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IX: Un po' di nebbia
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva. « Ma sta' a vedere, » mi rampognavo, « che non debba più far nuvolo perché tu possa ora godere serenamente della tua libertà! » M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta! Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi. Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: « Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: - Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi viaggia. » Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno. Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d'albergo ? Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari erano pochini... Ma una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora : registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco? L'inverno, L'inverno m'ispirava queste riflessioni malinconiche, La prossima festa di Natale che fa desiderare il tepore d'un cantuccio caro, il raccoglimento, l'intimità della casa. Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L'altra, più antica, della casa paterna, l'unica ch'io potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel mio nuovo stato. Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando che davvero non sarei stato più lieto, se avessi passato a Miragno, tra mia moglie e mia suocera - (rabbrividivo!) - quella festa di Natale. Per ridere, per distrarmi, m'immaginavo intanto, con un buon panettone sotto il braccio, innanzi alla porta di casa mia. « - Permesso? Stanno ancora qua le signore Romilda Pescatore, vedova Pascal, e Marianna Dondi, vedova Pescatore? » « - Sissignore. Ma chi è lei? » « - Io sarei il defunto marito della signora Pascal, quel povero galantuomo morto l'altr'anno, annegato. Ecco, vengo lesto lesto dall'altro mondo per passare le feste in famiglia, con licenza dei superiori. Me ne riparto subito! » Rivedendomi cosi all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento la vedova Pescatore? Che! Lei? Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire me, dopo due giorni. La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io! « Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis. » Mi scrollavo, seccato, esclamando: - E va bene! Meno impicci. Non ho amici? Potrò averne... Già nella trattoria che frequentavo in quei giorni, un signore, mio vicino di tavola, s'era mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni : calvo sì e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene sul naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole, che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c'è di male? Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente imperiosi i passettini da pernice. Era molto bravo poi, ingegnoso - forse un pochino bisbetico e volubile - ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere. Mi aveva dato il suo biglietto da visita: - Cavalier Tito Lenzi. A proposito di questo biglietto da visita, per poco non mi feci anche un motivo d'infelicità della cattiva figura che mi pareva d'aver fatta, non potendo ricambiarglielo. Non avevo ancora biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno de' biglietti da visita? Si dà a voce il proprio nome, e via. Così feci; ma, perdir la verità, il mio vero nome... basta! Che bei discorsi sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il latino sapeva; citava come niente Cicerone. - La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa fosse castello e non piazza, per così dire; se noi cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale... sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché... diciamo cosi, l'aria del momento non si presta a trasportare e a far fiorire, caro signore, i germi... i germi della sua idea nella mente altrui, lei non può dire che la sua coscienza le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire nell'ombra? Eh via! Eh via! Senta; io odio la retorica, vecchia bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica, sicuro, ha foggiato questa bella frase con tanto di petto in fuori: « Ho la mia coscienza e mi basta ». Già! Cicerone prima aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo. Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma... Dio ne scampi e liberi, caro signore! Nojoso più d'un principiante di violino! Me lo sarei baciato. Se non che, questo mio caro ometto non volle perseverare negli arguti e concettosi discorsi, di cui ho voluto dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza; e allora io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia, provai subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza che mi obbligava a scostarmi, a ritrarmi. Finché parlò lui e la conversazione s'aggirò su argomenti vaghi, tutto andò bene; ma ora il cavalier Tito Lenzi voleva che parlassi io. - Lei non è di Milano, è vero? - No... - Di passaggio? - Sì... - Bella città Milano, eh? - Bella, già... Parevo un pappagallo ammaestrato. E più le sue domande mi stringevano, e io con le mie risposte m'allontanavo. E ben presto fui in America. Ma come l'ometto mio seppe ch'ero nato in Argentina, balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente la mano: - Ah, mi felicito con lei, caro signore! La invidio! Ah, l'America... Ci sono stato. C'era stato? Scappa! - In questo caso, - m'affrettai a dirgli, - debbo io piuttosto felicitarmi con lei che c'è stato, perché io posso quasi quasi dire di non esserci stato, tuttoché nativo di là; ma ne venni via di pochi mesi; sicché dunque i miei piedi non han proprio toccato il suolo americano, ecco! - Che peccato! - esclamò dolente il cavalier Tito Lenzi. - Ma lei ci avrà parenti, laggiù, m'immagino! - No, nessuno... - Ah, dunque, è venuto in Italia con tutta la famiglia, e vi si è stabilito? Dove ha preso stanza? Mi strinsi ne le spalle: - Mah! - sospirai, tra le spine, - un po' qua, un po' là... Non ho famiglia e... e giro. - Che piacere! Beato lei! Gira... Non ha proprio nessuno? - Nessuno... - Che piacere! beato lei! la invidio! - Lei dunque ha famiglia? - volli domandargli, a mia volta, per deviare da me il discorso. - E no, purtroppo! - sospirò egli allora, accigliandosi. - Son solo e sono stato sempre solo! - E dunque, come me!... - Ma io mi annojo, caro signore! m'annojo! - scattò l'ometto. - Per me, la solitudine... eh si, infine, mi sono stancato. Ho tanti amici; ma, creda pure, non è una bella cosa, a una certa età, andare a casa e non trovar nessuno. Mah! C'è chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia e senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: « Io non devo far questo, non devo far quest'altro, per non commettere questa o quella bestialità ». Benissimo! Ma a un certo punto s'accorge che la vita è tutta una bestialità, e allora dica un po' lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore. - Ma lei, - mi provai a confortarlo, - lei è ancora in tempo, fortunatamente... - Di commettere bestialità? Ma ne ho già commesse tante, creda pure! - rispose con un gesto e un sorriso fatuo. - Ho viaggiato, ho girato come lei e... avventure, avventure... anche molto curiose e piccanti... si, via, me ne son capitate. Guardi, per esempio, a Vienna, una sera... Cascai dalle nuvole. Come! Avventure amorose, lui? Tre, quattro, cinque, in Austria, in Francia, in Italia... anche in Russia? E che avventure! Una più ardita dell'altra... Ecco qua, per dare un altro saggio, un brano di dialogo tra lui e una donna maritata: LUI: - Eh, a pensarci, lo so, cara signora... Tradire il marito, Dio mio! La fedeltà, l'onestà, la dignità... tre grosse, sante parole, con tanto d'accento su l'a. E poi: l'onore! altra parola enorme... Ma, in pratica, credete, è un'altra cosa, cara signora: cosa di pochissimo momento! Domandate alle vostre amiche che ci si sono avventurate. LA DONNA MARITATA: - Sì; e tutte quante han provato poi un grande disinganno! LUI: - Ma sfido ma si capisce! Perché impedite, trattenute da quelle parolacce, hanno messo un anno, sei mesi, troppo tempo a risolversi. E il disinganno diviene appunto dalla sproporzione tra l'entità del fatto e il troppo pensiero che se ne son date. Bisogna risolversi subito, cara signora! Lo penso, lo faccio. E' cosi semplice! Bastava guardarlo, bastava considerare un poco quella sua minuscola ridicola personcina, per accorgersi ch'egli mentiva, senza bisogno d'altre prove. Allo stupore seguì in me un profondo avvilimento di vergogna per lui, che non si rendeva conto del miserabile effetto che dovevano naturalmente produrre quelle sue panzane, e anche per me che vedevo mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui che non ne avrebbe avuto alcun bisogno; mentre io, che non potevo farne a meno, io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni volta, torcer l'anima dentro. Avvilimento e stizza. Mi veniva d'afferrargli un braccio e di gridargli: « Ma scusi, cavaliere, perché? perché? » Se però erano ragionevoli e naturali in me l'avvilimento e la stizza, mi accorsi, riflettendoci bene, che sarebbe stata per lo meno sciocca quella domanda. Infatti, se il caro ometto imbizzarriva cosi a farmi credere a quelle sue avventure, la ragione era appunto nel non aver egli alcun bisogno di mentire; mentre io... io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che per lui, insomma, poteva essere uno spasso e quasi l'esercizio d'un diritto, era per me, all'incontro, obbligo increscioso, condanna. E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né amici... Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co' miei simili un breve scambio di parole aliene. Ebbene, erano gl'inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi sarei scoraggiato per questo? « Vivrò con me e di me, come ho vissuto finora! » Sì; ma ecco: per dir la verità, temevo che della mia compagnia non mi sarei tenuto né contento né pago. E poi, toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi una mano su quei capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul naso, provavo una strana impressione: mi pareva quasi di non esser più io, di non toccare me stesso. Siamo giusti, io mi ero conciato a quel modo per gli altri, non per me. Dovevo ora star con me, così mascherato? E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire per gli altri, per chi doveva servire? per me? Ma io, se mai, potevo crederci solo a patto che ci credessero gli altri. Ora, se questo Adriano Meis non aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, e si appartava e rientrava in albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate d'inverno, per le vie di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto Mattia Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh, avrebbero cominciato a camminar male; che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento, e che la mia bella fortuna, allora... Ma la verità forse era questa: che nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto, mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli. Ed ecco, mi cacciavo, di nuovo, fuori, per le strade, osservavo tutto, mi fermavo a ogni nonnulla, riflettevo a lungo su le minime cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo qualche giornale, guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo anch'io. Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolìo di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m'intronavano. « Oh perché gli uomini, » domandavo a me stesso, smaniosamente, « si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole? » In un tram elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un pover'uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente. - Che bella invenzione! - mi aveva detto. - Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano. Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover'uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n'andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc. Eppure la scienza, pensavo, ha l'illusione di render più facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: « E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica? ». Rientravo in albergo. Là, in un corridojo, sospesa nel vano d'una finestra, c'era una gabbia con un canarino. Non potendo con gli altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di nidi, di foglie, di libertà... Si agitava nella gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva, ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m'inteneriva, mentre io non sapevo che cosa gli avessi detto... Ebbene, a pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di simile? Non crediamo anche noi che la natura ci parli? e non ci sembra di cogliere un senso nelle sue voci misteriose, una risposta, secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che le rivolgiamo? E intanto la natura, nella sua infinita grandezza, non ha forse il più lontano sentore di noi e della nostra vana illusione. Ma vedete un po' a quali conclusioni uno scherzo suggerito dall'ozio può condurre un uomo condannato a star solo con se stesso! Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque sul punto di diventare sul serio un filosofo? No, no, via, non era logica la mia condotta. Così, non avrei potuto più oltre durarla. Bisognava ch'io vincessi ogni ritegno, prendessi a ogni costo una risoluzione. Io, insomma, dovevo vivere, vivere, vivere.

 

capitulo 9 - un poco de niebla El primer invierno, aunque riguroso y lluvioso, habíaseme ido sin sentir, distraído como estaba con las impresiones de mis viajes y la embriaguez de mi flamante libertad. Pero este segundo invierno cogíame ya algo cansado, según dije, de tanto vagabundeo y decidido a poner coto a tanta libertad. Y notaba que... sí, hacía un poco de niebla; y hacía también frío; y advertía yo que, por más que mi espíritu se resistiese a darse por enterado del color del tiempo, no dejaba de sentirlo. —¡Estaría bueno —decía yo sermoneándome—, que no hubiera de hacer ya nunca niebla, para que tú pudieses gozar a tus anchas de tu libertad! Ya me había paseado bastante, en aquel correr de acá para allá; Adriano Meis había disfrutado en aquel año su despreocupada juventud; ahora era menester que se volviese hombre y se recogiese en sí mismo, creándose costumbres apacibles y modestas. Lo cual habría de serle sumamente fácil, estando, como estaba, libre por completo y sin obligación alguna. Tal creía yo; y desparramé el pensamiento, calculando en qué población me convendría fijar mi residencia, ya que no podía seguir por más tiempo cual pájaro sin nido, si era que quería llevar vida ordenada. Pero ¿en dónde? ¿En una población grande o en una pequeña? No acababa de decidirme. Cerraba los ojos y volaba con el pensamiento a aquellas poblaciones que ya había visitado, trasladándome de una a otra y deteniéndome en cada una el tiempo necesario para ver con toda claridad tal plaza, tal paraje, que se me habían quedado grabados en la memoria. Y decía para mis adentros: “¡Sí! ¡Ahí estuve! ¡Cuánta vida se me escapa ahora, mientras acá y allá sigue agitándose en abigarrada variedad!” Y, sin embargo, en cuántos sitios no dije: «¡Aquí quisiera plantar mis reales! ¡Cómo me gustaría vivir aquí!” Y envidiaba a los vecinos, que, tranquilamente, con sus costumbres y sus cotidianas ocupaciones, podían vivir allí sin pasar por ese estado de angustiosa interinidad que tiene suspenso el ánimo del que viaja. Este sentimiento de angustiosa interinidad seguía atosigándome, y hacía que les tomase aborrecimiento a la cama en que dormía y a los objetos que me rodeaban. Solemos transformar los objetos según las imágenes que, nos evocan y agrupan, por así decirlo, en torno suyo. Cierto que un objeto puede agradarnos también por sí mismo y por la diversidad de placenteras sensaciones que suscita en una percepción armoniosa; pero lo más frecuente es que el deleite que un objeto nos proporciona no radique en el objeto mismo. La fantasía lo hermosea, ciñéndolo y como nimbándolo de imágenes gratas. Ni tampoco le vemos como él es en sí, sino de ese modo, cual animado por las imágenes que nos evoca y que en él vinculan nuestras costumbres. Lo que, en suma, nos agrada en el objeto es lo que en él ponemos de nosotros mismos: el acuerdo, la armonía que establecemos entre él y nosotros, el alma que adquiere para nosotros sólo y que se compone de nuestros recuerdos. ¿Y cómo podía sucederme a mí nada de esto en el cuarto de una fonda? Pero ¿podía yo tener ya una casa enteramente mía? ¡Tenía tan poco dinero! ... Pero ¿y una casita modesta, de pocas habitaciones? Poco a poco; hacía falta ver y considerar primero con toda calma muchas cosas. Era verdad que solo, con la maleta en la mano, podía yo ser libre, ubérrimo, rodando de un lado para otro, hoy aquí, mañana allá. Si me detenía en algún sitio, si me hacía propietario de una casa, ¡vendrían en seguida los consiguientes registros y contribuciones! ¿Y tendría que inscribirme en el Registro de la Propiedad? ¡Naturalmente! Pero ¿cómo? ¿Con un nombre falso? ¡Sí! Pero entonces, ¿quién me aseguraba que no fuera a ser objeto de investigaciones secretas por parte de la Policía?... En una palabra: ¡ enredos y líos! ... ¡Nada, que no podía ser! ¡Que no iba a poder tener en adelante ni una casa, ni unos muebles propios! Bueno; pues me metería en una casa de huéspedes, en una habitación amueblada. ¿Iba a apurarme por tan poco? El invierno, el condenado invierno era el que me inspiraba tan melancólicas reflexiones; de todo tenía la culpa la cercana Navidad, que infunde la nostalgia de un rinconcito grato, el recogimiento e intimidad de la casa. Cierto que no tenía por qué echar de menos la de mi hogar. La otra, más antigua, la de mi casa paterna, única que yo pudiera recordar con nostalgia, hacía ya mucho tiempo que no existía, sin que hubiera venido a ponerle término mi nuevo estado civil. De suerte que debía conformarme pensando que no tendría nada de grata para mí la Nochebuena si hubiera de pasarla en Miragno, con mi mujer y mi suegra. (El vello se me erizaba.) Por alegrarme el humor o distraerme, me imaginaba mi llegada a la puerta de mi casa con una hogaza de pan bajo el brazo. —¿Dan ustedes su permiso? ¿Siguen viviendo aquí la señora doña Romilda Pescatore, viuda de Pascal, y la señora doña Mariana Dondi, viuda de Pescatore? —Sí, señor. Pero ¿quién es usted? —Yo soy el difunto esposo de la señora de Pascal, aquel pobre hombre que murió, ahora hará un año, ahogado en el molino. Y vengo del otro mundo a pasar la Nochebuena con mi familia, con la venia de mis superiores. Ahora, que me tengo que volver allá en seguida. ¿Se caería redonda al suelo mi suegra al verme aparecer tan de improviso? ¡Ca! Lo que haría sería obligarme a morir otra vez antes de dos días. Mi suerte —y de ello era de lo que debía convencerme— consistía precisamente en haberme librado de mi mujer y de mi suegra, de los tramposas y humillantes aflicciones de mi primera vida. Ahora era absolutamente libre. ¿Y no tenía bastante con eso? Ya lo creo. Todavía tenía por delante toda una vida. Y además.... ¡quién sabe cuántos habría en el mundo tan solos como yo! «Sí; pero esos tales —pensaba yo, inducido por el mal tiempo, por aquella condenada niebla—, o son forasteros, o tienen en otro sitio una casa a la que poder volver el día que se les antoje; o en el caso de que se encuentren sin casa, como yo, pueden tenerla mañana, y contentarse, por lo pronto, con la hospitalidad de un amigo. Mientras que tú, permíteme que te lo diga, serás siempre y doquiera un extranjero; esa es toda la diferencia. Adriano Meis es un extranjero en la vida.» Me encogía de hombros, molesto, y exclamaba: «¡Bueno! Pues de ese modo estoy más suelto. ¿Qué no tengo amigos? Nadie me impide echármelos ...” Ya en el restaurante que frecuentaba por aquellos días habíase mostrado con ganas de trabar amistad conmigo mi vecino de mesa. Tendría el tal unos cuarenta años; un tanto calvo, moreno, con lentes de oro, que no se le sujetaban bien en la nariz, quizá por el peso de la cadenilla, que era también de oro. ¡Si vierais qué cariñoso! Cuando se levantaba de la mesa y se ponía el sombrero parecía otro: lo que se dice un niño. Lo que tenía defectuoso eran las piernas, tan pequeñitas que, sentado, no le llegaban al suelo, pudiendo decirse que no se levantaba de la silla, sino que se apeaba de ella. El hombre procuraba remediar ese defecto usando tacones altos. ¿Qué había de malo en ello? Cierto que armaban mucho ruido los dichosos tacones; pero, en cambio, ¡resultaban tan graciosamente imperiosos sus saltitos de perdiz! Era, esto aparte, de muy buena pasta y muy listo —quizá un poquitín voluble y terco—, pero con puntos de vista muy suyos y originales, y poseía también el título de Caballero. Me había dado su tarjeta, en la cual se leía: Caballero –Tito Lenzi Y a propósito de esta tarjetita: en un tris estuvo que no me forjase yo un motivo de infelicidad del mal papel que creía haber hecho no dándole la mía en cambio. No me había mandado hacer todavía tarjetas, pues experimentaba cierta cortedad para hacérmelas con mi nuevo nombre. ¡Bobadas! ¡Como si no se pudiera vivir sin hacerse tarjetas! Cuando puede uno decir de viva voz su gracia y salir del paso. Eso fue lo que yo hice; pero decir la verdad, mi verdadero nombre... ¡nunca! ¡Qué hermosos razonamientos sabía expresar el caballero Tito Lenzi! Sabía hasta latín, y citaba a Cicerón como quien no dice nada. —¡La conciencia! Pero si la conciencia no sirve para maldita la cosa, amigo mío. La conciencia como guía no puede ser bastante. Lo sería quizá si fuere castillo en lugar de ser plaza, por decirlo así; esto es, si pudiésemos llegar a concebirnos aisladamente y no estuviera ella, como lo está, abierta al prójimo. Según yo, en la conciencia existe una relación esencial...; sí, señor, esencial, entre mí que pienso y los demás seres que yo pienso. De donde resulta que no hay ningún absoluto que se baste a sí mismo. ¿Me explico bien? Cuando los sentimientos, las inclinaciones, los gustos de aquellos otros seres que yo pienso no se reflejan en mí o en ella, no podemos sentirnos ufanos, ni tranquilos, ni alegres; tan cierto es que todos nosotros luchamos para que nuestros sentimientos, nuestras ideas, nuestras inclinaciones y nuestros gustos se reflejen en la conciencia de los demás. Y si no sucede tal cosa, porque.... digámoslo así, el ambiente del momento no se presta a transportar y hacer florecer, amigo mío, los gérmenes.... los gérmenes de su idea de usted en la mente del prójimo, usted no puede decir que le basta con su conciencia. ¿Para qué le basta? ¿Para vivir usted solo? ¿Para consumirse en la sombra? ¡Ca!, amigo mío, ¡ca! Oígame: yo odio la Retórica, esa tía vieja, embustera y fanfarrona, lechuza con antiparras. Seguramente ha sido ella la autora de esta hermosa frasecita tan echada hacia adelante: «Con mi conciencia me basta». ¡Sí! Ya Cicerón dijo: «Mea mihí consciencia pluris est quam hominum sermo.» Pero Cicerón, digámoslo francamente, está muy bien en punto a elocuencia; mas... ¡Dios nos libre, amigo mío! Resulta tan pesado como un estudiante de violín. Me lo hubiera comido a besos. Sólo que mi simpático hombrecito no quiso seguir adelante en sus ingeniosos y conceptuosos razonamientos de que acabo de daros una muestra. Empezó a tratarme con confianza, y yo, que creía fácil y bien encauzada nuestra amistad, hube de sentir al punto cierto empacho, algo así como una fuerza que me obligada a desviarme de su vera, a retraerme. En tanto, limitóse a hablar él solo, y giró la conversación sobre temas vagos, todo salió a pedir de boca; pero ahora el caballero Tito se empeñaba en tirarme de la lengua a mí. —Usted no es milanés, ¿verdad? —No... —¿Se encuentra aquí de paso?... —Sí... —¿Verdad que Milán es muy hermoso? —Sí, muy hermoso... Parecía yo un loro amaestrado. Y según iba él estrechándome con sus preguntas, tanto más me alejaba yo con mis respuestas. No tardé en encontrarme en América. Pero en cuanto el hombrecito me oyó decir que era argentino, levantóse de un brinco de la silla y vino a apretarme calurosamente la mano. —¡Lo felicito a usted, amigo mío! ¡Envidia le tengo! ¡Oh, América! ... Yo he estado allá. ¿Qué había estado allá? ¡Pues echa a correr, Adrianito! —En ese caso —apresuréme a decirle—, más bien debo yo felicitarle a usted, que ha estado allá, porque lo que es yo puedo decir que no he estado con todo y ser de allí, ya que me trajeron a Europa de pocos meses; de suerte, que puede decirse que mis pies no han hollado tierra americana. —¡Qué lástima! —exclamó, apiadado, el caballero Tito Lenzi—. Pero tendrá usted familia allá. —No, ninguna... —¡Ah! ¿Se ha venido usted a Europa con toda su familia para afincarse aquí? ¿Dónde vive usted? Yo me encogí de hombros. —¡Ay! —suspiré—. ¡No tengo casa ni hogar! ... Ruedo por el mundo... —¡Oh, y qué gusto! ¡Dichoso usted! ... ¿Conque rueda?... ¿Y no tiene ningún pariente, de verdad ninguno? —Ninguno... —¡Oh, y qué gusto! ¡Dichoso usted! ¡Cómo lo envidio! —¿Entonces, usted tendrá familia? —preguntéle a mi vez, por apartar de mi persona el rumbo de la conversación. —¡Ah, no! —suspiró él, frunciendo el ceño—. ¡Soy solo en el mundo!; ¡siempre he sido solo! —¡Entonces como yo! ... —Pero yo me aburro mortalmente, amigo mío —saltó el hombrecillo—. Para mí la soledad... Sí señor, ya estoy harto de soledad. Tengo muchos amigos; pero, créame usted, que no es nada agradable, cuando se llega a cierta edad, llegar a su casa y no encontrarse a nadie. ¡Ah! Hay quien comprende y quien no, amigo mío. Y el que comprende es el que sale peor librado, porque, al fin y a la postre, viene a encontrarse sin energía ni voluntad. Porque, efectivamente, el que comprende dice: «No debo hacer esto, ni esto otro, por no cometer esta o aquella bestialidad.» ¡Está muy bien! Pero llega un momento en que se entera de que la vida toda es una bestialidad, y entonces, ¿quiere usted decirme a qué conduce el no haber cometido ninguna? Pues a la conclusión de no haber vivido, amigo mío. —Pero —díjele yo, intentando consolarlo— usted, por fortuna, aun está a tiempo... —¿De cometer bestialidades? ¡Oh! ¡He hecho ya tantas! ¡Si usted supiera! —respondió con una sonrisa y un gesto fatuos—. He viajado, he rodado como usted y... he tenido.... sí, señor.... he tenido mis trapisondas. Mire: por ejemplo, una noche en Viena... Yo me quedé como quien ve visiones... ¡Aventuras amorosas él! Tres, cuatro, cinco nada menos en Austria, en Francia, en Italia..., ¡hasta en Rusia! ¡Y qué aventuras! A cual más atrevida... Como botón de muestra expondré aquí un fragmento de diálogo entre el caballero Tito Lenzi y una señora casada: EL.—¡Ah, ya lo creo, si se piensa en ello, ya lo sé, señora mía! ... Engañar al marido. ¡Dios nos libre! La felicidad, la honestidad, la dignidad... Tres palabras gordas, tres palabras santas, con el acento en la a... ¡Sin contar el honor! Otra palabra gorda..., enorme... Pero en la práctica, crea usted que es harina de otro costal, señora mía... ¡Una cosa sin importancia! Y si no, pregúnteselo a aquellas de sus amigas que ya tienen experiencia... LA SEÑORA CASADA.—¡Sí, ya se lo pregunté, y todas ellas se llevaron un gran desengaño! EL.—¡Naturalmente! ¡Claro está! Porque cohibidas con esas palabras gordas tardaron nada menos que un año o seis meses, demasiado tiempo en decidirse. Y el desengaño se debe precisamente a la desproporción entre la entidad del acto y las excesivas cavilaciones a que les dio lugar, ¡Hay que decidirse enseguida, señora mía! Yo, en cuanto lo pienso lo hago. ¡Es tan sencillo! Bastaba mirarlo; bastaba contemplar con un poco de atención su ridícula y menguada facha para comprender al punto que mentía, sin necesidad de más pruebas. Al asombro sucedió en mí un profundo sentimiento de sonrojo por él, que no se percataba del lamentable efecto que habían de producir, naturalmente, aquellas fanfarronadas suyas, y también por mí, que le veía mentir con tanta frescura y gusto cuando ninguna necesidad tenía de hacerlo; mientras que yo, que no tenía más remedio que mentir, pasaba infinitos apuros para decidirme a soltar un embuste. Sonrojo e indignación. Ganas me entraban de cogerle de un brazo y decirle: «Pero, dígame usted, hombre, ¿por qué miente?» Pero aunque aquel sonrojo y aquella indignación fueran razonables y naturales en mí, sin más que reflexionar un momento caí en la cuenta de que hubiera sido, cuando menos, una sandez el hacerle esa pregunta. Pues, precisamente, la razón de que aquel tipejo se empeñara en hacerme tragar aquellas supuestas aventuras no era otra que la de no tener para qué mentir; mientras que a mí..., a mí me obligaba a ello la necesidad. Lo que para él, en suma, podía ser un solaz y hasta casi el ejercicio de un derecho, era, en cambio, para mí una obligación enojosa, una condena. ¿Y qué se deducía de estas reflexiones? Pues que yo, pobre de mí, condenado sin remedio a mentir por la situación en que me encontraba, no podría tener nunca en la vida un amigo, un amigo de verdad. Así que ni casa, ni amigos... Amistad quiere decir confianza. ¿Y cómo podía yo confiarle a nadie el secreto de mi vida sin nombre ni pasado, nacida como un hongo, del suicidio de Matías Pascal? Yo no podría tener más que relaciones superficiales, ni permitirme con mis semejantes más que un breve cambio de palabras indiferentes. Pero, en fin, esos eran los inconvenientes de mi buena suerte. ¡Paciencia! ¿Iba a desalentarme por eso? Viviré conmigo y de mí, como hice hasta ahora. Pero ese era el quid; que, hablando francamente, temíame mucho no tener motivos para estar ufano ni satisfecho de mi compañía. Y luego, que al pasarme la mano por la cara y sentírmela sin pelo de barba y pasármela después por las melenas y por los lentes, experimentaba una peregrina impresión: la de no ser yo aquel sujeto al que palpaba. Seamos justos. Yo me había disfrazado de aquella guisa para los demás, no para mí. ¿E iba a continuar aquella mascarada, incluso para conmigo mismo? Pero si todo aquello que yo había urdido e imaginado de Adriano Meis no había de servirme para los demás, ¿para quién iba a servirme? ¿Para mí? ¡Si yo sólo podría creérmelo a condición de que los demás se lo creyesen! Mas si este Adriano Meis no era hombre con agallas para echar mentiras y andar desembarazadamente por el mundo, sino que se metía en su concha y se retiraba a su albergue, harto de verse solo, aquellos tristes días de invierno, por las calles de Milán, y allí se encerraba en compañía del difunto Matías Pascal, entonces ya podía dar por seguro que mis asuntos terminarían mal, que la vida no iba a ser para mí una fiesta y que mi buena suerte, entonces... Pero quizá la verdad fuese ésta: que con aquella mi ilimitada libertad se me hacía muy cuesta arriba empezar a vivir de ningún modo. Siempre que ya estaba a punto de adoptar una resolución cualquiera, sentíame como cohibido y me parecía ver un sinfín de impedimentos y sombras y obstáculos. Y entonces me echaba de nuevo a la calle, a dar vueltas; lo observaba todo, parábame a mirar cualquier simpleza, me estaba pensando largo rato en la menor cosa. Cansado ya de andar, me metía en un café y me ponía a fisgar a la gente que entraba y salía; hasta que, por último, me salía yo también. Pero la vida, considerada de ese modo, mirada con los ojos de un espectador extraño, antojábaseme huera y sin objeto, y entre aquella barahúnda de gente sentíame como extraviado. Y a todo esto, me atronaba los oídos el fragor, el continuo trajín de la ciudad. «¡Oh! ¿Por qué los hombres —preguntábame a mí mismo ansiosamente— ponen tanto empeño en complicar cada vez más su género de vida? ¿A qué santo todo este ruido de máquinas? ¿Y qué hará el hombre cuando las máquinas se encarguen de hacerlo ellas todo? ¿Caerá entonces en la cuenta de que el llamado progreso no tiene nada que ver con la felicidad? De todos esos inventos con que la ciencia cree honradamente enriquecer a la Humanidad —cuando lo que hace es arruinarla con lo caro que cuestan—, ¿qué alegría experimentamos nosotros en el fondo, aunque no les regateemos nuestra admiración?» El día antes habíame tropezado yo en un tranvía con un pobre hombre de esos que no tienen más remedio que comunicarles a los demás cuanto les pasa por la imaginación. —¡Qué invento tan magnífico! —díjome el tal—. Por diez céntimos, en unos cuantos minutos, le doy la vuelta a Milán. Aquel pobre hombre sólo se fijaba en los diez céntimos que costaba el trayecto, y no paraba mientes en que moneda a moneda de diez céntimos se le iba como agua su mísero sueldo, resultándole insuficiente para hacer aquella vida fragoroso con tranvía eléctrico, luz eléctrica, etcétera, etcétera. Y, sin embargo, pensaba yo: La ciencia se forja la ilusión de hacer más fácil y cómoda la vida; pero aun suponiendo que verdaderamente la haga más fácil con sus máquinas tan complicadas, pregunto yo: ¿Y qué servicio más flaco puede hacerle a quien está condenado a una tarea vana que hacérsela fácil y poco menos que mecánica? Volvíame a la fonda. Allí, en un pasillo, colgada en el vano de la ventana, había una jaula con un canario. No pudiendo hablar con la gente y no sabiendo qué hacer, poníame a charlar con el canario; le hacía el eco con mi voz, y el pobre pajarilla se creía que le decían algo, y se paraba a escuchar, y acaso en aquellos píos míos percibiese aires de arboleda, de libertad... Se revolvía en la jaula, saltaba de una caña a otra, miraba de soslayo meneando la cabecita, y luego me respondía, me interrogaba y se quedaba escuchando. ¡Pobre pajarillo! ¡Cómo me entendía él, mientras que yo me quedaba en ayunas de lo que le hubiera dicho! ... Aunque bien mirado, ¿no nos ocurre a los hombres algo semejante? ¿No nos creemos también nosotros que la Naturaleza nos habla? ¿Y no nos parece percibir un sentido en sus voces misteriosas, una respuesta, según nuestros deseos, a las anhelantes preguntas que le dirigimos? Y lo más probable es que la Naturaleza, en su grandeza infinita, no tenga ni la más remota idea de nosotros ni de nuestra vana ilusión. ¡Pero hay que ver a qué conclusiones puede conducirle una broma nacida del ocio a un hombre condenado a estar siempre a solas consigo! Ganas me daban de liarme conmigo a palos. ¿Estaría yo de veras en vísperas de convertirme seriamente en filósofo? No, no, ¡ea! No era lógica mi conducta. De suerte que no hubiera podido seguir observándola mucho tiempo. Era preciso que yo venciese toda cortedad y adoptase a toda costa una resolución. En una palabra: yo tenía que vivir. ¡Vivir!






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