exclamé: —¡Concho! ¡Si eres
Batta Malagna! Cogí una horquilla que había allí cerca en el suelo, y se la metí por la panza con tan buena
voluntad, que estuvo en poco no se viniera abajo el pucherete que le servía de remate. Parecía
enteramente Batta Malagna cuando, sudoroso y resoplando fuerte, llevaba el sombrero echado hacia
adelante. Temblaba todo él de arriba abajo: le temblaban en la cara, entrelarga, las cejas y los ojos;
temblábale la nariz por sobre los bigotes y la pechera; temblábanle los hombros desde su encaje con
el cuello; temblábale la enorme y mustia panza, casi hasta tocar en tierra, porque, atendido lo que
le sobresalía por encima de las piernas, muy cortas, habíase visto obligado el sastre a hacerle unos
pantalones muy holgados; así que desde lejos parecía como si llevase puesta una americana muy larga
y la barriga le llegase hasta el suelo. Cómo con semejante cara y semejante cuerpo podía ser tan ladrón el tal Malagna, cosa es que no me
explico; porque hasta los ladrones, según yo me imagino, deben de tener cierta planta, que él no
creo tuviese. Andaba despacito, con su tripa colgando, siempre con las manos a la espalda, y sacaba del cuerpo, con grandes apuros, una vocecilla blanda y lastimera. Me gustaría saber cómo justificaría él ante su conciencia los hurtos que continuamente perpetraba en nuestro daño. No teniendo, como he dicho, necesidad alguna de cometer tales rapiñas, seguramente tendría que darse a sí mismo alguna razón, alguna excusa. Quizá el pobrecillo robara por distraerse de algún modo. Porque, efectivamente, debía de sufrir infinito en su casa, por culpa de una de esas mujeres que se hacen respetar. Había cometido el error de elegir compañera en una clase social superior a la suya, que era muy humilde. Y, naturalmente, aquella mujer, que casada con hombre de su condición no habría sido quizá tan insufrible, a él trataba de demostrarle, con el menor motivo, que ella se había criado en buenos pañales y que en su casa las cosas se hacían así y asá. Y hete al Malagna obediente haciéndolo todo así y asá, como ella le k decía, por parecer él también un señor. Pero ¡cuántos apuros pasaba! ¡Siempre estaba sudando! Por si era poco, doña Guendalina, a poco de casada, hubo de enfermar de un achaque, del que ya nunca se volvió a ver libre, puesto que para curar de él hubiera tenido que imponerse un sacrificio superior a sus fuerzas: nada menos que privarse en absoluto de ciertos pastelillos de criadillas rellenas, que de sólo verlos se le hacía la boca agua, y de algunas otras gollerías, y
principalmente del vino. Y no es que empinara mucho el codo. ¡Quiá! ¡Con lo bien criada que estaba! Sólo que no hubiera debido ni catarlo. A mí y a Berto, que éramos unos grandullones, solía invitarnos Malagna de cuando en cuando a su mesa. Y era cosa rica oírle echar, con los debidos miramientos, un sermoncillo a su coima acerca de la templanza mientras él embaulaba a más y mejor los más suculentos manjares. —No paso a comprender que por el gusto momentáneo que experimenta el gaznate al paso de un buen bocado, como éste, por ejemplo —y se lo engullía—, haya de estarse nadie luego sufriendo todo el día. ¿Qué se saca de eso? Yo de mí sé decir que estaría después corrido y avergonzado. Rosina —decía llamando a la criada—, deme un poquito más de este plato. ¡Está muy rica esta salsa a la mayonesa!—¡Cerdo! —gritaba entonces la mujer, enfurecida—. ¡Basta, y no tragues más! ¡Dios debía castigarte, para que supieras lo que es andar mal del estómago! ¡Así aprenderías a tener consideración con tu mujer! —Pero, ¡cómo, Guendalina! ¿Acaso no la tengo? —exclamaba Malagna, escanciándose un vasito de vino. La mujer, por toda contestación, levantábase del asiento, quitábale de las manos el vaso y tiraba su contenido por la ventana. —Pero, mujer, ¿por qué haces eso? —gimoteaba él. Y la mujer replicaba: —¡Porque para mí es veneno! ¿Me ves alguna vez que yo me eche un dedito siquiera en el vaso? Si me vieres hacerlo alguna vez, desde ahora te autorizo para que me lo quites y lo tires por la ventana, como acabo yo de hacer. ¿Lo entiendes? Malagna miraba, mortificado, aunque sonriente, a Berto y a mí, a la ventana y al vaso, y luego decía:—¡Dios santo! Pero ¿eres una chiquilla? ¿Qué necesidad hay de que yo emplee nunca la violencia? Pues igual tú, hija mía, con la razón, deberías imponerte el freno... —¿Y cómo? —clamaba la mujer—. ¿Teniendo la tentación ante los ojos? ¿Viéndote a ti, que bebes de esa manera y te lo saboreas y lo miras al trasluz para darme dentera? ¡Quita allá! Otro hombre, por no hacerme sufrir...Y Malagna acabó por no catar el vino, para dar ejemplo de templanza a la mujer y no hacerla sufrir.
En consecuencia..., se entregó al robo... ¡Qué diantre! ¡Algo tenía que hacer!
Sólo que de allí a poco vino a saber que doña Guendalina seguía bebiendo, aunque a hurtadillas. Como
si para que el vino no le hiciera daño bastase que el marido no se lo viese beber. Y entonces fue
Malagna y volvió a darse a la bebida, aunque fuera de casa, por no mortificar a la mujer.
Y, dicho sea en honor a la verdad, continuó con sus rapiñas. Mas yo sé que él deseaba que la mujer
le concediese cierta compensación a los disgustos sin cuento que le daba; a saber: que algún día se
decidiese a traerle a este mundo un hijito. ¡Ahí está! Entonces sus robos hubiesen tenido un objeto,
una disculpa. ¿Qué no hará un padre por el bien de sus hijos?
Pero la mujer íbase desmejorando de día en día, y Malagna no se atrevía siquiera a expresarle aquel
su ardentísimo deseo. Puede que también fuese ella estéril de suyo. Además, ¡había que tratarla con
tanto miramiento, atendidos sus achaques! ¿Y si después se le moría de parto? Y había también el
riesgo de que no se lograse el vástago.
Así que Malagna se resignaba.
¿Era sincero? No lo demostró bastante con ocasión del tránsito a mejor vida de doña Guendalina.
Cierto que la lloró, y mucho, y que siempre la recordó con devoción tan respetuosa, que no quiso
poner a otra mujer de calidad en su puesto —¡eso nunca! —, y muy bien habría podido hacerlo, rico
como era; sino que metió en su casa a la hija de un aperador, sanota, garrida, lozana y despierta, y
eso únicamente para que no cupiese la menor duda de que podría darle la anhelada prole. Si se
adelantó un poquitín el hombre..., hágase cuenta, sin embargo, de que no era ya un pollito, y, por
lo tanto, no tenía tiempo que perder.
A Oliva, la hija de Pedro Salvoni, nuestro aperador de Dos Ríos, conocíala yo mucho desde pequeña.
¡Cuántas esperanzas no le hice yo concebir a mi madre, por culpa de Oliva, de que iba a sentar la
cabeza y a aficionarme a las cosas del campo! ¡La pobre no cabía en el pellejo de puro alegre! Pero
un día tía Escolástica le abrió los ojos.
—Pero ¿no ves, so tonta, cuánto va tu hijo a Dos Ríos?
—Sí, ¡claro! Va para la cosecha de la aceituna. —A lo que va, so boba, es a la busca de una sola: ¡
de Oliva!
Mi madre entonces me echó una reprimenda, diciéndome que me guardase mucho de cometer el pecado
mortal de hacer caer en tentación y perder para siempre a una pobre muchacha...
Pero no había cuidado. Oliva era honrada, de una honradez inexpugnable, porque tenía su raíz en la
conciencia del mal que a sí misma se haría cediendo. Esta conciencia llegaba hasta privaría de todas
esas insulsas timideces de los pudores postizos, haciéndola atrevida y arriscado.
¡Cómo se reía! Dos cerezas enteramente eran sus labios. Pues ¡y los dientes! Pero aquellos labios no
daban ni un beso. Los dientes, sí, solían arrear algún mordisco; mas era cuando yo la cogía de un
brazo y me empeñaba en no soltarla hasta no darle un beso, por lo menos, en el pelo.
Y una moza tan joven y lozana y garrida se había unido con Batta Malagna... Pero ¿quién tiene valor
para volver la espalda a los caudales? Sin embargo, Oliva sabía de sobra cómo Malagna se había hecho
tan rico. Recuerdo que un día, hablando de esto, lo puso como hoja de perejil, y, no obstante,
precisamente por haberse enriquecido se casó con él.
Pasó un año y pasaron dos, y no había ni señales del vástago. Malagna, que estaba firmemente
convencido hacía mucho tiempo de que el no haber tenido hijos de la primera mujer debíase a ser ella
estéril o a estar siempre achacosa, no tenía ni remotamente el menor recelo de que la cosa pudiese
depender de él. Y empezó a darle la matraca a Oliva.
—¿Nada?
—Nada.
Esperó otro año, el tercero, ¡y que si quieres! Y entonces ya la emprendió con ella a grescas sin
miramiento alguno; hasta que por fin, pasado otro año y perdida ya toda esperanza, llegado nuestro
hombre al colmo de la desesperación, dio en la flor de maltratarla sin el menor respeto, diciéndole
en su cara que con aquella aparente lozanía habíale engañado y requeteengañado; que sólo por tener
en ella un hijo habíala encumbrado hasta aquel puesto, que antes ocupaba una señora, una verdadera
señora, a cuya memoria, a no ser por eso, nunca hubiera faltado.
La pobre Oliva callaba a todo, sin saber qué decir, y solía venir a casa a desahogarse con mi madre,
la cual la consolaba con buenas palabras, exhortándole a no perder del todo la esperanza. ¡Era tan
joven!
—¿Veinte años?
—Veintidós...
—Pues ya ves. Además, se dan muchos casos de tener hijos hasta diez y quince años después de casada.
Pero ¿y él? Eso era lo peor; él no era ya un pollo, y quizá él...
Oliva había concebido ya el primer año de casada la sospecha de que, entre él y ella —¿cómo
decirlo?—, la falta podía ser antes de él que suya, por más que Malagna porfiase tan tozudamente,
diciendo que no. Pero ¿no se podría hacer la prueba? Era difícil, porque Oliva, al casarse, habíase
jurado a sí misma mantenerse honrada, y ni siquiera por asegurar la paz de su casa transigiría con
la idea de faltar a ese juramento.
¿Qué cómo sé yo todas estas cosas? ¡Tiene gracia! ¿No he dicho que la moza venía a desahogarse con
mi madre, que yo la conocía desde pequeña, y que ahora la veía lamentarse por la indigna conducta y
la necia e indignante fatuidad de aquel vejancón?... Y ¿habré de decirlo todo? Pues eso: hubo un
«no» muy clarito y muy redondo.
No tardé en consolarme del desaire. ¡Tenía yo entonces —o creía tener, que es lo mismo— muchas cosas
en la cabeza! Y tenía también dinero de sobra, que —amén de otras cosas— también sugiere ciertas
ideas que sin él no se tendrían. Dicho sea de pasada, me ayudaba muy bien a gastarlo Jerónimo
Pomino, que jamás andaba bien de fondos, debido a la prudente parsimonia paterna.
Mino era como nuestra sombra, de Berto y mía, alternativamente, y su ser cambiaba con maravillosa
facultad simiesca, según que anduviese con Berto o conmigo. Cuando se apegaba a Berto, convertíase
como por ensalmo en un pisaverde, y entonces su padre, que también tenía humos de elegancia,
aflojaba un poco la bolsa. Sólo que con Berto no hacía muy buenas migas. Al verse imitado hasta en
el modo de andar, mi hermano perdía enseguida la paciencia, quizá por temor al ridículo, y empezaba
a tratar con malos modos a Pomino, hasta que se lo quitaba de encima. Y entonces Mino volvía a
pegárseme a mí, y volvía su padre a echarle un nudo a la bolsa.
Yo lo aguantaba con paciencia, porque con frecuencia me daba por tomarlo de zarandillo. De lo cual
me arrepentía luego. Reconocía haberme excedido por su culpa en alguna empresa, o violentado mi
temperamento, o exagerado mis sentires, por el afán de deslumbrarlo y hacerle caer en algún mal
paso, del cual sufría yo después, naturalmente, las consecuencias.
Ahora bien: cierto día, estando de caza, Mino, a propósito de Malagna, cuyas proezas con la costilla
habíale yo contado, me dijo que él había visto una moza, hija de una prima del tal Malagna, por la
cual sería muy capaz de hacer alguna burrada. ¡Como capaz sí que lo era! Tanto más, cuanto que la
chica no parecía arisca. Lo malo era que hasta entonces no había encontrado medio ni siquiera de
hablarle.
—¡Eso será que te ha faltado valor! —le dije yo riendo.
Mino replicóme que no era así; pero se puso muy colorado.
—He hablado, sin embargo, con la criada —apresuróse a añadir—, y ¡me ha contado unas cosas, chico!
... Me ha dicho que el Malaño está siempre metido en su casa, y que le da eso mala espina, y que no
tendría nada de particular que anduviera tramando alguna bellaquería contra la muchacha, de acuerdo
con su prima, que es una bruja.
—¿Qué quieres decir?
—Pues, hombre, cuenta la criada que el tío va allí a lamentarse de lo desgraciado que es con la
falta de sucesión. Y la vieja, que tiene muy mal genio, le replica que le está muy bien empleado.
Según parece, al quedarse viudo Malagna hubo de metérsela a la vieja en la cabeza la idea de casarlo
con su hija, haciendo cuanto pudo y estuvo en su mano para salirse con la suya, y que luego, al
verse chasqueada, empezó a ponerlo de chupa de dómine, llamándole zopenco, enemigo de los parientes
y traidor a su propia sangre, emprendiéndola también con la hija por no haber sabido echarle el
gancho. Por fin, ahora que el viejo se muestra tan arrepentido de no haber hecho feliz a la sobrina,
¡quién sabe qué otra perfidia traerá entre manos esa bruja!
Yo me tapé los oídos con las manos, y le dije a Mino:
—¡Calla, hombre!
Aunque no aparentemente, en el fondo, ya veis si era yo ingenuo en aquel tiempo. Sin embargo —
enterado como estaba de las escenas de que había sido y seguía siendo teatro la casa de Malagna—,
pensé que no tendría nada de extraño que no anduviese descaminada la recelosa criada, y formé
propósito de procurar enterarme a fondo de todo, por el bien de Oliva. Pedíle a Mino las señas de la
bruja. Diómelas él, rogándome que le sirviese de valedor con la moza.
—¡No lo dudes! —respondíle—. La chica es para ti, ¡qué diantre!
Y al otro día, con el pretexto de una letra de cambio que por casualidad había sabido aquella mañana
de labios de mi madre que vencía aquel día mismo, fuíme a ver si encontraba a Malagna en casa de la
viuda de Pescatore.
Llegué allá corriendo, y entré en la casa todo sofocado y sudoroso.
—¡Malagna, esta letra!
Si no hubiera yo sabido que él no tenía la conciencia tranquila, indudablemente lo habría
comprendido aquel día, al verlo ponerse en pie de un salto pálido, demudado, y balbuciendo:
—¿Qué... qué... letra?
—Pues ésta, que vence hoy... Me mandó a buscarle mi madre, que se hallaba muy preocupada con ella.
Batta Malagna dejóse caer en la silla, desahogando en un “¡Ah!” interminable todo el susto que por
un instante sintiera.
—¡Caramba..., si ya está arreglado! ... ¡Caramba, y qué sobresalto! ... Está renovada, ¿eh?, por
tres meses, pagando los réditos, como es natural. ¿Y por tan poca cosa has dado esta carrera?
Y se echó a reír, con aquella su risa acompañada del temblequeo de la tripa; me invitó a sentarme, y
me presentó a las mujeres.
—Matías Pascal. Mariana Dondi, viuda de Pescatore, mi prima. Romilda, mi sobrina.
Se empeñó en que bebiese algo para que se me pasase el sofocón de la carrera.
—Romilda, haz el favor, hija...
Como si estuviese en su casa.
Romilda se levantó, mirando a su madre para consultarla, y luego, no obstante mis protestas, salió
de la sala y volvió a poco con una bandeja, en la que traía un vasito y una botella con vermú. De
pronto, al ver aquello, levantóse enojada la madre, diciéndole a la chica:
—¡No, hija! ¡No me has comprendido! Dame acá.
Quitóle la bandeja de las manos y fuése, volviendo a poco con otra, de laca, nueva y flamante, y en
ella una magnífica jarra de rosoli representando un elefante plateado, con un frasquito de cristal
en la grupa y muchos vasitos pequeños colgándole todo alrededor y armando un alegre tintineo.
Yo hubiera preferido el vermú; pero apechugué con el rosoli. Bebieron también Malagna y la madre.
Romilda se abstuvo.
No estuve allí mucho tiempo aquella primera vez, a fin de tener un pretexto para volver por la casa.
Dije que tenía prisa por ir a tranquilizar a mi madre, tocante a la letra, y que ya volvería por
allí dentro de unos días a disfrutar con más espacio de la compañía de las señoras.
A juzgar por el talante con que me saludó, no me pareció que a Mariana Dondi, viuda de Pescatore, la
hiciese muy feliz el anuncio de otra visita mía; apenas si me dio la mano, una mano seca, sarmentosa
y amarillenta, a la vez que bajaba los ojos y apretaba los labios. De todo ello compensóme la hija
con una simpática sonrisa, prometedora de acogida cordial, y con una mirada, dulce y triste a un
tiempo, de aquellos ojos suyos, que no bien la vi al entrar, hicieron tanta mella en mi ánimo; ojos
de un extraño color verde, intensos, profundos, sombreados por larguísimas pestañas; ojos nocturnos,
entre dos crenchas de pelo negro como el ébano, a ondas, que le bajaban por la frente y las sienes,
como para que resaltase más la viva albura de la tez.
La casa era modesta; pero ya entre los muebles viejos se veían otros nuevecitos, presuntuosos e
hinchados en la ostentación de su novedad harto llamativa, como, por ejemplo, dos grandes quinqués
de mayólica, todavía intactos, con pantallas de cristal esmerilado, de extraña traza, encima de una
humildísima ménsula del piano, de mármol amarillento, sobre el cual campeaba un tétrico espejo de
marco redondo, lleno de desconchones, y que parecía, en medio de la sala, abrirse cual bostezo de
hambriento. Había, además, delante del diván aquél tan derrengado, una mesita con las cuatro patas
doradas, y el piano, de porcelana de vivos colores, y también un armario de pared, de laca japonesa.
Malagna fijaba la vista en estos trastos nuevos con evidente placer, cual antes la fijara en la
magnífica resolera llevada en triunfo por su prima.
Las paredes de la sala estaban casi todas tapizadas de estampas antiguas y nada feas, alguna de las
cuales me la hizo admirar Malagna, diciéndome que era obra de Francisco Antonio Pescatore, su primo,
grabador meritísimo —que murió loco en Turín—añadió por lo bajo—, y cuyo retrato se empeñó también
en enseñarme.
—Se lo hizo él mismo, con sus propias manos, delante del espejo.
Debo declarar que yo, poco antes, mirando a Romilda y luego a la madre, me había hecho esta
reflexión: “¡Se parecerá al padre!» Pues bien: ahora, frente al retrato, no sabía ya a qué atenerme.
No quiero aventurar suposiciones injuriosas. Considero, a decir verdad, capaz de todo a Mariana
Dondi, viuda de Pescatore; pero ¿cómo pensar que pudiera haber habido un hombre, y guapo por
añadidura, capaz de enamorarse de ella? A no ser que estuviera loco, más loco que el marido.
Referíle a Mino mis impresiones de aquella primer visita, y le hablé de Romilda con tal calor de
admiración, que al punto se entusiasmó, muy alborozado al ver que también a mí me había gustado la
chica sin reservas.
Le pregunté entonces que cuáles eran sus intenciones; la madre, en verdad, tenía toda la facha de
una bruja; pero lo que es la hija aseguraría yo que era honrada. No cabía duda alguna respecto a las
odiosas miras de Malagna, por lo que había que proveer cuanto antes a salvar a la muchacha.
—¿Y cómo? —preguntóme Pomino, que estaba pendiente de mis labios.
—¿Que cómo? Ya veremos. Lo primero que hay que hacer es enterarse de muchas cosas; ir al fondo de la
cuestión y estudiarla bien. Ya comprenderás que no se puede tomar una resolución así tan de súbito.
Déjalo a mi cuidado, que yo te ayudaré. Me place esta aventura.
—Sí...; pero... —objetóme Pomino, tímidamente, con sus asomos de alarma ante mi entusiasmo— ¿Quieres
decir que me convendría... casarme con ella?
—No, hombre; no digo eso, por ahora. ¿Tienes miedo quizá?
—No. ¿Por qué?
—Porque corres demasiado, amigo Mino. Ándate con más calma y recapacita. Si llegamos a poner en
claro que la chica es verdaderamente como debe ser: buena, juiciosa, virtuosa —guapa sí lo es, de
eso no hay duda, y a ti te gusta, ¿no?—; bueno; pues supongamos ahora que verdaderamente se halle
expuesta, por culpa de la maldad de la madre, a un gravísimo peligro, a un atropello, a una venta
infame: ¿te quedarías corto ante un acto meritorio, ante una obra santa de salvación?
—¡Yo no..., yo no! —exclamó Pomino—. Pero ¿y mi padre?
— ¿Se opondría? ¿Y por qué razón? Por la dote, ¿verdad? Sólo sería por eso, ya que ella, como te he
dicho, es hija de un artista meritísimo, aunque pobre, muerto en Turín... Pero tu padre es rico, y
no tiene más hijo que tú; así que bien puede darte gusto sin reparar en la dote. ¿Que a pesar de
todo tú no logras convencerle por las buenas? Pues no te apures, hombre, que con levantar el vuelo
del nido ya está todo arreglado. ¿O es que tienes el corazón de trapo?
Echóse a releer Pomino, y yo entonces le demostré cómo dos y tres son cinco que había nacido para
casado, como se nace poeta. Le describí con vivos y atrayentes colores la felicidad de la vida
conyugal con su Romilda; el cariño, las atenciones, la gratitud que ella había de tener para con él,
como salvador suyo. Y para terminar, le dije:
—Ahora tú debes atinar con el modo y la manera de hacer que ella se fije en ti y de hablarle o
escribirle. Mira, quizá en este momento una cartita tuya pudiera servirle de áncora de salvación en
el apuro en que se encuentra, como mosca a la que acecha la araña. Yo, por mi parte, frecuentaré la
casa, estaré ojo avizor, y aprovecharé la primera ocasión que se presente para llevarte allá. ¿
Estamos de acuerdo?
—De acuerdo.
—¿A qué venían esas ansias mías por casar a Romilda?... A nada. Principalmente procedía así por el
gusto de embrollar a Pomino. Hablaba yo por los codos y allanaba todas las dificultades. Por aquel
entonces era un muchacho vehemente y todo lo miraba a la ligera. Quizá ésta fuese la razón de que
tuviera tanto partido con las hembras, no obstante aquel ojo, que ya dije que tenía un poco
extraviado, y mi poca estatura. Aunque en aquella ocasión —dicho sea en honor a la verdad— aquellos
ardores míos tenían también su raíz en mi afán de deshacer la tela de araña urdida por el vejancón y
dejarlo con dos palmos de narices, en mi afecto a la pobre Oliva, y también —¿por qué no decirlo?—
en mi esperanza de hacerle un bien a aquella moza, que de veras había hecho una gran mella en mi
ánimo.
¿Qué culpa tengo yo de que Pomino ejecutase con demasiada timidez mis prescripciones? ¿Qué culpa
tengo tampoco de que Romilda, en vez de enamorarse de Pomino, se enamorase de mí, siendo así que yo
siempre le estaba hablando de él? ¿Ni qué se me puede echar en cara finalmente si la perfidia de
Mariana Dondi llegó hasta el extremo de hacerme creer a mí que yo, en poco tiempo, me había dado
traza de disipar sus recelos y obrar un milagro: el de moverla más de una vez a risa con mis salidas
y ocurrencias? Poco a poco fui viéndola deponer las armas; me recibía con mucho agrado, y hube de
pensar que ella, al considerar que se le había metido por las puertas de su casa un chico rico —yo
me creía rico todavía— y que daba inequívocas muestras de estar enamorado de su hija, desistió
definitivamente de su inicua idea si alguna vez la tuvo. Porque, lo confieso, llegué hasta ponerlo
en tela de juicio.
Cierto que habría debido reparar en la circunstancia de no haberme tropezado nunca en aquella casa
con Malagna, y que el recibirme ella siempre de mañana no dejaba de tener su intríngulis. Pero ¿
quién reparaba en pelillos? Además, que era muy natural aquello; pues yo, a fin de disfrutar de más
libertad, siempre andaba proponiendo jiras campestres, que suelen llevarse a cabo, por lo general,
por las mañanas. Aparte de que yo también me había enamorado de Romilda, con todo y seguir
ponderándole a la moza el amor que por ella sentía Pomino; pero enamorado como un loco de sus
ojazos, de su naricilla, de su boca, de todo lo suyo, incluso de una verruga que tenía en el cuello,
por detrás, y hasta de una cicatriz, casi invisible, que tenía en una mano, y que yo no me hartaba
de besuquear locamente por cuenta de Pomino.
Y, sin embargo, quizá no hubiera ocurrido nada grave si cierta mañana Romilda estábamos en La Cabaña
y habíamos dejado a su madre admirando el molino—, de repente, renunciando a aquella broma,
demasiado pesada ya, de su tímido amante lejano, no hubiese roto en un arrechucho de llanto y no me
hubiese echado los brazos al cuello, conjurándome toda trémula a que tuviese de ella piedad, y que
me la llevase, fuere como fuere, siempre que fuere lejos, muy lejos de aquella casa, y de su madre y
de todos, volando, volando, volando...
¿Cómo iba yo a llevármela así, de repente, tan lejos?
Después de aquella escena, sí, durante varios días, busqué el modo de hacerlo resuelto a todo
honradamente. Y ya empezaba a hacerle las entrañas a mi madre para la noticia de mi próximo
casamiento, inevitable ya por motivos de conciencia, cuando, sin saber por qué, hube de recibir una
carta muy seca de Romilda, diciéndome que no me volviese a acordar del santo de su nombre ni pusiese
más los pies en su casa, y que de allí en adelante tuviese por definitivamente terminadas nuestras
relaciones.
¿Qué había sucedido?
Aquel mismo día, Oliva, hecha un mar de lágrimas, estuvo en casa a participarle a mi madre que era
la mujer más desgraciada de este mundo, y que en su casa se había acabado para siempre la
tranquilidad. Su marido había logrado hacerse con la prueba de no ser él el culpable de que no
tuvieran sucesión, y había ido a comunicárselo muy ufano y triunfal.
Halleme yo presente en aquella escena. No sé cómo pude contenerme. Me reprimí por respeto a mi
madre. Sofocado de cólera y náusea, corrí a encerrarme en mi cuarto, y solo allí, con las manos
hundidas en el pelo, me preguntaba cómo había podido Romilda, después de cuanto había sucedido entre
nosotros, prestarse a tamaña ignominia. ¡Ah, digna hija de tal madre! ¡No sólo habían engañado
bellacamente al viejo, sino que además habíanme engañado también a mí, a mí! ¡Y cómo se había
servido también la madre vituperablemente de mí para el logro de sus infames designios, de su
ladrona intención! ¡Y entretanto, la pobre de Oliva desgraciada para siempre! ...
A primera hora de la tarde salí, furioso todavía, y tomé el camino de la casa de Oliva. Llevaba en
el bolsillo la carta de Romilda.
Oliva, hecha un mar de lágrimas, estaba recogiendo sus prendas de vestir; tenía resuelto irse a
vivir con su padre, al que hasta entonces, por prudencia, no le había dicho ni palabra de cuanto
sufría en el matrimonio.
—Pero ahora, ¿qué recurso me queda? —díjome—. Ahora ya se acabó. ¡Si siquiera se hubiera liado con
otra, todavía! ...
—¿Pero tú sabes —le pregunté— con quién se ha liado?
Inclinó varias veces la cabeza entre sollozos, y cubrióse la cara con las manos.
—¡Con una chiquilla! —exclamó luego, alzando los brazos—. ¡Y la madre! ¡La madre! De acuerdo con él,
¿comprendes? ¡Su propia madre! —¿Y a mí me lo dices? —exclamé yo—. Toma, lee.
Y le mostré la carta.
Oliva la miró como alelada; cogióla y me preguntó:
—¿Qué dice aquí?
Apenas sabía de letra. Con los ojos preguntóme si tenía que hacer un esfuerzo por leerla en aquellas
circunstancias.
—Lee —insistí yo.
Y entonces ella se enjugó los ojos, desdobló la misiva y se puso a deletrearla muy despacito,
marcando las sílabas. No bien hubo leído las primeras palabras, corrió los ojos a la firma y
quedóseme mirando maravillada:
—¿Tú?
—Trae acá —le dije—, y te la leeré de cabo a rabo.
Pero ella apretujó la carta contra su pecho.
—No —gritó—. No te la doy. ¡Esta me va a valer a mí ahora!
—¿Y para qué puede servirte? —preguntéle sonriendo amargamente—. ¿Piensas acaso enseñársela a tu
marido? En toda esta carta no hay ni una sola palabra que pudiera darle pie para creer otra cosa de
lo que él quiere. ¡Se la han jugado de puño, Oliva!
—¡Es verdad! ¡Es verdad! —gimió ella—. ¡Como que se vino hacia mí metiéndome las manos por los ojos
y diciéndome a gritos que me guardase mucho de poner en entredicho la honradez de su sobrina!
—¡Claro! —díjele yo riendo amargamente—. ¿Lo estás viendo? Tú no puedes ya conseguir nada negando.
¡Debes guardarte bien de eso! Lo que debes hacer, por el contrario, es decirle que sí, que es
verdad, pero una verdad como un templo que él puede tener hijos..., ¿comprendes?
Mas ¿por qué, un mes próximamente después de estos acontecimientos, hubo el tal Malagna de darle una
tunda, furioso, a su mujer, y de entrarse, echando todavía espumarajos por la boca, por la puerta de
mi casa, diciendo a grito pelado que exigía inmediatamente una reparación por haberle yo deshonrado
y hecho desgraciada a una sobrina suya, una pobre huérfana? Añadió que de buena gana se hubiera
callado, por no dar un escándalo, pues movido de piedad hacia aquella pobrecilla, no teniendo él
hijos, había resuelto considerar a la criatura, desde punto y hora que naciera, como cosa suya; pero
que ahora, que por último había querido el Señor darle el consuelo de tener un hijo legítimo en su
propia mujer, no podía ya en conciencia, ni de ningún modo, hacer también veces de padre con el que
diera a luz su sobrina.
—¡Que provea Matías al daño y lo repare! —concluyó congestionado de puro colérico—. ¡Pero en
seguidita! ¡Y que no me obliguen a hablar más claro o hacer alguna sonada!
Al llegar a este punto recapacitemos un poco. Yo las he visto en mi vida muy gordas. Pasar por necio
o por... algo peor no sería para mí, en el fondo, ningún menoscabo. Ya —lo repito— estoy como fuera
de este mundo y de todo se me da un ardite. Así que si al llegar a este punto siento el antojo de
recapacitar un poco es sólo por la lógica.
Paréceme evidente que Romilda no debió de hacer nada malo, por lo menos para inducir a error al tío.
De otro modo, ¿por qué la hubiera emprendido Malagna de pronto con su mujer a puñadas,
recriminándola de esa guisa por su traición, ni acusándome a mí en presencia de mi madre de haber
inferido irreparable ofensa a la honestidad de su sobrina?
Con efecto, sostiene Romilda que, a raíz de nuestra jira a La Cabaña, habiéndole confesado ella a su
madre el amor que ya la ligaba irremediablemente a mi persona, aquélla se puso hecha una furia y le
dijo que jamás en la vida consentiría en que se casara con un gandul como yo, que ya estaba con un
pie al filo del precipicio. Pero puesto que espontáneamente habíase inferido ella a sí misma el peor
daño que puede hacerse una soltera, no le quedaba otro recurso a su previsora madre que sacar el
mayor provecho posible de lo sucedido. Fácilmente déjase entender lo que decir quería con eso.
Llegado que hubo, a la hora de costumbre, Malagna, salióse ella de la habitación con una excusa y
dejó a la muchacha a solas con el tío. Y entonces ella, Romilda, llorando —según dice— a lágrima
viva, echóse a los pies del pariente, dióle a entender su desgracia y lo que la madre exigiera de
ella, conjurándolo a interponerse entre ambas y a exhortar a la madre para que le diese mejores
consejos, puesto que ella era ya de otro, al que quería mantenerse fiel.
Enternecióse Malagna, pero hasta cierto punto. Díjole que todavía era menor de edad, por lo que se
hallaba bajo la potestad de su madre, la cual, a quererlo, podía proceder contra mí judicialmente;
que tampoco él, en conciencia, era partidario de que ella se casara con un haragán de mi calibre,
derrochón y atolondrado, por lo que no había de aconsejárselo, naturalmente, a mi madre; añadió que
era menester que sacrificase algo en atención al justo y maternal enojo materno, porque después de
todo, eso había de ser luego su suerte; y terminó diciendo que él no podía hacer en resumidas
cuentas otra cosa que proveer —a condición de que todo quedase en el mayor secreto— a la mantenencia
del vástago esperado; hacer para con él veces de padre, ya que no tenía hijos y llevaba tanto tiempo
deseándolos.
¿Cabe —pregunto yo— mayor honradez? Todo cuanto le había robado al padre se lo devolvería al hijo.
Tal era su plan. ¿Qué culpa tiene él de que yo... luego..., ingrato y descastado, fuera a aguarle la
fiesta? ¡Dos no, hombre! Dos se le antojaron demasiado, quizá porque habiendo contraído ya Roberto,
como dije, un casamiento ventajoso, pensó que no le había hecho tanto daño en sus intereses como
para tener que hacer otra restitución por él.
En resumidas cuentas, que está claro que, encontrándome en medio de gente honrada, yo era el único
autor de tanto mal. Y que, por consiguiente, debía repararlo.
Al principio me negué airadamente. Luego, ablandado por las súplicas de mi madre, que ya veía el
desastre que nos aguardaba y esperaba que yo podría salvarme de él, en cierto modo, casándome con la
sobrina de su enemigo, cedí y me casé.
Sobre mi cabeza cerníase, terrible, la cólera de Mariana Dondi, viuda de Pescatore. |