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XIII: Il lanternino
Quaranta giorni al bujo. Riuscita, oh, riuscita benissimo l'operazione. Solo che l'occhio mi sarebbe forse rimasto un pochino pochino più grosso dell'altro. Pazienza! E intanto, sì, al bujo quaranta giorni, in camera mia. Potei sperimentare che l'uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch'egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa. Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d'esser confortato in qualche modo crebbe fino all'esasperazione. Sapevo, si, di trovarmi in una casa estranea; e che perciò dovevo anzi ringraziare i miei ospiti delle cure delicatissime che avevano per me. Ma non mi bastavano più, quelle cure; m'irritavano anzi, come se mi fossero usate per dispetto. Sicuro! Perché indovinavo da chi mi venivano. Adriana mi dimostrava per mezzo di esse, ch'ella era col pensiero quasi tutto il giorno Lì con me, in camera mia; e grazie della consolazione! Che mi valeva, se io intanto, col mio, la inseguivo di qua e di là per casa, tutto il giorno, smaniando? Lei sola poteva confortarmi: doveva; lei che più degli altri era in grado d'intendere come e quanto dovesse pesarmi la noja, rodermi il desiderio di vederla o di sentirmela almeno vicina. E la smania e la noja erano accresciute anche dalla rabbia che mi aveva suscitato la notizia della subitanea partenza da Roma del Pantogada. Mi sarei forse rintanato lì per quaranta giorni al bujo, se avessi saputo ch'egli doveva andar via cosi presto? Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario. - Immaginario? Questo? - gli gridai. - Abbia pazienza mi spiego. E mi svolse (fors'anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav'uomo s'interrompeva per domandarmi: - Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli: - Sì, grazie, dormo, signor Anselmo. Ma poiché l'intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt'intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? - Dorme, signor Meis? - Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino. - Ah, bene... Ma poiché lei ha l'occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d'inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l'illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d'un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io... E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d'una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell'idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d'un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell'improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s'aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d'accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele. Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo: La piccola mia lampa Non, come sol, risplende, Né, come incendio, fuma; Non stride e non consuma, Ma con la cima tende Al ciel che me la diè. Starà su me, sepolto, Viva; né pioggia o Vento, Né in lei le età potranno; E quei che passeranno Erranti, a lume spento, Lo accenderan da me. Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l'olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell'alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell'esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all'orlo fatale, al quale s'affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: « Dio mi vede! » per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. « Dio mi vede... » perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest'enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all'indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l'estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d'ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d'esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, - non so se questo possa farle piacere - noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l'universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell'universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com'esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un'altra forma d'esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c'ispirò! Oh perché dunque il signor Anselmo Paleari, pur dicendo, e con ragione, tanto male del lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, ne voleva accendere ora un altro col vetro rosso, là in camera mia, pe' suoi esperimenti spiritici? Non era già di troppo quell'uno? Volli domandarglielo. - Correttivo! - mi rispose. - Un lanternino contro l'altro! Del resto a un certo punto questo si spegne, sa! - E le sembra che sia il miglior mezzo, codesto, per vedere qualche cosa? - m'arrischiai a osservare. - Ma la così detta luce, scusi, - ribatté pronto il signor Anselmo, - può servire per farci vedere ingannevolmente qua, nella così detta vita; per farci vedere di là da questa, non serve affatto, creda, anzi nuoce. Sono stupide pretensioni di certi scienziati di cuor meschino e di più meschino intelletto, i quali vogliono credere per loro comodità che con questi esperimenti si faccia oltraggio alla scienza o alla natura. Ma nossignore! Noi vogliamo scoprire altre leggi, altre forse, altra vita nella natura, sempre nella natura, perbacco! oltre la scarsissima esperienza normale; noi vogliamo sforzare l'angusta comprensione, che i nostri sensi limitati ce ne dànno abitualmente. Ora, scusi, non pretendono gli scienziati per i primi ambiente e condizioni adatti per la buona riuscita dei loro esperimenti? Si può fare a meno della camera oscura nella fotografia? E dunque? Ci sono poi tanti mezzi di controllo! Il signor Anselmo però, come potei vedere poche sere dopo, non ne usava alcuno. Ma erano esperimenti in famiglia! Poteva mai sospettare che la signorina Caporale e Papiano si prendessero il gusto d'ingannarlo? e perché, poi? che gusto? Egli era più che convinto e non aveva affatto bisogno di quegli esperimenti per rafforzar la sua fede. Come uomo dabbenissimo che era, non arrivava a supporre che potessero ingannarlo per altro fine. Quanto alla meschinità affliggente e puerile dei resultati, la teosofia s'incaricava di dargliene una spiegazione plausibilissima. Gli esseri superiori del Piano Mentale, o di più sù, non potevano discendere a comunicare con noi per mezzo di un medium bisognava dunque contentarsi delle manifestazioni grossolane di anime di trapassati inferiori, del Piano Astrale, cioè del più prossimo al nostro: ecco. E chi poteva dirgli di no?* Io sapevo che Adriana s'era sempre ricusata d'assistere a questi esperimenti. Dacché me ne stavo tappato in camera, al bujo, ella non era entrata se non raramente, e non mai sola, a domandarmi come stessi. Ogni volta quella domanda pareva ed era infatti rivolta per pura convenienza. Lo sapeva, lo sapeva bene come stavo! Mi pareva finanche di sentire un certo sapor d'ironia birichina nella voce di lei, perché già ella ignorava per qual ragione mi fossi così d'un tratto risoluto ad assoggettarmi all'operazione, e doveva perciò ritenere ch'io soffrissi per vanità, per farmi cioè più bello o meno brutto, con l'occhio accomodato secondo il consiglio della Caporale. - Sto benone, signorina! - le rispondevo. - Non vedo niente... - Eh, ma vedrà, vedrà meglio poi, - diceva allora Papiano. Approfittandomi del bujo, alzavo un pugno, come per scaraventarglielo in faccia. Ma lo faceva apposta certamente, perch'io perdessi quel po' di pazienza che mi restava ancora. Non era possibile ch'egli non s'accorgesse del fastidio che mi recava: glielo dimostravo in tutti i modi, sbadigliando, sbuffando; eppure, eccolo là: seguitava a entrare in camera mia quasi ogni sera (ah lui, sì) e vi si tratteneva per ore intere, chiacchierando senza fine. In quel bujo, la sua voce mi toglieva quasi il respiro, mi faceva torcere su la sedia, come su un aculeo, artigliar le dita: avrei voluto strozzarlo in certi momenti. Lo indovinava? lo sentiva? Proprio in quei momenti, ecco, la sua voce diventava più molle, quasi carezzevole. Noi abbiamo bisogno d'incolpar sempre qualcuno dei nostri danni e delle nostre sciagure. Papiano, in fondo, faceva tutto per spingermi ad andar via da quella casa; e di questo, se la voce della ragione avesse potuto parlare in me, in quei giorni, io avrei dovuto ringraziarlo con tutto il cuore. Ma come potevo ascoltarla, questa benedetta voce della ragione, se essa mi parlava appunto per la bocca di lui, di Papiano, il quale per me aveva torto, torto evidente, torto sfacciato? Non voleva egli mandarmi via, infatti, per frodare il Paleari e rovinare Adriana? Questo soltanto io potevo allora comprendere da tutti que' suoi discorsi. Oh possibile che la voce della ragione dovesse proprio scegliere la bocca di Papiano per farsi udire da me? Ma forse ero io che, per trovarmi una scusa, la mettevo in bocca a lui, perché mi paresse ingiusta, io che mi sentivo già preso nei lacci della vita e smaniavo, non per il bujo propriamente, né per il fastidio che Papiano, parlando, mi cagionava. Di che mi parlava? Di Pepita Pantogada, sera per sera. Benché io vivessi modestissimamente, s'era fitto in capo che fossi molto ricco. E ora, per deviare il mio pensiero da Adriana, forse vagheggiava l'idea di farmi innamorare di quella nipote del marchese Giglio d'Auletta, e me la descriveva come una fanciulla saggia e fiera, piena d'ingegno e di volontà, recisa nei modi, franca e vivace; bella, poi; uh, tanto bella! bruna, esile e formosa a un tempo; tutta fuoco, con un pajo d'occhi fulminanti e una bocca che strappava i baci. Non diceva nulla della dote: - Vistosissima! - tutta la sostanza del marchese d'Auletta, nientemeno. Il quale, senza dubbio, sarebbe stato felicissimo di darle presto marito, non solo per liberarsi del Pantogada che lo vessava, ma anche perché non andavano tanto d'accordo nonno e nipote: il marchese era debole di carattere, tutto chiuso in quel suo mondo morto; Pepita invece, forte, vibrante di vita. Non comprendeva che più egli elogiava questa Pepita, più cresceva in me l'antipatia per lei, prima ancora di conoscerla? La avrei conosciuta - diceva - fra qualche sera, perché egli la avrebbe indotta a intervenire alle prossime sedute spiritiche. Anche il marchese Giglio d'Auletta avrei conosciuto, che lo desiderava tanto per tutto ciò che egli, Papiano, gli aveva detto di me. Ma il marchese non usciva più di casa, e poi non avrebbe mai preso parte a una seduta spiritica, per le sue idee religiose. - E come? - domandai. - Lui, no; e intanto permette che vi prenda parte la nipote? - Ma perché sa in quali mani l'affida! - esclamò alteramente Papiano. Non volli saper altro. Perché Adriana si ricusava d'assistere a quegli esperimenti? Pe' suoi scrupoli religiosi. Ora, se la nipote del marchese Giglio avrebbe preso parte a quelle sedute, col consenso del nonno clericale, non avrebbe potuto anch'ella parteciparvi? Forte di questo argomento, io cercai di persuaderla, la vigilia della prima seduta. Era entrata in camera mia col padre, il quale udita la mia proposta: - Ma siamo sempre lì, signor Meis! - sospirò. - La religione, di fronte a questo problema, drizza orecchie d'asino e adombra, come la scienza. Eppure i nostri esperimenti, l'ho già detto e spiegato tante volte a mia figlia, non sono affatto contrarii né all'una né all'altra. Anzi, per la religione segnatamente sono una prova delle verità che essa sostiene. - E se io avessi paura? - obbiettò Adriana. - Di che? - ribatté il padre. - Della prova? - O del bujo? - aggiunsi io. - Siamo tutti qua, con lei, signorina! Vorrà mancare lei sola? - Ma io... - rispose, impacciata, Adriana, - io non ci credo, ecco... non posso crederci, e... che so! Non poté aggiunger altro. Dal tono della voce, dall'imbarazzo, io però compresi che non soltanto la religione vietava ad Adriana d'assistere a quegli esperimenti. La paura messa avanti da lei per iscusa poteva avere altre cause, che il signor Anselmo non sospettava. O le doleva forse d'assistere allo spettacolo miserevole del padre puerilmente ingannato da Papiano e dalla signorina Caporale? Non ebbi animo d'insistere più oltre. Ma ella, come se mi avesse letto in cuore il dispiacere che il suo rifiuto mi cagionava, si lasciò sfuggire nel bujo un: - Del resto... - ch'io colsi subito a volo: - Ah brava! L'avremo dunque con noi? - Per domani sera soltanto, - concesse ella, sorridendo. Il giorno appresso, sul tardi, Papiano venne a preparare la camera: v'introdusse un tavolino rettangolare, d'abete, senza cassetto, senza vernice, dozzinale; sgombrò un angolo della stanza; vi appese a una funicella un lenzuolo; poi recò una chitarra, un collaretto da cane con molti sonaglioli, e altri oggetti. Questi preparativi furono fatti al lume del famoso lanternino dal vetro rosso. Preparando, non smise - s'intende! - un solo istante di parlare. - Il lenzuolo serve, sa! serve... non saprei, da... da accumulatore, diciamo, di questa forza misteriosa: lei lo vedrà agitarsi, signor Meis, gonfiarsi come una vela, rischiararsi a volte d'un lume strano, quasi direi siderale. Sissignore! Non siamo ancora riusciti a ottenere materializzazioni, ma luci sì: ne vedrà, se la signorina Silvia questa sera si troverà in buone disposizioni. Comunica con lo spirito di Un suo antico compagno d'Accademia, morto, Dio ne scampi, di tisi, a diciott'anni. Era di... non so, di Basilea, mi pare: ma stabilito a Roma da un pezzo, con la famiglia. Un genio, sa, per la musica: reciso dalla morte crudele prima che avesse potuto dare i suoi frutti. Così almeno dice la signorina Caporale. Anche prima che ella sapesse d'aver questa facoltà medianica, comunicava con lo spirito di Max. Sissignore: si chiamava così, Max... aspetti, Max Oliz, se non sbaglio. Sissignore! Invasata da questo spirito, improvvisava sul pianoforte, fino a cader per terra, svenuta, in certi momenti. Una sera si raccolse perfino gente, giù in istrada, che poi la applaudì... - E la signorina Caporale ne ebbe quasi paura, - aggiunsi io, placidamente. - Ah, lo sa? - fece Papiano, restando. - Me l'ha detto lei stessa. Sicché dunque applaudirono la musica di Max sonata con le mani della signorina Caporale? - Già, già! Peccato che non abbiamo in casa un pianoforte. Dobbiamo contentarci di qualche motivetto, di qualche spunto, accennato su la chitarra. Max s'arrabbia, sa! fino a strappar le corde, certe volte... Ma sentirà stasera. Mi pare che sia tutto in ordine, ormai. - E dica un po', signor Terenzio. Per curiosità, - volli domandargli, prima che andasse via, - lei ci crede? ci crede proprio? - Ecco, - mi rispose subito, come se avesse preveduto la domanda. - Per dire la verità, non riesco a vederci chiaro. - Eh sfido! - Ah, ma non perché gli esperimenti si facciano al bujo, badiamo! I fenomeni, le manifestazioni sono reali, non c'è che dire: innegabili. Noi non possiamo mica diffidare di noi stessi... - E perché no? Anzi! - Come? Non capisco! - C'inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche cosa... - Ma a me, no, sa: non piace! - protestò Papiano. - Mio suocero, che è molto addentro in questi studii, ci crede. Io, fra l'altro, veda, non ho neanche il tempo di pensarci... se pure ne avessi voglia. Ho tanto da fare, tanto, con quei maledetti Borboni del marchese che mi tengono lì a chiodo! Perdo qui qualche serata. Dal canto mio, son d'avviso, che noi, finché per grazia di Dio siamo vivi, non potremo saper nulla della morte; e dunque, non le pare inutile pensarci? Ingegnamoci di vivere alla meglio, piuttosto, santo Dio! Ecco come io la penso, signor Meis. A rivederla, eh? Ora scappo a prendere in via dei Pontefici la signorina Pantogada. Ritornò dopo circa mezz'ora, molto contrariato: insieme con la Pantogada e la governante era venuto un certo pittore spagnuolo, che mi fu presentato a denti stretti come amico di casa Giglio. Si chiamava Manuel Bernaldez e parlava correttamente l'italiano; non ci fu verso però di fargli pronunciare l'esse del mio cognome: pareva che ogni volta, nell'atto di proferirla, avesse paura che la lingua gliene restasse ferita. - Adriano Mei, - diceva, come se tutt'a un tratto fossimo diventati amiconi. - Adriano Tui, - mi veniva quasi di rispondergli. Entrarono le donne: Pepita, la governante, la signorina Caporale, Adriana. - Anche tu? Che novità? - le disse Papiano con mal garbo. Non se l'aspettava quest'altro tiro. Io intanto, dal modo con cui era stato accolto il Bernaldez, avevo capito che il marchese Giglio non doveva saper nulla dell'intervento di lui alla seduta, e che doveva esserci sotto qualche intrighetto con la Pepita. Ma il gran Terenzio non rinunziò al suo disegno. Disponendo intorno al tavolino la catena medianica, si fece sedere accanto Adriana e pose accanto a me la Pantogada. Non ero contento? No. E Pepita neppure. Parlando tal quale come il padre, ella si ribellò subito: - Gracie tanto, asì no puede ser! Ió voglio estar entre el segnor Paleari e la mia governante, caro segnor Terenzio! La semioscurità rossastra permetteva appena di discernere i contorni; cosicché non potei vedere fino a qual punto rispondesse al vero il ritratto che della signorina Pantogada m'aveva abbozzato Papiano; il tratto però, la voce e quella sùbita ribellione s'accordavano perfettamente all'idea che m'ero fatta di lei, dopo quella descrizione. Certo, rifiutando cosi sdegnosamente il posto che Papiano le aveva assegnato accanto a me, la signorina Pantogada m'offendeva; ma io non solo non me n'ebbi a male, ma anzi me ne rallegrai. - Giustissimo! - esclamò Papiano. - E allora, si può far così: accanto al signor Meis segga la signora Candida; poi prenda posto lei, signorina. Mio suocero rimanga dov'è: e noi altri tre pure così, come stiamo. Va bene? E no! non andava bene neanche così: né per me, né per la signorina Caporale, né per Adriana e né - come si vide poco dopo - per la Pepita, la quale stette molto meglio in una nuova catena disposta proprio dal genialissimo spirito di Max. Per il momento, io mi vidi accanto quasi un fantasima di donna, con una specie di collinetta in capo (era cappello? era cuffia? parrucca? che diavolo era?). Di sotto quel carico enorme uscivan di tratto in tratto certi sospiri terminati da un breve gemito. Nessuno aveva pensato a presentarmi a quella signora Candida : ora, per far la catena, dovevamo tenerci per mano; e lei sospirava. Non le pareva ben fatto, ecco. Dio, che mano fredda! Con l'altra mano tenevo la sinistra della signorina Caporale seduta a capo del tavolino, con le spalle contro il lenzuolo appeso all'angolo; Papiano le teneva la destra. Accanto ad Adriana, dall'altra parte, sedeva il pittore; il signor Anselmo stava all'altro capo del tavolino, dirimpetto alla Caporale. Papiano disse: - Bisognerebbe spiegare innanzi tutto al signor Meis e alla signorina Pantogada il linguaggio... come si chiama? - Tiptologico, - suggerì il signor Anselmo. - Prego, anche a me, - si rinzelò la signora Candida, agitandosi su la seggiola. - Giustissimo! Anche alla signora Candida, si sa! - Ecco, - prese a spiegare il signor Anselmo. - Due colpi vogliono dir sì... - Colpi? - interruppe Pepita. - Che colpi? - Colpi, - rispose Papiano, - o battuti sul tavolino o su le seggiole o altrove o anche fatti percepire per via di toccamenti. - Ah no-no-no-no-nó!! - esclamò allora quella a precipizio, balzando in piedi. - Ió non ne amo, tocamenti. De chi? - Ma dello spirito di Max, signorina, - le spiegò Papiano. - Gliel'ho accennato, venendo: non fanno mica male, si rassicuri. - Tittologichi, - aggiunse con aria di commiserazione, da donna superiore, la signora Candida. - E dunque, - riprese il signor Anselmo, - due colpi, sì; tre colpi, no; quattro, bujo cinque, parlate; sei, luce. Basterà così. E ora concentriamoci, signori miei. Si fece silenzio. Ci concentrammo.

 

capitulo 14 - El farolillo Cuarenta días a oscuras en mi cuarto. Como salir, salió la operación a pedir de boca. Sólo que el ojo había de quedarme quizá un poco más grande que el otro. Paciencia. Tuve ocasión de comprobar en mí mismo que el hombre, cuando sufre, se forma una idea muy particular del bien y del mal; es decir, del bien que los demás podrían hacerle, según él desea y pretende, como si el hecho de sufrir le confiriese derecho a una compensación; y del mal que él les puede hacer a sus semejantes, como si también para ello le autorizase el sufrimiento. Y en no haciéndoles los demás el bien como en cumplimiento de un deber, ya está acusándolos y disculpándose a sí mismo de cuanto mal pueda inferirles como investido de un derecho. A los pocos días de aquella prisión ciega, el ansia, la necesidad de algún consuelo subió de punto en mí hasta rayar en la exasperación. Tenía presente, sí, que me hallaba en una casa extraña, y que, por lo tanto, debía estarles agradecidísimo a mis huéspedes por las atenciones delicadísimas que para conmigo tenían. Mas esas atenciones no llegaban a satisfacerme del todo, antes me enojaban, como si me las tuviesen por despecho. ¡Claro! Porque adivinaba de quién venían. Mediante ellas, dábame a entender Adriana que con el pensamiento estaba casi el día entero en mi cuarto; pero ¿de qué me servía ese consuelo, si yo, desvariando, la seguía con la calenturienta imaginación en sus idas y venidas por toda la casa? Sólo ella podía consolarme, y debía hacerlo, ya que estaba capacitada mejor que nadie para comprender cuánto tenía que pesar sobre mi alma el tedio y hasta qué punto había de consumirme el ansia de verla o, por lo menos, de sentirla a mi lado. Y el tedio y las ansias, que me atosigaban, subían de punto con la rabia que me entrara al saber que Pantogada ya no estaba en Roma. Porque de haber yo sabido que iba a parar allí tan poco tiempo, ¡ cualquier día me decido a estarme cuarenta días metido en mi cuarto, y a oscuras! Con intención de consolarme, el señor Paleari se propuso demostrarme que la oscuridad era puramente imaginaria. —¿Imaginario esto? —clamé yo. —Tenga usted paciencia, y deje que me explique. Y empezó a exponer—me —quizá también a modo de preparación y prólogo a las sesiones espiritistas que habían de celebrarse ahora en mi cuarto, con objeto de distraerme , empezó, digo, a exponerme una teoría suya, especialísima, que acaso pudiéramos bautizar con el nombre de Farolillosofía. De cuando en cuando, el bueno del señor Paleari se interrumpía para preguntarme: —¿Se duerme usted, señor Meis? Y a mí me entraban tentaciones de responderle: —Sí señor; estoy dormido. Muchas gracias. Pero como en el fondo su intención era buena, no siendo otra que la de hacerme compañía, yo le replicaba que todo lo contrario; que le oía con mucha atención e interés y que hiciese el favor de seguir adelante. Y haciéndolo así, el bueno de don Anselmo demostrábame que, por desgracia, no somos como el árbol que vive y no siente, y al que la tierra, el sol, el aire, la lluvia y el viento, no le parece que sean cosas que él no sea: cosas amigas u hostiles. A nosotros los mortales nos tocó en suerte al nacer un triste privilegio: el de tomar como una realidad exterior a nosotros nuestro sentido interno de la vida, mudable y vario, según los tiempos y casos y según la fortuna. Y este sentido de la vida precisamente era don Anselmo como un farolillo que cada lleva consigo encendido; un farolillo, gracias al cual vemos, perdidos, cómo andamos por el mundo y discernimos el bien y el mal; un farolillo que proyecta a nuestro alrededor un círculo de luz más o menos amplio y más allá del cual empieza la sombra negra, la sombra medrosa, que no existiría de no estar encendido el farolillo; pero que nosotros, a veces, no tenemos más remedio que creer verdadera, en tanto llevamos encendido el farolillo. Pero luego que éste se apague de un soplo, ¿iremos a parar de veras en esa sombra ficticia? ¿Nos hundiremos en esa noche perpetua, después del caliginoso día de nuestra ilusión, o quedaremos más bien a la merced del Ser, que habrá ya roto las vanas formas de nuestra razón? —¿Se ha dormido usted, señor Meis? —Siga usted, don Anselmo; que estoy muy despierto y le escucho. Hasta me parece que veo el farolillo. —Bueno, bueno... Pero puesto que tiene usted el ojo malo, no nos metamos muy adentro en filosofías, ¿eh?, y procuremos más bien seguir por pasatiempo a esas luciérnagas extraviadas, que vienen a ser nuestros farolillos en la lobreguez y oscuridad del humano destino. Empezaría por decir que los hay de todos colores —¿eh? ¿Qué tal?—, según el cristal que nos proporciona la ilusión, gran traficante en cristales de colores. Pero a mí me parece, señor Meis, que en ciertas épocas de la Historia, y lo mismo en ciertos períodos de la vida del individuo, podría determinarse el predominio de un color particular, ¿no es esto? Porque, efectivamente, en todas las épocas llega a establecerse entre los hombres cierta armonía de sentimientos que provee de luz y color a esos farolones que son los términos abstractos: verdad, virtud, belleza, honor, y qué sé yo cuántas cosas más... ¿Y no le parece a usted, por ejemplo, que fuese color de rosa el farolón de la virtud pagana? ¿Y de color violeta, color deprimente, el de la cristiana virtud? La luz de una idea común alimentase del sentimiento colectivo, que, en viniendo a faltar éste, podrá, sí, seguir en pie el farolón del término abstracto, pero la llama de dentro empezará a chisporrotear y a desmayar y a lanzar suspiros, cual suele ocurrir en todos esos períodos que llamamos de transición. Ni son tampoco raras en la historia ciertas ventoleras que apagan de golpe y porrazo todos los faroles. ¡Qué gusto! En la repentina oscuridad ármase entonces un revuelo de farolillos individuales indescriptible: éste tira hacia acá; el otro, hacia allá, los hay que retroceden y los hay que empiezan a dar vueltas de un lado para otro; ninguno atina ya con el camino; chocan unos con otros; agrúpense por un momento en número de diez o de veinte; pero luego, no logrando ponerse de acuerdo, tornan a desperdigarse en gran confusión con angustiosa furia; igual que las hormigas cuando encuentran tapado el hormiguero por mano de algún niño cruel. Y para mí, querido señor Meis, que nos encontramos actualmente en uno de esos momentos históricos. ¡Gran oscuridad y gran confusión! Todos los farolones se apagaron. ¿ Adónde debemos enderezar nuestros pasos? ¿Por ventura hemos de volver atrás? ¿En busca de las lucecillas sobrevivientes que los próceres muertos dejaron encendidas en sus tumbas? Recuerdo, a este propósito, una hermosa poesía de Nicolás Tommaseo: La lamparilla mía no cual Sol resplandece ni como incendio humea; no abrasa ni devora; mas como su llama tiende al cielo, de que vino. Viva estará en mi tumba; ni la lluvia ni el viento ni el tiempo han de apagarla, y los que errantes pasen con su luz apagada, la encenderán en ella. Pero ¿y si a nuestra lámpara le faltase el aceite sagrado que alimentaba la del poeta? No son pocos todavía los que van a la iglesia para proveer a sus farolillos del aceite necesario. Son, en su mayoría, pobres viejos y pobres mujeres, a los que la vida no les cumplió sus promesas y que siguen adelante, por la oscuridad de la existencia, con ese su sentimiento encendido a modo de lamparilla votiva, a la que, con patético cuidado, resguardan del gélido soplo de los últimos desengaños, para que se conserve encendida hasta el final, hasta el fatal abismo que ha de tragárselos, con los ojos fijos en la llama y pensando sin cesar: ¡Dios me ve!, a fin de no oír los clamores de la vida que les rodea y que suenan en sus oídos como otras tantas blasfemias. ¡Dios me ve!, porque lo ven ellos, no sólo en sí mismos, sino en todo, hasta en su pobreza, hasta en sus sufrimientos, que, al fin y a la postre, han de tener su premio. La luz, débil, pero apacible, de estos farolillos nos infunde cierta envidia a muchos de nosotros; pero, en cambio, a otros que se creen armados, como Júpiter, del domeñado rayo de la ciencia, y en lugar de aquellos farolillos llevan en triunfo bombillas eléctricas, les inspira una conmiseración desdeñosa. Pero ahora pregunto yo, señor Meis, ¿y si toda esa lobreguez, este enorme misterio sobre el cual al principio especularon tanto y tan inútilmente los filósofos, y que en nuestros días, aunque desistiendo de indagar su naturaleza, no elimina la ciencia, no fuese en el fondo sino un engaño más, un engaño de nuestra mente, una fantasía que carece de color? ¿Y si nosotros acabásemos de persuadirnos de que todo este misterio no existe fuera de nosotros, sino en nuestro interior única y necesariamente, por el famoso privilegio de sentido que poseemos de la vida, esto es, del farolillo de que le estoy hablando? ¿Y si, en una palabra, la muerte, que nos mete tanto miedo, no existiese, y fuera simplemente, no la extinción de la vida, sino el soplo que nos apaga el farolillo, el lamentable sentido que de ella tenemos, triste y medroso, por causa de estar limitado y definido por ese círculo de sombra ficticia, más allá del breve ámbito de la menguada luz que nosotros, pobres luciérnagas desperdigadas, proyectamos a nuestro alrededor y en el que la vida está como presa, como excluída por algún tiempo de la vida universal, eterna, en la que nos paree que hemos de volver a entrar algún día, siendo así que ya estamos en ella y en ella hemos de quedarnos, aunque sin experimentar ya esa sensación de destierro que nos atosiga? El límite de nuestra individualidad es ilusorio, y depende de nuestra poca luz; en la realidad de la Naturaleza no existe. Hemos vivido siempre —no sé si esto le hará a usted mucha gracia—, y siempre seguiremos viviendo con el Universo; aun ahora mismo, en esta nuestra forma, participamos en todas las manifestaciones del Universo, sólo que no lo sabemos ni lo vemos, porque este maldito farolillo pesimista sólo nos deja ver lo poquísimo que alcanza a alumbrar. ¡Y si siquiera nos lo dejara ver como es realmente! ¡Pero no, señor; que nos lo colora a su modo, y nos hace ver ciertas cosas de que, con razón, tenemos que dolernos, cuando quizá en otra forma de existencia no tendríamos bocas bastantes para reírnos de ellas; para reírnos, señor Meis, a carcajada limpia, de todas las vanas y necias aflicciones que el tal farolillo ha acarreado, de todas las sombras y de todos los fantasmas ambiciosos y extraños que hizo surgir ante nosotros y de los sustos que nos hizo pasar! ... ¿Por qué el señor Paleari , con todo y renegar tanto y tan fundadamente del farolillo que cada cual lleva dentro de sí encendido, quería él ahora encender otro, de cristal de color de rosa, allí, en mi cuarto, para sus sesiones de espiritismo? ¿No había ya de sobra con aquél? Preguntéselo y me respondió: —Se trata de enmendar un farolillo con otro. Además, que el segundo, llegado cierto momento, se apaga. —¿Y le parece a usted que sea ése el mejor medio de ver algo? —atrevíme a observar. —Es que — refutóme el señor Paleari— la que llamamos luz puede servirnos para que veamos engañosamente en esta que llamamos vida; pero para ver lo que hay más allá, crea usted que, antes que servir, perjudica. De corazón menguado y más menguado intelecto dan muestra los hombres científicos, que, para su mayor comodidad, salen diciendo que con estos experimentos se infiere ultraje a la Ciencia o a la Naturaleza. ¡No hay nada de eso, no, señor! Nosotros lo que buscamos es descubrir otras leyes, otras fuerzas, otra vida en la Naturaleza, que sigue siendo tal, ¡diantre! Queremos dilatar la estrecha comprensión que de ella suelen darnos nuestros sentidos. Y dígame usted, ¿no eligen los hombres de ciencia en sus experimentos ambiente y condiciones adecuados para que salgan bien? ¿Es posible prescindir de la cámara oscura en la fotografía? ¡Pues entonces! Además, ¡hay tantos medios de comprobación! Pero el bueno del señor Paleari, según pude ver de allí a pocas noches, no empleaba ninguno. ¡Claro que eran experimentos en familia! ¿Cómo iba él a sospechar nunca que la pianista y Papiano se pusiesen de acuerdo para engañarle? Y, además, ¿por qué habían de hacerlo? ¿Qué gusto habían de sacarle? Don Anselmo estaba más que convencido, y no había menester de aquellos experimentos para confirmarse en su fe. Como era tan alma de Dios, no pasaba siquiera a suponer que pudieran engañarle con otros fines. Cuanto a la triste y pueril mezquindad de los resultados, ya la Teosofía se encargaba de darle una explicación sumamente plausible. Los seres superiores del plano mental, o de más arriba todavía, no podían bajar a comunicarse con nosotros por conducto de un medio; así que era menester contentarse con aquellas burdas manifestaciones de almas de difuntos de poco pelo, del plano astral; es decir, del más próximo al nuestro; así hablaba la Teosofía. ¿Y quién iba a desmentirla? Sabía yo que Adriana habíase siempre resistido a asistir a estos experimentos. Desde que yo estaba metido en mi cuarto, a oscuras, no había aparecido por allí sino muy rara vez, y nunca sola, a preguntarme cómo seguía. Y a mí se me antojaba que me dirigía la consabida pregunta solamente por cumplir. ¡De sobra sabía ella cómo estaba yo! Hasta quería traslucir ribetes de ironía en su voz, pues ignorando ella la razón de que yo me hubiera resuelto de pronto a que me operasen, debía de imaginarse que yo padecía ahora por culpa de mi vanidad, por querer sentar plaza de guapo, o de menos feo, con el ojo arreglado según el consejo de la pianista. —Estoy muy bien, Adriana —le respondía—. No veo gota. —Eso es ahora, pero verá usted luego cómo ve mejor —saltaba Papiano. Yo, aprovechándome de la oscuridad, alzaba el puño como para lanzárselo a la cara. Me decía aquellas cosas, sin duda alguna, para hacerme perder la poca paciencia que aún me quedaba. No era posible que no se percatase de lo molesta que me era su presencia, pues yo se lo daba a entender de todos los modos posibles: bostezando, dando bufidos, y, sin embargo, él erre que erre, seguía entrando en mi cuarto y visitándome casi todas las noches. Y allí se me estaba las horas muertas, hablando por los codos. En aquella oscuridad quitábame casi el aliento su voz, y era causa de que yo me revolviese en la silla como en un potro y engarabitase los dedos, por no lanzarme a él y estrangularle, según las intenciones que me daban. ¿Lo adivinaría él? Precisamente en tales ocasiones era cuando más melosa y remilgada ponía la voz. Necesitamos siempre tener a quien echarle la culpa de nuestros sinsabores y contratiempos. Papiano, en el fondo, ponía de su parte todo lo posible para que yo me fuera de la casa; y yo, de haber hablado en mis adentros, por aquellos días, la voz de la razón hubiera debido agradecérselo. ¿Pero cómo iba yo a escuchar la bendita voz de la razón, si ésta me hablaba precisamente por boca de Papiano, al cual yo no podía ver, teniéndole por majadero y mentecato? ¿No era claro, efectivamente, que él quería echarme de la casa para quedarse dueño del campo y desplumar a su sabor al señor Paleari y a Adriana? De todos sus razonamientos y chácharas sólo esto sacaba yo en limpio. ¿Era posible que la voz de la razón escogiese precisamente la boca de Papiano para hacerse oír de mí? Aunque quizá fuese yo mismo, que, por tener una disculpa, poníala en su boca para que me pareciese injusta, yo, que ya me sentía cogido en las redes de la vida y deliraba, sin que tuviesen nada que ver en el ajo ni la oscuridad en que me hallaba ni el enojo que me producía escuchar a Papiano. ¿De qué me hablaba éste? ¡Ah, sí! El tema único de todas sus conversaciones era Pepita Pantogada. Por más que yo hiciese vida muy modesta, a él se le había metido en la cabeza que era rico. Y con el fin de desviar mi pensamiento de Adriana, puede que anduviese él buscando el hacer que yo me enamorase de aquella nieta del marqués de Giglio, a la que pintaba como una señorita juiciosa y honesta, muy lista y despejada, llena de voluntad, resuelta en su conducta, franca y vivaracha, y, además, hermosísima; una preciosidad: morena, esbelta, finita y, al mismo tiempo, metidita en carnes; toda fuego, con un par de ojos fulminantes y una boquita que estaba pidiendo besos. Y no digamos nada de la dote —¡Una barbaridad!—: los caudales todos del marqués d’Auletta, nada menos. El marqués, sin duda, se consideraría dichosísimo con poderla casar pronto, no sólo por verse libre de Pantogada, que no lo dejaba ni a sol ni a sombra, sino también porque entre abuelo y nieta no reinaba la mejor armonía. El marqués era un hombre débil de carácter y se hallaba metido de hoz y de coz en aquel su mundo muerto, mientras que Pepita, en cambio, saltaba de puro viva. No caía el pobre en la cuenta de que, cuanto más me ponderaba a la tal Pepita, más antipatía me iba inspirando la muchacha, aun antes de conocerla. Me decía que podía conocerla cualquier tarde, pues tenía pensado engatusarla para que viniera a presenciar nuestras sesiones de espiritismo. Y también podía conocer al marques d’Auletta, que tenía, por su parte, muchas ganas de conocerme a mí, de tanto como Papiano habíale hablado de mi persona. Sólo que el marqués apenas salía de casa, y además sus ideas no le consentirían asistir a sesiones de espiritismo. —¡Cómo! —exclamé yo—. ¿De suerte que él no puede venir y, en cambio, va a dejar que venga su nieta? —¡Eso, sí! Porque sabe a dónde la manda... —respondióme con mucho empaque Papiano. No quise insistir más. ¿Por qué Adriana se resistía a asistir a esas sesiones? Por sus escrúpulos religiosos. Pero si la nieta del marqués llegaba a asistir a ellas, con la venia de su clerical abuelo, ¿no podía también imitarla Adriana? Muy orondo con este argumento, intenté yo persuadirla la víspera de la primera sesión. Había entrado ella en mi cuarto con su padre, el cual, oído que hubo mi proposición, saltó y dijo: —¡Siempre estamos en las mismas, señor Meis! —suspiró—. La religión, frente a este problema, levanta unas orejas de burro y se asusta, lo mismo que la ciencia, y, sin embargo, nuestros experimentos, como ya estoy harto de decírselo y explicárselo a mi hija, no son, ni por lo más remoto, enemigos de la una ni de la otra. Es más: sobre todo para la religión, son otra prueba a favor de las verdades que proclama. —¿Y si fuera que me diese miedo? —objetó Adriana. —Miedo, ¿de qué? —replicóle el padre—. ¿De la prueba? —¿O de la oscuridad? —añadí yo—. ¡Pero si estamos aquí todos con usted, Adriana! ¿Va a ser usted la única que falte? —Es que yo... —respondió, cohibida, la joven—, yo no creo en eso; no..., no puedo creer, por más que hago...; y, además, que no sé explicarme. No hubo forma de sacarle nada más. Pero por el tono de su voz y por la cortedad de que daba muestras, hube de comprender que no era sólo la religión quien le impedía a Adriana asistir a aquellos experimentos. El miedo, que la joven alegara como disculpa, podía tener otro origen, que el señor Paleari no se sospechaba. ¿Sería que le daba grima asistir al espectáculo lamentable de su padre, puerilmente engañado por Papiano, en connivencia con la pianista? No tuve valor para insistir más. Pero ella, cual si me hubiese leído en el corazón el disgusto que su desaire me causaba, dejó escapar, en la lobreguez de mi cuarto, un “¡Después de todo! ...”, que yo hube de pescar al vuelo. —¡Vaya! ¡Por, fin! ¿Conque asistirá usted, Adriana? —Sólo mañana, ¿eh? —concedió ella, riendo. Al día siguiente, ya anochecido, vino Papiano a preparar la habitación; metió en ella una mesita rectangular, de abeto, sin cajón y sin dar de barniz: una mesa como cualquiera otra; desocupó un rincón del aposento; colgó una sábana de una cuerda, y, finalmente, trajo una guitarra, un collar de perro con muchos cascabeles y otros chismes. Todos estos preparativos se hicieron a la luz del farolillo color de rosa. Y mientras Papiano les daba remate, no dejó ni por un momento —¡ naturalmente! — de hablar: —Esta sábana sirve, ¿sabe usted?, sirve..., no atino con la palabra...; bueno; pues de acumulador, digámoslo así, de esta fuerza misteriosa. Ya la verá usted moverse, señor Meis, hincharse como una vela e iluminarse a veces con una luz muy rara, que yo llamaría sideral. ¡Sí, señor! Hasta ahora no hemos logrado conseguir materializaciones, pero luces, sí; ya las verá usted, si Silvia se encuentra esta noche de vena. Silvia comunica con el espíritu de un antiguo condiscípulo suyo de Academia, que murió —¡Dios nos libre!— tísico, a los dieciocho años, el pobre. Era de... no sé donde, aunque me parece que de Basilea, sino que llevaba muchos años en Roma, con su familia. Un genio de la música, así, como suena, al que la muerte, cruel, hubo de llevárselo antes de que pudiera dar fruto. Por lo menos, eso dice Silvia. También comunicaba ésta, cuando todavía estaba ignorante de sus facultades medianímicas, con el espíritu de Max. Sí, señor; éste era su nombre... Max... Espere usted un momento, que lo tengo en la punta de la lengua... Eso es; Max Oliz, si no estoy equivocado. ¡Pues, sí, señor! Como le digo a usted, penetrada de ese espíritu, improvisaba en el piano, hasta rodar por tierra desvanecida muchas veces. Y una noche, hasta se juntó gente en la calle, y al terminar le dieron una ovación... —Sí; y a la señorita de Caporale le entró como miedo —añadí yo, con la mayor cachaza. —¡Ah! ¿Pero lo sabía usted? —exclamó Papiano, haciendo una pausa. —Me lo contó ella misma. ¿De suerte que aplaudieron la música de Max tocada con las manos de la señorita de Caporale? —Eso mismo. ¡Lástima que no tengamos piano en casa! Tenemos que contentarnos con algunas variaciones en la guitarra. A Max, ¿sabe usted?, le da mucha rabia; tanto, que a veces hace saltar las cuerdas del instrumento... Pero ya tendrá ocasión de oírlo esta noche. Me parece que todo está ya en regla. —Y dígame usted, amigo Papiano; es una pura curiosidad —quise preguntarle antes que se fuera—: ¿ usted cree en el espiritismo? ¿Cree usted de verdad? —Mire usted —contestóme al punto, cual si hubiese previsto mi pregunta—. Si le he de decir a usted la verdad, no acabo de verlo claro. ¡No porque los experimentos se hagan en la oscuridad, no; por eso, no, naturalmente! Los fenómenos, las manifestaciones, son reales; no hay pero que ponerles; son lo que se dice innegables. ¡No podemos desconfiar de nosotros mismos! —¡Hombre! ¿Y por qué no? —exclamé—. A mí me parece todo lo contrario. —¿Cómo? ¡No le entiendo! —¡Solemos engañarnos con tanta facilidad!... Máxime cuando nos agrada creer en una cosa... —¡Pues a mi no me pasa eso! —protestó Papiano—. Mi suegro, que está muy empollado en estos estudios, cree en ellos. A mí, entre otras cosas, me sucede que ni siquiera tengo tiempo para pensar en estas cuestiones.... lo que tampoco me apetece. ¡Me dan tanta guerra esos condenados Borbones del marqués, que me traen a mal traer, sin dejarme un instante de respiro! Suelo perder alguna que otra noche en estos experimentos. Pero lo que es yo, estoy convencido de que, mientras Dios nos tiene en este mundo, no podemos saber nada de la muerte; así que ¿no le parece a usted inútil el devanarse los sesos pensando en ella? ¡Procuremos vivir lo mejor Posible! ¡Esa es la fija! Por lo menos, eso es lo que digo yo, señor Meis. Conque hasta luego, ¿eh? Ahora voy escapado a la calle Del Pontefici, a recoger a la señorita de Pantogada. Volvió, al cabo de media hora, muy cariacontecido, acompañando a la señorita de Pantogada y a su institutriz. Venía también cierto pintor español, que Papiano presentóme, mascullando su nombre a la carrera, como amigo de casa del marqués. Llamábase el tal pintor Manuel Bernáldez, y hablaba correctamente el italiano; mas no había forma de que acertase a pronunciar mi apellido; no parecía sino que siempre que iba ya a soltarlo sentía miedo de lastimarse la lengua —Adriano Meis —decía, como si de golpe y porrazo nos hubiéramos hecho íntimos amigos. A mí me daban ganas de contestarle: —Adriano Tu!. Entraron las señoras: Pepita, la institutriz, Silvia y Adriana. —¿También tú? ¡Qué novedad! —díjole Papiano, con gesto desabrido. No se esperaba aquel golpe. Yo, a todo esto, por el modo como habían recibido a Bernáldez, comprendía que el marqués de Giglio no debía de estar enterado de su asistencia a la sesión, habiendo, de seguro, gato encerrado en aquello de venir acompañando a Pepita. Pero el gran Terencio no renunció a su plan. Disponiendo en torno a la mesita la cadena medianímica, hizo que Adriana se le sentase al lado, y colocó junto a mí a la señorita de Pantogada. —¿Que si estaba yo contento? No. Ni Pepita tampoco. Expresándose como el padre, protestó enseguida: —Gracie tanto. Así no puede ser Io voglio estar entre el segnor Paleari e la mi gobernante, caro segnor Terencio! La rosada penumbra apenas permitía distinguir los contornos; así que no pude apreciar hasta qué punto respondía la señorita de Pantogada al retrato que de ella me hiciera Papiano, aunque el conjunto de sus facciones, la voz y aquel súbito tono de rebeldía concordaban perfectamente con la idea que de ella me hiciera, con arreglo a aquella descripción. Cierto que al rechazar tan desdeñosamente el puesto que Papiano habíale adjudicado junto a mí ofendíame la nieta del marqués; pero yo, no sólo no se lo tomé a mal, sino que hasta se lo agradecí. —¡Tiene usted razón! —exclamó Papiano—. Pero podemos hacer una cosa: que doña Cándida se siente al lado del señor Meis, y usted, junto a ella, Pepita. Mi suegro puede quedarse donde está; y lo mismo nosotros tres. ¿Está bien ahora? No, tampoco estaba bien así; nos parecía muy mal, no sólo a mí, sino a Silvia y a Adriana, e incluso —según luego se vio— a la propia Pepita, la cual se encontró mucho más a su gusto en una nueva cadena, dispuesta por el genialísimo espíritu de Max. Por lo pronto, yo tuve que aguantar a mi lado a un como fantasma de mujer, con una especie de tenderete en la cabeza —¿pelo, cofia, peluca o qué diablos era aquello?—. Por debajo de aquel tinglado enorme salían de cuando en cuando unos suspirones, que remataban en breves gemidos. A nadie se le había ocurrido presentarme a la tal doña Cándida, y ahora, al tenernos que coger de la mano para formar la cadena, la dueña suspiraba. Aquello no le parecía bien. ¡Dios mío, y qué mano tan fina! Con la otra mano asía yo la izquierda de Silvia, que estaba sentada a la cabecera de la mesa, vuelta de espaldas a la sábana, que colgaba de un rincón; la diestra se la tenía cogida Papiano. A la otra banda estaba Adriana, con el pintor a su lado; el señor Paleari ocupaba la otra cabecera de la mesa, frente por frente a la pianista. Papiano dijo: —Ante todo, sería conveniente explicarle al señor Meis y a la señorita de Pantogada el lenguaje... ¿Cómo se dice? —Tiptológico —declaró el señor Paleari. —Y también a mí —clamó doña Cándida, revolviéndose en su asiento. —Tiene usted razón. ¡También se le explicará! —Bueno; pues miren ustedes —empezó a explicar don Anselmo—: dos golpecitos quieren decir sí... —¿Golpecitos? —interrumpió Pepita—. ¿Qué golpes son ésos? —Golpecitos —respondió Papiano— que sonarán encima de la mesa, o de las sillas, o de algún otro sitio, y se dejarán sentir también hasta en forma de tocamientos. —¡Ah! ¡No, no, no! —saltó entonces Pepita, poniéndose en pie—. ¡Lo que es a mí, no me toca nadie! ¿Y quién dice usted que va a dar esos golpes? —Pues el espíritu de Max, Pepita —explicóle Papiano—. Ya se lo dije al venir. Esté usted tranquila, que no le harán daño esos golpecitos. —Tiptológicos —recalcó doña Cándida, con aire de conmiseración, echándoselas de sabihonda. —De modo que —siguió diciendo don Anselmo— dos golpes quieren decir sí; tres, no; cuatro, apagad las luces; cinco, hablad; seis, luz. Con esto, basta. Y ahora, concentremos el pensamiento, señoras y señores. Hízose el silencio. capitulo 14 - las proezas de max ¿Aprensión? No. Ni por asomo. Lo que yo sentía era una viva curiosidad y hasta cierto temor de que Papiano hubiese de quedar muy malparado en aquella sesión; aunque parecía lógico que esa perspectiva me agradase, no era así. Porque ¿quién no experimenta tristeza y sonrojo al asistir a una comedia mal representada por cómicos de la legua? “Una de dos —pensaba—: o él es muy habilidoso, o su terquedad en no separarse de las faldas de Adriana no le deja ver claro a lo que se expone, dejándonos a Bernáldez y Pepita, a Adriana y a mí, chasqueados, y, por lo tanto, en situación de descubrir su trampa sin experimentar, en cambio, el menor gusto. La que lo notará más pronto será Adriana, que es la que está a su lado; y diz que ya tiene sospechas de sus fullerías, y anda escamada. No pudiendo estar a mi lado, quizá ya esté preguntándose a sí misma por qué razón asiste a esta farsa, que no sólo le resultaba desaborido, sino hasta indigna y sacrílega. Y lo mismo, sin duda, se preguntarán también Bernáldez y Pepita. ¿ Cómo no lo advierte Papiano, ya que ha visto que le falló el tiro de sentarme a mi lado a la señorita de Pantogada? ¿Tanta confianza tiene en su habilidad? Pues vamos a verlo.» En tanto me hacía estas reflexiones, no me acordaba lo más mínimo de la pianista. Y de repente, rompió ésta a hablar, como si estuviera medio dormida. —¡La cadena! —dijo—. ¡Hay que variar la cadena! —¿Está aquí ya Max? —preguntó ansiosamente el bueno de don Anselmo. La respuesta de la pianista hízose esperar un largo rato. —Sí —dijo por último, como a duras penas—; pero somos demasiados esta noche... —¡Eso sí es verdad! —saltó Papiano—. Pero yo creo que así es mejor. —¡Silencio! —ordenó Paleari —. Oigamos lo que dice Max. —La cadena —continuó la pianista— no le parece bien equilibrada. Aquí, a este lado —y me levantó a mí la mano—, hay dos señoras juntas. Convendría que don Anselmo cambiase de sitio con la señorita de Pantogada. —¡Ahora mismo! —exclamó el señor Paleari, levantándose—. Ande usted, Pepita, siéntese aquí. Pepita no rechistó lo más mínimo, y obedeció al viejo. Estaba al lado del pintor. —Además —añadió la pianista—, doña Cándida... Papiano interrumpióla: —Debe cambiar de sitio con Adriana, ¿verdad? Ya se me había ocurrido a mí. ¡Pues admirable! Yo le apreté a Adriana la mano con fuerza, hasta lastimársela, no bien se hubo sentado junto a mí. Al mismo tiempo, la pianista me apretaba a mí la otra mano, como preguntándome: «¿Está usted contento?» «¡Claro que sí! ¡Contentísimo!”, respondíle yo con otro apretón, que significaba también: «¡SYMBOL 181 \f "MS Linedraw" _hora ya pueden ustedes hacer lo que gusten!” —¡Silencio! —ordenó otra vez don Anselmo. ¿Quién había hablado? ¿Quién había de hablar? La mesa. ¡Cuatro golpes! ¡Apagad las luces! Yo, por mí, juro que no sentí los tales golpes. Sólo que, no bien apagado el farolillo, sucedió una cosa que dio al traste, de golpe y porrazo, con todas mis suposiciones. La pianista lanzó un agudo alarido, que nos hizo saltar de los asientos. —¡ Luz! ¡Luz! ¿Qué había ocurrido? Pues que la pobre pianista había recibido en la boca un puñetazo formidable; tanto, que le chorreaban sangre las encías. Pepita y doña Cándida levantáronse, despavoridas. También se levantó Papiano, volviendo a encender el farolillo. De pronto, Adriana retiró su mano de la mía. El señor Bernáldez sostenía en alto una cerilla encendida, y sonreía, entre asombrado e incrédulo, mientras el señor Paleari, en el colmo de la desolación, exclamaba: —¡Un puñetazo! Pero, ¿cómo se explica esto? La misma pregunta hacíame yo, desconcertado. ¿Un puñetazo? Luego aquel cambio de sitios no estaba convenido de antemano entre ellos. ¿Un puñetazo? Luego la pianista habíase rebelado contra la voluntad de Papiano. ¿Qué iba a pasar ahora? Pues pasaba que la pianista, dándole un empellón a la silla y llevándose un pañuelo a la boca, decía que para ella se habían acabado las sesiones de espiritismo. Y Pepita Pantogada ponía el grito en el cielo, diciendo: —Gracie, segnori! Gracie! Aquí se dano cachetes! —¡Quiá! ¡No lo crea usted! —exclamó don Anselmo—. Señoras y señores: este es un caso nuevo, sumamente extraño. Hay que pedir explicaciones. —¿A Max? —pregunté yo. —¡Claro que sí! ¡Silvia, mujer! ¿No habrá usted interpretado mal sus indicaciones al disponer la cadena? —¡Es probable! ¡Es probable! —saltó Bernáldez, echándose a reír. —Y usted, señor Meis, ¿qué piensa de esto? —preguntóme el señor Paleari, al cual no le hacía feliz el pintor. —Pues yo pienso lo mismo que usted —respondíle. Pero la pianista negó con la cabeza. —Pero, entonces, ¿cómo se explica lo ocurrido? —siguió diciendo el pobre de don Anselmo—. ¿Max, iracundo? ¿Cuándo se le vio así? ¿Qué dices tú, Terencio? Terencio, recatado en la penumbra, no decía nada; lo único que hizo fue encogerse de hombros. —Bueno —díjele yo entonces a la pianista—. ¿Quiere usted, Silvia, que le demos gusto a don Anselmo? Pidámosle una explicación a Max; que, si después de eso, vuelve a las andadas, poniendo de manifiesto que es un espíritu poco... espiritual, con mandarlo a paseo, asunto concluido. ¿No le parece a usted, Papiano? —¡Admirable! —respondió aquél—. Voto por que se le pidan explicaciones a Max. —Pues yo voto por todo lo contrario —protestó la pianista, encarándose con él. —¿Y a mí que me cuenta usted? —exclamó Papiano—. Si es partidaria de que le espantemos... —Sí, será lo mejor —aventuró, tímidamente, Adriana. Pero al punto, don Anselmo salió diciendo: —¡Miren a la muy miedosa! ¡Todo eso son puerilidades, caramba! Y usted dispense, Silvia, que también va con usted lo que digo. Usted conoce de sobra a ese espíritu, que le es familiar, y sabe que ésta es la primera vez que... ¡Vamos! Que sería una lástima espantarle; porque, después de todo —y aun reconociendo que el incidente no ha podido ser más desagradable—, esta noche prometían los fenómenos manifestarse con una energía insólita. —¡Con demasiada energía, don Anselmo! —exclamó Bernáldez, prorrumpiendo en una carcajada y contagiando de su hilaridad a la reunión. —A mí, la verdad, no me haría mucha gracia que me dieran un puñetazo en este ojo, como lo tengo. —¡Ni a mí tampoco! —añadió Pepita. —¡Siéntense todos! —ordenó entonces Papiano resueltamente—. Sigamos el consejo del señor Meis. Pidámosle una explicación a Max. Y si los fenómenos vuelven a manifestarse con demasiada energía, pues lo dejamos, y en paz. ¡Siéntense! Y apagó, de un soplo, el farolillo. Yo busqué, a tientas en la sombra, la mano de Adriana, que temblaba, aterida. A lo primero, respetando su temor, no me atreví a estrechársela; pero luego, poco a poco, se la fui apretando, como para infundirle calor, y, con él, la confianza en la feliz prosecución de la velada. No cabía, en efecto, duda alguna de que Papiano, arrepentido acaso de su violento proceder, había cambiado de, modo de pensar. Sea de ello lo que fuere, por el momento había derecho a esperar una tregua, después de la cual Max nos tomara a Adriana y a mí por el blanco de sus iras. “¡Bueno! —díjeme para mis adentros—. En cuanto la broma me resulte pesada, con ponerle remate, ¡asunto concluido! ¡No estoy dispuesto a tolerar que nadie haga sufrir a Adriana!” A todo esto, el señor Paleari estaba ya hablando con Max, exactamente igual que lo hubiera hecho con una persona de carne y hueso que se hubiera hallado presente: —¿Estás aquí? Dos golpecitos en la mesa: ¡allí estaba! —¿Y cómo se explica, Max —continuaba el señor Paleari, en tono de cariñoso reproche—, que tú, que eres tan bueno y amable, hayas tratado tan malamente a la señorita Silvia? ¿Quieres decirnos por qué ha sido eso? Aquella vez la mesita tambaleóse un poco, sonando luego en su centro tres golpes secos y rotundos. Tres golpes; luego quería decir que no; que no quería dar explicaciones. —¡No insistamos! —exclamó el señor Paleari —. Estás todavía un poco sobreexcitado, ¿eh? Lo siento, porque te conozco..., te conozco... ¿No querrías decirnos, por lo menos, si te agrada la forma en que ahora tenemos hecha la cadena? No había acabado Paleari de formular esa pregunta, cuando yo sentí que me hurgaban por dos veces en la frente, como con la yema de los dedos. —¡Sí! —exclamé de pronto, denunciando el fenómeno; y apretéle la mano a Adriana. Debo confesar, sin embargo, que aquel inopinado tocamiento prodújome una extraña impresión. Estaba seguro de que si hubiera levantado la mano me hubiera encontrado con la de Papiano; pero, a pesar de todo... La delicada ligereza del tacto, así como lo certero del mismo, resultaban, de todas formas, prodigiosos. Además, repito que no me lo esperaba. Pero, a todo esto, ¿por qué Papiano me había elegido a mí para expresar por mi conducto su satisfacción? ¿Sería que había querido tranquilizarme con aquella señal, o que, por el contrario, tenía ésta un sentido de reto, como diciéndome: Ahora verás si estoy satisfecho? —¡Bravo, Max! —exclamó el bueno de don Anselmo. Y yo pensé para mis adentros: «Ya verá el bravo la tunda que le voy a dar.» —¡Bueno! Pues ahora, si no te desplace —siguió diciendo el dueño de la casa—, ¿querrías darnos una prueba de que no estás enojado con nosotros? Cinco golpes en la mesa indicaron: —¡Hablad! —¿Qué quieren decir esos golpes? —preguntó doña Cándida, asustada. —¡Pues que hay que hablar! —explicó Papiano con la mayor frescura. Y Pepita: —¿Con quién? —¡Pues con quien usted quiera, señorita! Con su vecino, por ejemplo. —¿Fuerte? —Sí —dijo don Anselmo—. Esto quiere decir, señor Meis, que Max va a prepararnos mientras tanto alguna manifestación brillante. Quizá una luz.... ¿quién sabe? ¡Hablemos, hablemos! ... ¿Pero qué decir? Yo ya hacía rato que estaba al habla con la mano de Adriana, y no se me ocurría, ¡ ay de mí!, nada más. Traíame con aquella manecita un largo monólogo, intenso, enérgico y, al mismo tiempo, acariciante, que ella escuchaba toda trémula y rendida; habíala obligado ya a abandonarme sus dedos y entrelazarlos con los míos. Ardiente embriaguez había hecho presa en mí, que gozaba lo indecible con el espasmo que le costaba el esfuerzo que hacía para contener su caprichosa fuga, y expresarse, en vez de eso, con el lenguaje de una suave ternura, según cumplíale al candor de aquella alma tímida y delicada. Pero en tanto nuestras manos sostenían este palique tan íntimo, hube de notar algo así como si estuviesen arañando en el travesaño de la silla, entre las dos patas de atrás, de lo que recibí cierto sobresalto. Papiano no podía alcanzar hasta allí con el pie; y puesto caso que pudiera, hubiéraselo impedido el travesaño de las patas delanteras. ¿Sería que se habría levantado de la mesa y venido a colocarse detrás de mi silla? Pero, en ese caso, doña Cándida no hubiera dejado de notario, a menos de estar lela. Antes de comunicarles a los demás el fenómeno, hubiera querido explicármelo en alguna forma; pero luego pensé que, habiendo conseguido ya lo que yo anhelaba, estaba ahora casi en la Obligación de secundar la trampa, sin meterme en más averiguaciones, a fin de no irritar todavía más a Papiano. Y declaré en voz alta lo que estaba sintiendo. —¿Es de verdad? —exclamó Papiano, desde su sitio, con un asombro que me pareció sincero. La pianista mostró también maravillarse. Yo sentí que se me ponían de punta los pelos de la frente. ¿De modo que aquello iba de veras? —¿Ha sentido usted como si arañasen? —preguntó ansiosamente don Anselmo—. ¿Cómo hacían? ¿Cómo hacían? —Pues así —confirmé yo casi enfadado—. ¡Y todavía sigue! Parece exactamente como si por aquí detrás anduviese un perrillo... Una ruidosa carcajada acogió aquella explicación mía. —¡Hombre! ¡Entonces será Minerva! ¡Minerva es! —gritó Pepita Pantogada. —¿Y quién es Minerva? —pregunté yo, mortificado. —¡Pues mi perritas —exclamó la joven, sin dejar de reír—. La viechia mia, segnore, che se grata assi soto tute le sedie! Con permisso! Con permisso! Bernáldez encendió otra cerilla, y Pepita se levantó, cogiendo a la perrilla, que se llamaba Minerva, y acomodándosela en la falda. —¡Ahora me explico —dijo, contrariado, don Anselmo—, ahora me explico el enojo de Max! ¡Hemos procedido con muy poca seriedad esta noche! Por parte del señor Paleari , quizá la hubiese; pero por la nuestra, si he de ser franco, no hubo tampoco mucha seriedad en las noches sucesivas, tocante al espiritismo, se entiende. ¿Quién podía ya llevar la cuenta de las picoezas que Max hacía en la oscuridad? La mesita crujía, movíase, hablaba con golpes rotundos o leves; oíanse más golpes también en los tableros de las sillas y hasta en los muebles de la habitación, amén de roces, arañazos y demás rumores; extrañas luces fosfóricas, semejantes a fuegos fatuos, encendíanse y brillaban un instante en la sombra, dando volteretas; y hasta la sábana, iluminábase y se hinchaba como la vela de un barco; y una mesita de ésas para poner el tabaco dio no sé cuantos paseos por la habitación, llegando una vez incluso a montársele encima a la mesa en torno a la cual estábamos sentados; y la guitarra, cual si le hubiesen salido alas, saltó del testero de la pared donde estaba colgada y se nos vino encima... Pero a mí parecióme que como más gallardamente demostraba Max sus eminentes facultades musicales era con el collar de cascabeles de marras, que en determinado momento resultó tenerlo ceñido al cuello la pianista; lo que hubo de parecerle al bueno de don Anselmo una broma cariñosa e ingeniosísima de Max, bien que a la solterona no le hiciese ni pizca de gracia. Saltaba a la vista que había entrado en escena, a favor de la oscuridad, Escipión, el hermanito de Papiano, con instrucciones particularísimas. Era el muchacho epiléptico, pero no tan idiota como su hermano Terencio y él mismo querían hacernos creer. Acostumbrado ya a la oscuridad, debía de tener la virtud de ver en ella. Y en verdad que no podría decir hasta qué punto era el chico diestro en aquellas trampas, convenidas de antemano con su hermanito y la pianista; para nosotros, es decir, para mí y para Adriana, y para Pepita y Bernáldez, todo cuanto hiciere estaba bien hecho, por mal que le saliera; a quienes tenía que contentar era a don Anselmo y a doña Cándida, y a fe que lo lograba a maravilla el indino. Cierto que ni el uno ni la otra eran muy exigentes. El señor Paleari no cabía en el pellejo de puro alborozado; en ciertos momentos parecía un chiquillo en un teatro de fantoches, y algunas de sus pueriles exclamaciones hacíanme sufrir, no sólo por la vergüenza que me daba ver a un hombre, que no era ciertamente un memo, portarse como tal, hasta un grado inverosímil, sino también porque Adriana dábame a entender que sentía remordimientos de gozar así, a costa de la seriedad de su padre y aprovechándose de su ridícula bonachonería. Esto era lo único que, de cuando en cuando, nos aguaba la fiesta. Sin embargo, conociendo, como conocía yo, a Papiano, ya hubiera debido figurarme que cuando se resignaba a dejar que Adriana se sentase a mi lado, y, contrariamente a mis temores, no nos molestaba valiéndose del espíritu de Max, sino que, al revés, como que nos favorecía y amparaba, era que había echado a rodar la imaginación por otro lado para prepararnos alguna otra trastada. Pero era tal la alegría que me procuraba aquella libertad sin trabas, en la sombra, que ni siquiera se me ocurrió esa sospecha. —¡No! —gritó de pronto una vez la señorita de Pantogada. Y a renglón seguido don Anselmo: —Diga usted, señorita, ¿qué ha sido eso? ¿Qué ha sentido usted? También Bernáldez instóla para que lo dijese con mucha porfía; hasta que Pepita declaró por fin: —Aqui, su un lado, una careccia... —¿Con la mano? —preguntó don Anselmo—. Muy suave, ¿verdad? Fría, furtiva y delicada... ¡No! Es que Max, cuando quiere, sabe ser galante con las damas... Vamos a ver, Max: ¿podrías repetir la caricia que le has hecho a esta señorita? —¿Qué quiere decir? —preguntó don Anselmo. —¡Aquí está! ¡Aquí está! —exclamó de pronto Pepita, riéndose. —Rifa, rifa, me... acareccia. —¿Y un beso, Max? —propuso entonces don Anselmo. —¡No! —tornó a chillar Pepita. Pero, a pesar de ello, asestáronle un sonoro beso en un carrillo. Casi involuntariamente llevéme yo a los labios la mano de Adriana; luego, no contento todavía, inclinéme en busca de su boca, y de esa suerte fue como cambiamos ella y yo nuestro primer beso, largo y mudo. ¿Qué pasó después? Largo rato hubo de transcurrir antes que yo, transtornado por la confusión y la vergüenza, pudiera recobrar la serenidad en aquel impensado desorden. ¿Se habrían percatado de aquel beso nuestro? Oyéronse gritos. Brillaron una, dos cerillas; y después una vela, la del farolillo color de rosa. ¡ Pusiéronse todos en pie! ¿Por qué, por qué, Dios santo? Un gran golpetazo, un porrazo formidable, cual descargado por el puño de un gigante invisible, sonó encima de la mesa, así como estábamos, en plena luz. Pusímonos todos muy pálidos, especialmente Papiano y la pianista. —¡Escipión! ¡Escipión! —gritó Terencio. El epiléptico había rodado por tierra, donde jadeaba afanoso. —¡Siéntense todos! —gritó el señor Paleari —. ¿Es que ha caído en trance! ¡Miren, miren cómo se mueve y se levanta la mesa! ... ¡La levitación! ¡Bravo, Max! ¡Viva! Y era lo cierto que la mesa, sin que ninguno de nosotros la tocase, se había levantado más de un palmo del suelo, volviendo luego a caer pesadamente. La pianista, lívida, trémula, aterrorizada, vino a esconder la cara en mi pecho. La señorita de Pantogada y su institutriz escaparon del cuarto, mientras Paleari gritaba en el colmo de la indignación: —Pero, ¡por los clavos de Cristo, vengan acá! ¡No rompan la cadena, que ahora viene lo bueno! ¡Max! ¡Max! —Pero ¿qué Max ni qué ocho cuartos? —exclamó Papiano, recobrándose, por fin, del terror que hasta entonces lo tuviera paralizado, y llegándose al hermano para sacudirlo y volverlo en sí. El recuerdo del beso quedó por el momento sofocado en mí por el estupor de aquella revelación verdaderamente extraña e inexplicable que había presenciado. Si, como sostenía don Anselmo, la fuerza misteriosa que en aquella ocasión había obrado, a la luz y ante mis ojos, procedía de un espíritu invisible, era indudable que el tal espíritu no era el de Max; para convencerse de ello bastaba con mirar a Papiano y la pianista. Ese Max era invención suya. Pero, entonces, ¿quién era el autor de todo aquello? ¿Quién había descargado sobre la mesa tan formidable puñetazo? Acudiéronme en confuso tropel a la mente un sin fin de cosas leídas en los libros de Paleari; y con un calofrío de terror pensé en aquel desconocido que pereciera ahogado en el molino de La Cabaña, y que por mi culpa veíase privado del luto de sus deudos y extraños. —¿Si habrá sido él? —dije para mis adentros—. ¿Si habrá venido aquí para vengarse, descubriendo toda la tramoya?... A todo esto, el bueno de don Anselmo, que era el único que no había experimentado maravilla ni susto, no acababa todavía de explicarse cómo un fenómeno tan sencillo y corriente como el de la levitación de la mesita había podido hacernos tanta impresión, después de las demás cosas peregrinas que ya viéramos en sesiones anteriores. El no le daba importancia alguna al hecho de haberse manifestado el fenómeno a —Plena luz. Lo que sí le asombraba, no hallándole ninguna explicación, era que Escipión hubiera aparecido allí, en mi cuarto, cuando él lo daba por dormido en su lecho. —Lo extraño —nos decía—, porque generalmente este cuitado no se preocupa por nada. Y ahora, según se ve, estas nuestras misteriosas sesiones le han despertado cierta curiosidad; habrá venido a hurtadillas a ver lo que hacíamos..., y de pronto, ¡paf!, el patatús. ¡Porque es innegable, señor Meis, que los extraordinarios fenómenos de la mediumnidad derívense en gran parte de las neurosis epiléptica, cataléptica e histérica! ¡Max coge acá y allá, y hasta a nosotros mismos nos quita buena parte de energía nerviosa, valiéndose de ella para la producción de sus fenómenos! ¡Está comprobado! ¿No se siente usted, señor Meis, efectivamente, como si le hubiesen arrebatado alguna cosa? —Todavía no, a decir verdad. Hasta casi el amanecer estúveme dando vueltas en la cama, desvariando con aquel infeliz que yacía en el camposanto de Miragno, enterrado con mi nombre y apellido. ¿Quién sería? ¿De dónde habría venido? ¿Por qué se quitaría la vida? Quizá quería el pobre que su triste fin tuviese resonancia; acaso su acto fuera un desagravio, una expiación.... y yo me había aprovechado de él. Confieso que más de una vez sentí aquella nochecita un terror que me helaba los huesos. No era yo el único que había oído aquel tremendo puñetazo sobre la mesa. ¿Sería él quien lo había descargado? ¿Y no seguiría aún allí, en el silencio, presente e invisible, a mi lado? Aguzaba el oído, por si sentía algún rumorcillo en el aposento. Al cabo me dormí y asaltáronme terribles pesadillas. Al otro día, lo primero que hice fue abrirle la ventana a la luz.






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