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V: Maturazione
La strega non si sapeva dar pace: - Che hai concluso? - mi domandava. - Non t'era bastato, di', esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela? Non t'era bastato? - Eh no, cara suocera! - le rispondevo. - Perché, se mi fossi arrestato lì vi avrei fatto un piacere, reso un servizio... - Lo senti? - strillava allora alla figlia. - Si vanta, osa vantarsi per giunta della bella prodezza che è andato a commettere con quella... - e qui una filza di laide parole all'indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i fianchi, appuntando le gomita davanti: - Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo figlio, così? Ma già, a lui, che glien'importa? E' suo anche quello, è suo... Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch'esso aveva sull'animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell'angustia, nell'incertezza del domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna, ch'era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa! E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia neanche di parlare o d'aprir gli occhi. Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più né vedere né sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell'inferno di casa mia. Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né scrupolo, fece l'ultima: si mise d'accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la maggior parte scoperti e il podere insieme col molino fu messo dai creditori sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati. Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un'occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m'ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava d'assistere e di prender parte in casa mia mi toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po' a considerare, ciò che avrei potuto e saputo fare. Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, lì in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma agli occhi miei irresponsabile de' suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di poterci stare, lì a quel posto; come se fosse sempre in attesa di partire, di partire tra poco - se Dio voleva! E non dava fastidio neanche all'aria. Sorrideva ogni tanto a Romilda, pietosamente; non osava più di accostarsele; perché, una volta, pochi giorni dopo la sua entrata in casa nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata sgarbatamente allontanata da quella strega. - Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare. Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d'ajuto in quel momento, m'ero stato zitto; ma spiavo perché nessuno le mancasse di rispetto. M'accorgevo intanto che questa guardia ch'io facevo a mia madre irritava sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand'io non fossi in casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E questo pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per vedere se avesse pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi domandava: - Perché mi guardi così? - Stai bene, mamma? Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi rispondeva: - Bene; non vedi? Va' da tua moglie, va'; soffre, poverina. Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli che si prendesse lui in casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto volentieri sopportato anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei unicamente. Berto mi rispose che non poteva; non poteva perché la sua condizione di fronte alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima, dopo il nostro rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma - diceva - si sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perché anche egli conviveva con la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva diventar cattiva per le inevitabili gelosie e gli attriti che nascono tra suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a casa mia; se non altro, non si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e non sarebbe stata costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo di non potere, per tutte le considerazioni esposte più sù, prestarmi un anche menomo soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto. Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l'animo esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere anche per poco l' equilibrio che forse gli costava tanto studio, l'equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors'anche con una cert'aria di dignità alle spalle della moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre alla bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d'elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare alla moglie neppure un briciolo di cuore, che forse l'avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l'aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero Berto? Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche maniere. Prevedevo da un momento all'altro un prorompimento del suo furore, contenuto ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo. Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, mente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma. Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perché aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s'era subito allogata altrove a servire; ma l'altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che già l'aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d'andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l'affetto e la devozione che sentiva per lei. Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l'ira della vedova Pescatore. Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all'altra vecchietta, come per ripararsi. Veder mia madre in quell'atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt'uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s'arrestò di fronte a me. - Fuori! - mi gridò. - Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia! - Senti; - le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. - Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene,; per il tuo bene! vattene! Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre: - No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola! Ma quella degna madre la respinse, furibonda: - L'hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola! Ma non se ne andò s'intende. Due giorni dopo, mandata - suppongo - da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma. Questa scena merita di essere rappresentata. La vedova Pescatore stava quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se nulla fossa. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei. - Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!. Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano. La vedova Pescatore, zitta. Finito di abburattare; intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte « Ma sì! - ma certo! - ma come no? - ma sicuramente! » ; poi, come se non bastasse, andò a prendete il mattarello; e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo. Non l'avesse mai fatto!- Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre: - Eccoti! lascia tutto. Via subito! E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel'appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via. Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m'afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto sit venia verbo receva di là, tra acutissime strida, mentr'io: - Le gambe! le gambe! - gridavo alla vedova Pescatore per terra. - Non mi mostrate le gambe, per carità! Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me. Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l'ero ben meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d'ogni nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l'obbligo di venirmi in soccorso dopo quanto era avvenuto tra me e lui. Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto aspettarmelo. Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera, m'imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar via di lungo. - Pomino! Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi bassi: - Che vuoi? - Pomino! - ripetei io più forte, scotendolo per una spalla e ridendo di quella sua mutria. - Dici sul serio? Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi. Ero ancora com'ebbro di quella gajezza mala che si era impadronita di me da quando m'ero guardato allo specchio. Vedi questi sgraffii? - gli dissi, a un certo punto. - Lei me li ha fatti! - Ro... cioè, tua moglie? - Sua madre! E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente. Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui. Mi venne allora la tentazione di domandargli perché dunque, se veramente n'era cosi addogliato, non l'aveva sposata lui, Romilda, a tempo, magari prendendo il volo con la, com'io gli avevo consigliato, prima che, per la sua ridicola timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia d'innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell'orgasmo in cui mi trovavo; ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se la facesse, di quei giorni. - Con nessuno! - sospirò egli allora. - Con nessuno! Mi annojo, mi annojo mortalmente! Dall'esasperazione con cui proferì queste parole mi parve d'intendere a un tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco qua: non tanto Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a mancare; Berto non c'era più; con me non poteva più praticare, perché c'era Romilda di mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino? - Ammógliati, caro! - gli dissi. - Vedrai come si sta allegri! Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi chiusi; alzò una mano: - Mai! mai più! - Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia, sono a tua disposizione, anche per tutta la notte, se vuoi. E gli manifestai il proponimento che avevo fatto, uscendo di casa, e gli esposi anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si commosse, da vero amico, e mi profferse quel po' di denaro che aveva con sé. Lo ringraziai di cuore, e gli dissi che quell'aiuto non m'avrebbe giovato a nulla: il giorno appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m'abbisognava. Aspetta! - esclamò allora Pomino. - Sai che mio padre è ora al Municipio? - No. Ma me l'immagino. - Assessore comunale per la pubblica istruzione. - Questo non me lo sarei immaginato. - Jersera, a cena... Aspetta! Conosci Romitelli? - No. - Come no! Quello che sta laggiù, alla biblioteca Boccamazza. E' sordo, quasi cieco, rimbecillito, e non si regge più sulle gambe. Jersera, a cena, mio padre mi diceva che la biblioteca è ridotta in uno stato miserevole e che bisogna provvedere con la massima sollecitudine. Ecco il posto per te! - Bibliotecario? - esclamai. - Ma io... - Perché no? - disse Pomino. - Se l'ha fatto Romitelli... Questa ragione mi convinse. Pomino mi consigliò di farne parlare a suo padre da zia Scolastica. Sarebbe stato meglio. Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e ne parlai a lei, poiché zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro giorni dopo, diventai bibliotecario. Settanta lira al mese. Più ricco della vedova Pescatore! Potevo cantar vittoria. Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli, a cui non ci fu verso di fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò non doveva più venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stess'ora, né un minuto prima né un minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno per mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal taschino del panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con tutta la formidabile catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di tasca la papalina, la tabacchiera e un pezzolone a dadi rossi e neri; s'infrociava una grossa presa di tabacco, si puliva, poi apriva il cassetto del tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla biblioteca: Dizionario storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi, stampato a Venezia nel 1758. - Signor Romitelli! - gli gridavo, vedendogli fare tutte queste operazioni, tranquillissimamente, senza dare il minimo segno d'accorgersi di me. Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo scotevo per un braccio, ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la faccia per sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi, così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma che! leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo; leggeva forte: - Birnbaum, Giovanni Abramo... Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare... Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738... a Lipsia nel 1738... un opuscolo in- 8°: Osservazioni imparziali su un passo delicato del Musicista critico. Mitzler... Mitzler inserì... Mitzler inserì questo scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739... E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e date, come per cacciarsele a memoria. Perché leggesse cosi forte, non saprei. Ripeto, non sentiva neanche le cannonate. Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare a quell'uomo in quello stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi dopo la mia nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in 8°? E non gli fosse almeno costata tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere che non potesse farne a meno di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti (lui, così sordo!) e artisti e amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva forse che un bibliotecario, essendo la biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima viva; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro? Era tanto imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto più probabile della prima. Intanto, sul tavolone lì in mezzo, c'era uno strato di polvere alto per lo meno un dito; tanto che io - per riparare in certo qual modo alla nera ingratitudine de' miei concittadini - potei tracciarvi a grosse lettere questa iscrizione: A MONSIGNOR BOCCAMAZZA MUNIFICENTISSIMO DONATORE IN PERENNE ATTESTATO DI GRATITUDINE I CONCITTADINI QUESTA LAPIDE POSERO Precipitavano poi, a quando a quando, dagli scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto un coniglio. Furono per me come la mela di Newton. Ho trovato! - esclamai tutto contento. - Ecco l'occupazione per me, mentre Romitelli legge il suo Birnbaum. E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza, d'ufficio, all'esimio cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica istruzione, affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui mantenimento non avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i suddetti animali avrebbero avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della loro caccia. Soggiungevo che non sarebbe stato male provvedere altresì la biblioteca d'una mezza dozzina di trappole e dell'esca necessaria, per non dire cacio, parola volgare, che - da subalterno - non stimai conveniente sottoporre agli occhi d'un assessore comunale per la pubblica istruzione. Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di quegli enormi topi, e - per non morir di fame - si ficcavano loro nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare. Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui avesse soltanto l'obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della biblioteca, volli, prima d'andarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò: - Che è stato? - Due topi, signor Romitelli! - Ah, topi... - fece lui tranquillamente. Erano di casa; c'era avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura del suo libraccio. In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano « parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza ». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un'altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d'ammaccature. Ora così venne a maturazione l'anima mia, ancora acerba. In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma poteva bastarmi? La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali' provai un brivido d'orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l'obbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e - sissignori - mi misi a leggere anch'io, e anch'io con un occhio solo, perché quell'altro non voleva saperne. Lessi così di tutto un po', disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria. La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e m'impedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia densa e greve, mormorando: - Così, sempre, fino alla morte, senz'alcun mutamento, mai... L'immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per scuotermela d'addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna: - Ma perché? ma perché? E mi bagnavo i piedi. Il mare allungava forse un po' più qualche ondata, per ammonirmi: « Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! L'acqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia: va', va' piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8°: ne trarrai senza dubbio maggior profitto. » Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo! Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera m'afferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso: - Un medico! Scappa! Romilda muore! Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece, « Correte! ». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte pigliare; e mentre correvo, non so come, - Un medico! un medico! - andavo dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch'io a spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: - Un medico! un medico! E il medico intanto era la, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l'altra alla luce. - Due! Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l'una accanto all'altra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine cosi gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e anch'esse non avevano forza di vagire come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si sgraffiavano! Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: - erano mie! Una mi morì pochi giorni dopo; l'altra volle darmi il tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto l'ardore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s'era fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli d'oro ch'io m'avvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: - Figlia -; e lei di nuovo: - Papà...-; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro. Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stess'ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla più rivedere, baciare per l'ultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un minuto... debbo dirlo? - molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano, umano, umano - io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai. Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando mi destai, il dolore m'assalì rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia, che non erano più... E fui quasi per impazzire. Un'intera notte vagai per il paese e per le campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel podere della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo, vecchio mugnajo, lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto gli alberi, e mi parlò a lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de' bei tempi lontani; e mi disse che non dovevo piangere e disperarmi cosi, perché per attendere alla figlioletta mia, nel mondo di là, era accorsa la nonna, la nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle ginocchia e le avrebbe parlato di me sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai. Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi le lagrime, mi mandò cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della mamma, diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica. Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio della biblioteca. Poi servirono per me; e furono - come dirò - la cagione della mia prima morte.

 

capitulo 5 - Madurez

Aquella bruja no sabía comprimirse.—¿Qué has conseguido? —me preguntaba—. ¿No te parecía bastante haberte metido en mi casa como un
ladrón para corromperme a mi hija y hacérmela desgraciada? ¿No estabas contento? —¡No, querida
suegra! —le respondía—. Porque de haberme detenido ahí le habría hecho a usted un favor y
prestándole un servicio...—¿Lo oyes? —gritaba entonces encarándose con la hija—. Todavía se jacta, tiene el descaro de jactarse de la hazaña que hizo con esa... —y aquí una letanía de palabras gordas dedicadas a Oliva; luego, poniéndose en jarras: —Pero, ¿quieres decirme qué es lo que has conseguido? ¿No has

fastidiado también a tu hijo? Pero, ¡claro!, ¿a él qué se le da? Si el otro es también suyo...

No terminaba nunca sin —lanzar aquel tósigo, sabiendo la virtud que tenía en el ánimo de Romilda,

celosa de aquel hijo que había de nacerle a Oliva entre comodidades y alborozos, mientras que al

suyo le aguardaban apuros y congojas, la incertidumbre del mañana y una guerra odiosa. Esta envidia

subía aún de punto con las noticias que alguna buena mujer, fingiendo estar en ayunas de todo, iba a

llevarle de parte de la señora de Malagna, que estaba tan contenta por la gracia que Dios habíase

dignado concederle por fin. ¡Había que verla ahora lo guapa que se había puesto! Jamás había estado

tan hermosa y lozana.

Y ella, en tanto, se estaba allí, tirada en un sillón, aquejada de continuas náuseas; pálida,

desmadejado, alelada, sin siquiera un instante de bienestar, sin ganas de hablar, ni aun de abrir

los ojos.

¿Tenía yo también la culpa de aquello? Tal parecía. Ello es que Romilda no me quería ver ni oír. Y

lo peor fue cuando, para salvar el cortijo de La Cabaña con el molino, hubo que vender las casas, y

mi pobre madre vióse obligada a venirse a vivir con nosotros en el infierno de nuestro hogar.

Empezando porque aquella venta no nos sirvió de nada. Malagna, con la perspectiva de aquel vástago

nacedero, que lo dispensaba ya de todo miramiento y escrúpulo, hizo la última de las suyas: se puso

en connivencia con los usureros, y por debajo de cuerda quedóse con las casas por cuatro cuartos. De

suerte que las deudas que pesaban sobre La Cabaña quedaron en su mayor parte sin saldar; y los

acreedores pusieron el cortijo, juntamente con el molino, bajo el contraste de la administración

judicial. Y entre todos nos liquidaron.

¿Qué hacer en adelante? Echéme, aunque con muy pocas esperanzas, a buscar una ocupación, cualquiera

que fuere, con que proveer a las necesidades más urgentes de la casa. No servía yo para maldita la

cosa, y la fama que me había granjeado con mis proezas juveniles y mi gandulería no era ciertamente

a propósito para animar a nadie a emplearme. Además, que las escenas a que diariamente había de

asistir como testigo y como actor en mi casa quitábanme la calma y el sosiego que hubiera necesitado

para recogerme un poco en mí mismo y pensar lo que pudiera Y supiera hacer.

Producíame verdadero empacho ver a mi madre allí en contacto con la viuda de Pescatore. La pobre y

santa de mi vieja, no ignorante ya, pero irresponsable a mis ojos de su yerro, ocasionado de no

creer que fuera tan grande la maldad humana, estábase allí toda encogidica, con las manos en el seno

y la vista baja, sentadita en un rincón, como si no se sintiese muy segura en aquel sitio y siempre

estuviese esperando partir, irse enseguida, ¡si Dios lo disponía así! Y no le hacía daño la pobre ni

a una mosca. De cuando en cuando sonreíale piadosamente a Romilda; pero no se atrevía ya a

acercársela, porque una vez, a los pocos días de haberse venido a vivir con nosotros, como acudiera

a prestarle ayuda en uno de sus accesos, la bruja de mi suegra habíala apartado con muy malos modos,

diciendo:

—¡Estoy aquí yo, señora, y sé lo que debo hacer!

Yo, por prudencia, aun viendo que Romilda necesitaba verdaderamente de ayuda en aquel trance, no

despegué los labios; mas andaba siempre ojo avizor para que nadie faltara al respeto a mi madre.

A veces advertía que aquella guardia que montaba en torno de ella irritaba sordamente a la bruja de

la vieja y hasta a mi mujer, y me echaba a temblar, no fuera que no estando yo en casa la

emprendiesen con la pobrecica por desfogar el mal humor y limpiarse de bilis. Era seguro que mi

madre no había de contármelo luego, y este pensamiento me torturaba. ¡Cuántas y cuántas veces no la

miraba a los ojos por ver si había llorado! Ella me sonreía, me acariciaba con la vista y acababa

preguntándome: —¿Por qué me miras así? —¿Estás buena, mamá?

Ella hacía un gestecillo con la mano y me respondía:

—Sí, hijo mío; ¿no lo ves? Anda con Romilda, que la pobrecilla sufre mucho.

Un día escribí a Roberto, a Oneglia, proponiéndole que se hiciese cargo de nuestra madre, no por

quitarme yo de encima el peso que con tanto gusto hubiera sobrellevado, aun en medio de las

estrecheces con que luchaba, sino únicamente por el bien de la pobre vieja.

Berto respondióme que no podía porque su situación ante la familia de su mujer, y su mujer misma, no

podía ser más enojosa después de nuestra ruina, ya que él vivía de la dote de la esposa, y no iba,

por lo tanto, a imponerle a ésta también la carga de la suegra. Además, que madre —según él decía—

quizá no se hubiera encontrado a su gusto allí, pues vivía también con ellos la madre de su mujer,

que no era mala, pero que podía volverse tal por las inevitables envidias y resquemores que nacen

entre suegras. De suerte que lo mejor era que continuase conmigo; con lo cual, a falta de otra cosa,

iba ganando el no tener que extrañarse del terruño en los últimos años de su vida, ni verse obligada

a cambiar de vida y costumbres. Terminaba diciendo que él sentía muchísimo no poder, por todas las

razones anteriormente expuestas, prestarme tampoco ayuda pecuniaria, como de todas veras hubiera

sido su voluntad. Yo escondí aquella carta, no fuera a cogérmela mi madre. Quizá, de no haberme

ofuscado el juicio aquella exasperación de ánimo en que me hallaba, no me habría indignado tanto; me

habría hecho la cuenta, siguiendo la natural inclinación de mi espíritu, de que si el ruiseñor

pierde las plumas de la cola todavía puede decir: «Me queda el canto»; pero en quitándoselas a un

pavo, ¿qué le queda? Alterar, por poco que fuere, aquel equilibrio que acaso le costase tantos

afanes, aquel equilibrio que le permitía vivir honestamente y hasta con ciertos ribetes de dignidad

a costa de la esposa, hubiera sido para Berto un sacrificio enorme, una pérdida irreparable. Aparte

su buena presencia y sus buenos modales y aquella su planta de señorón, no tenía ya nada que

ofrecerle a su cara mitad; ni siquiera una pizca de corazón, que acaso le hubiera compensado de la

molestia que la pobre de mi madre hubiera podido ocasionarle. Pero ¿qué vamos a hacerle si él era

así? ¿Qué culpa tenía el pobre Berto de que Dios le hubiera dado tan poco corazón?

A todo esto subían de punto nuestros apuros, y yo sin hallar el modo de ponerles remedio. Hubo que

vender las alhajas de oro de mi madre, que eran preciados recuerdos. La viuda de Pescatore, temiendo

que dentro de poco acabaríamos por vivir mi madre y yo de la mezquina renta dotal de cuarenta y dos

liras al mes, usaba con nosotros cada día de peores y más desabridos modales. Yo preveía de un

momento a otro el estallido de su furor, que llevaba ya largo tiempo de reprimirlo, contenida la

vieja por la presencia y la actitud de mi madre. Al verme dar vueltas por la casa sin objeto, cual

mosca descabezado, aquella mala hembra lanzábame unas miradas que eran como relámpagos precursores

de temporal. Yo me echaba a la calle por cortar la corriente e impedir la descarga. Pero luego,

temiendo por mi madre, volvíame a casa.

Un día, sin embargo, no lo hice a tiempo. Había estallado por fin la tormenta, y por cierto con un

pretexto harto baladí: la visita que las dos criadas viejas de casa habíanle hecho a mi madre.

Una de ellas, que no había podido meter nada en la hucha, por tener que mantener a una hija que se

había quedado viuda con tres críos, había buscado acomodo para servir en otra casa; pero la otra,

Margarita, que era sola en el mundo, más afortunada, podía ahora en su vejez entregarse al descanso

con los ahorrillos reunidos en tantos años de servicio en nuestra casa. Pues bien: mi madre, según

parece, hubo de quejarse con aquellas dos buenas mujeres, fieles compañeras de tanto tiempo, de su

mísero y amarguísimo estado presente. Oído lo cual, Margarita, la excelente viejecita que ya se lo

recelaba y no se había atrevido a decírselo, fue y le propuso que se fuera a vivir con ella a su

casa, donde tenía dos habitaciones primorosas, con una azoteílla que daba al mar, toda ella cuajada

de flores, añadiendo que allí podrían vivir las dos muy ricamente en amor y compañía, y que ella se

consideraría muy feliz de poderle servir de algo todavía y poderle demostrar así el cariño y

devoción que le profesaba.

Mas ¿cómo era posible que mi madre aceptase el ofrecimiento de aquella pobre vieja? Tal fue, sin

embargo, la causa de que se enfureciese de aquel modo la viuda.

Al llegar a casa me la encontré hecha una verdadera furia, amasándole con los puños cerrados a

Margarita, la cual, sin intimidarse, hacíala frente con mucho denuedo, en tanto mi madre, asustada,

con lágrimas en los ojos, cogíase con ambas manos a la otra viejecilla como para escudarse.

Ver a mi madre de aquella suerte y nublárseme a mí la vista, fue todo uno. Cogí de un brazo a mi

suegra y la mandé lejos de allí de un empellón. Rehízose ella al punto, y vínose a mí, dispuesta a

abalanzárseme, pero de pronto se detuvo.

—¡Largo de aquí! —gritóme—. ¡Largo de aquí tú y tu madre! ¡Fuera todos!

—Oiga —díjele yo entonces con voz ternblona del esfuerzo que hacía para contenerme—. Oiga, la que se

va a ir de aquí ahora mismo, si no quiere que haga un disparate, es usted. ¿Se ha enterado?

—Romilda, llorando y dando voces, levantóse del sillón y fue a echarse en brazos de su madre.

—No, mamá; tú, conmigo. ¡No me dejes sola! ¡No me dejes sola!

Pero aquella digna madre apartóla de sí furiosa.

—¿No lo quisiste? ¡Pues carga ahora con ese pillo! Me voy, pero sola.

Ni que decir tiene que no se fue.

De allí a dos días, llamada, a lo que creo, por Margarita, entrósenos por casa hecha una furia, como

de costumbre, tía Escolástica, con la intención de llevarse consigo a mi madre.

La escena merece ser descrita.

Mi suegra estaba aquella mañana haciendo el pan con los brazos arremangados y la falda recogida a la

cintura por no ensuciársela. Al ver entrar a la tía volvió apenas la cara y siguió muy tranquila en

su faena, como si no hubiese entrado nadie. No reparó en ello la tía, que, dicho sea de pasada,

había entrado también sin saludar e ídose derecha a mi madre, como si no hubiese nadie más en la

casa.

—¡Pronto, pronto! ¡Vístete y vente conmigo! He oído no sé qué campanas y me ha faltado tiempo para

venir. Conque, ¡hala!, a recoger tus bártulos deprisita.

Hablaba a trompicones. Temblábale la nariz ganchuda y fiera en la cara morena y como tomada de

ictericia y se le arremangaba de cuando en cuando, mientras echábanle fuego los ojos.

Mi suegra no decía ni pío.

Luego que hubo dado remate a su tarea de macerar la harina y darle el punto, procedió a amasarla, lo

que hacía con mucho aparato y dando aposta unos golpes muy recios en la artesa, respondiendo de esta

suerte a lo que mi tía iba diciendo. Mi tía, que lo notó, cargó entonces la mano, a lo que la otra

replicó, repicando más fuerte en la artesa con la masa:

—¡Claro que sí! ¡Naturalmente! ¿Cómo no? ¡De seguro, hija!

Luego, no satisfecha con aquello, fue en busca del rodillo y se lo puso al lado, encima de la

artesa, como diciendo: “¡Cuidadito conmigo!” ¡Nunca lo hubiera hecho! Tía Escolástica púsose en pie

de un salto, quitóse furiosamente una toquilla que llevaba a los hombros y se la echó encima a mi

madre, diciéndole:

—¡Anda, mujer, anda! Déjalo todo y vente.

Y fue a plantarse delante de mi suegra. Esta, por no tenerla así tan cerca, se echó un paso atrás

con aire amenazador, como si tuviera intención de esgrimir el rodillo; pero entonces tía

Escolástica, cogiendo a puñados la masa de la artesa, tirósela a la cabeza, embadurnóle con ella la

cara y púsose a restregársela con los puños cerrados por los ojos, por la boca, por donde le cogía;

después de lo cual, tirando de mi madre por un brazo, cargó con ella y salió de estampía.

Lo que pasó después fue para mí solo. Mi suegra, bramando de rabia, se quitó la masa de la cara y

del pelo, donde se le había quedado pegada, y vino a tirármela a la cara a mí, que me estaba riendo

como atacado de alferecía; cogióme luego por la barbilla y la emprendió conmigo a arañazos, hasta

que, por último, como si se hubiera vuelto loca, arrojóse al suelo y se puso a hacerse trizas la

ropa y a dar vueltas de campana por el piso. Mi mujer, en tanto, sit venia verbo, se apartaba de

allí, poniendo el grito en el cielo.

—¡Las pantorrillas, las pantorrillas! —gritábale yo a mi suegra—. ¡No nos enseñe las pantorrillas

por el amor de Dios!

Puedo decir que desde entonces le cobré gusto a reírme de todas mis desventuras y tormentos. Vime en

aquel instante actor de la tragedia más bufa que podía imaginarse. Mi madre, yéndose de allí en

compañía de aquella loca; mi suegra, tirada en el suelo, y yo, yo que no tenía ya pan que llevarme a

la boca para el día siguiente, con la barba toda embadurnada de harina, llena de arañones la cara y

chorreando no sabía si sangre o lágrimas de tanto reír. Fui a cerciorarme ante el espejo. Eran

lágrimas, aunque estaba bien señalado. ¡Oh, y cuánta gracia me hizo aquel ojo mío en tal momento!

Por la fuerza de la desesperación habíase puesto a mirar más que nunca a otro lado por su cuenta, y

eché a correr decidido a no volver a casa hasta no haber encontrado alguna ocupación con que

mantener, aunque fuera pobremente, a mi mujer y mantenerme yo.

Del rabioso enojo que en aquel momento me inspiraba mi despreocupación de tantos años deducía yo sin

algún trabajo que mi desventura no había de merecerle a nadie, no digo lástima, pero ni

consideración siquiera. Bien empleado me estaba. Sólo una persona hubiera podido apiadarse de mí:

aquel que había hecho tabla rasa de todos nuestros bienes. ¡Pero cualquiera iba a pensar ni por un

momento que Malagna pudiera considerarse obligado a acogerme después de las cosas que entre los dos

habían pasado!

En cambio, hubo de ayudarme en aquel trance quien menos me podía yo figurar. Habiéndome estado todo

el día fuera de casa, a eso del oscurecer hube de toparme casualmente con Pomino, el cual, fingiendo

no haber reparado en mí, disponíase a pasar de largo.

—¡Pomino!

Volvióse él con cara fosca y se detuvo con la vista baja.

—¿Qué se te ocurre?

—¡Pomino! —repetí yo más fuerte zarandeándolo de un hombro y riéndome de aquella su adustez—. ¿

Hablas en serio?

—¡Oh, ingratitud humana! ¡Pues no me guardaba rencor todavía Pomino por la traición que, a juicio

suyo, le había hecho! No poco trabajo me costó convencerle de que la tal traición era él quien me la

había hecho a mí, y que no sólo debía estarme agradecido, sino postrarse en el polvo al pasar yo y

besar la tierra que hollasen mis pies.

Estaba yo todavía como borracho de aquella maligna guasa que me había entrado al mirarme al espejo.

—¿Ves estos arañazos? —le dije—. ¡Pues son obra suya!

—¿De Ro...?; es decir, ¿de tu mujer? —¡De su madre!

Y se lo conté todo de pe a pa. El se sonrió, pero no mucho. Quizá pensara que a él no le hubiera

hecho aquellos arañazos la viuda, pues se hallaba en otra posición muy distinta a la mía y era

además de otra pasta.

Tuve entonces tentaciones de preguntarle por qué, si verdaderamente estaba tan pesaroso, no se había

casado con Romilda a su tiempo, aunque hubiera sido raptándola, según yo le aconsejara, antes que

por su ridícula timidez o indecisión me hubiese ocurrido a mí la desgracia de enamorarme de ella; y

no sólo eso, sino otras cosas más hubiérale querido soltar en su cara con lo furioso que yo estaba

en aquel momento; sólo que me contuve; y en vez de eso, preguntéle, tendiéndole la mano, qué hacía

ahora.

—No hago nada —suspiró—. No hago más que aburrirme.

De la desesperación con que lo dijo creí deducir atinadamente la razón verdadera de aquella murria.

Pomino no sentía quizá tanto la pérdida de Romilda como la de nuestra compañía, pues Berto no estaba

ya en el pueblo y conmigo no podía tratarse por estar de por medio Romilda. ¿Y qué iba a hacer sin

nosotros el pobre Pomino?

—¡Cásate, hombre! —le dije—. Ya verás cómo te vuelve el buen humor.

Pero él movió la cabeza muy serio, entornando los ojos; levantó la mano y dijo:

—¡Nunca, jamás!

—Muy bien, Pomino. ¡Que siempre pienses así! Si quieres compañía, a tu disposición me tienes,

incluso por toda la noche si te place.

Y le descubrí el propósito que había formado al salir de casa, exponiéndole de paso la desesperada

situación en que me encontraba. Conmovióse Pomino a fuer de amigo verdadero y ofrecióme el poco

dinero que llevaba encima. Dile las gracias de todo corazón y le dije que con aquello no iba a salir

de apuros y que al día siguiente volvería a encontrarme lo mismo. Lo que a mí me hacía falta era una

colocación.

—¡Aguarda! —exclamó entonces Pomino—. ¿No sabes que mi padre es ahora del Ayuntamiento?

—No; pero me lo figuraba.

—Asesor municipal de Instrucción pública. —Hombre, eso sí que nunca me lo hubiera imaginado.

—Anoche, estando cenando... Oye: ¿no conoces tú a Romitelli?...

—No.

—¡Cómo que no! Ese que está en la Biblioteca Boccamazza. Un individuo sordo, medio ciego, alelado y

que apenas puede tenerse en pie. Anoche, en ocasión de estar cenando, contóme mi padre que la

Biblioteca se halla en un estado que da lástima y que convendría poner remedio a ello con la mayor

diligencia. ¡Ahí tienes el puesto que a ti te hace falta!

—¡Bibliotecario! —exclamé—. ¿Yo bibliotecario?

—¿Por qué no? —replicóme Pomino—. ¡Si lo es Romitelli! ...

Aquella razón convencióme.

Pomino me aconsejó que le dijese a tía Escolástica que me recomendase a su padre. Eso sería lo

mejor.

Al día siguiente fui a ver a mi madre y le hablé del asunto, porque tía Escolástica no quena ni

verme, y cuatro días después era yo todo un bibliotecario. Sesenta liras al mes. ¡Más rico que mi

suegra! Ya podía cantar victoria.

Los primeros meses los pasé casi divertido con aquel Romitelli de mis pecados, al que no había

manera de hacerle comprender que lo había jubilado el Municipio, y que, por lo tanto, no tenía que

poner más los pies en la Biblioteca. Todas las mañanas, a la misma hora, ni minuto antes ni minuto

después, me lo veía llegar a cuatro pies, incluyendo los dos bastones, uno por mano, que le hacían

más servicio que los pies. No bien entraba sacábase del bolsillo del chaleco un caldero viejo de

cobre que le hacía veces de reloj y colgábalo de la pared con su formidable cadena; sentábase luego

con los dos bastones entre las piernas, extraíase del bolsillo de la americana la papalina, la

tabaquera y un pañolón a cuadros encarnados y negros; tomaba una buena dosis de rapé, sonábase las

narices y, por último, abría el cajón de la mesa y sacaba de él un librote que pertenecía a la

Biblioteca y que ostentaba este título: Diccionario histórico de los músicos, artistas y aficionados

muertos y vivos, impreso en Venecia el 1758.

—¡Señor Romitelli! —le decía yo a gritos, viéndole hacer todas esas operaciones con la mayor

pachorra del mundo, sin dar a entender lo más mínimo que hubiese notado mi presencia.

¡Pero que si quieres! Aquel pobre señor no oía ni las salvas. Yo lo cogía por un brazo, y entonces

era cuando se volvía, guiñaba los ojos, contraía toda la cara para mirarme de soslayo, me enseñaba

los dientes amarillentos, quizá con la intención de dedicarme una sonrisa, y, por último, agachaba

la cabeza sobre el libro como si fuera a utilizarlo de almohada. Pero no, ese era el modo como leía

aquel tío, a dos centímetros de distancia y con un ojo solo, y leía recio:

Birnbaum, Juan Abraham... Birnbaum, Juan Abraham hizo imprimir... Birnbaum, Juan Abraham hizo

imprimir en Léipzig, en 1738...; en Léipzig, en 1738... un opúsculo en 8.0.... en 8.0; Observaciones

imparciales sobre un paso delicado del musicista crítico. Mitzier insertó... Mitzier insertó este

escrito en el tomo primero de su Biblioteca musical... en 1739...

Y así continuaba, repitiendo dos o tres veces nombres y fechas como para grabárselos bien en la

memoria. No sabría decir por qué leía tan alto, porque repito que no oía ni las salvas.

Yo me quedaba mirándolo como embobado. ¿Qué podía importarle a aquel hombre reducido ya a tal estado

y con un pie en la sepultura como quien dice —murió, en efecto, a los cuatro meses de haberme

nombrado a mí el Ayuntamiento para sustituirlo—; ¿qué podía importarle el que Juan Abraham Birnbaum

hubiese dado a la estampa en Léipzig, el 1738, un opúsculo en octavo? ¡Y si al menos no le hubiese

costado tantos apuros la lectura! Era cosa de creer que no podía el hombre pasarse sin aquellas

fechas y aquellas noticias de músicos —¡con lo sordo que era! —y artistas y aficionados muertos o en

vida hasta el 1758. A no ser que se creyese el cuitado que por estar destinadas las bibliotecas a la

lectura viniese obligado el bibliotecario a leer, visto que no asomaba por allí alma viva, y cogiese

aquel librote como pudo haber cogido otro cualquiera. Estaba tan chocho ya que hasta esa última

suposición resulta verosímil y hasta mucho más que la primera.

A todo esto, la mesa grande del centro tenía una capa de polvo de un dedo de alta por lo menos,

tanto que yo, verdaderamente, por reparar en algún modo la negra ingratitud de mis paisanos, pude

trazar en ella, con letras muy gordas, esta inscripción:

a Monseñor Boccamazza
munificentísimo donante
en perenne señal de gratitud
sus paisanos
dedicaronle esta lápida

Además de cuando en cuando rodaban de los estantes dos o tres librotes, seguidos de unas ratas

tamañas como conejos.

Para mí fue aquello como la manzana de Newton.

—¡Ya está aquí! —exclamé la mar de alborozado—. Ya tengo ocupación mientras Romitelli lee su

Birnbaum.

Y para empezar enristré la pluma y púseme a redactar una primorosísima instancia de oficio al

egregio caballero Jerónimo Pomino, asesor municipal de Instrucción pública, solicitando con la mayor

solicitud para la Biblioteca Boccamazza o de Santa María Liberal la asignación de un par de gatos

por lo menos, cuyo mantenimiento no había de ocasionarle gasto alguno al Ayuntamiento, atendido que

los supradichos animalitos tendrían de sobra para alimentarse con el producto de su caza. Añadía de

pasada que no estaría tampoco mal que el Ayuntamiento proveyera a la Biblioteca de una media

docenita de ratoneras con el cebo necesario, por no decir con el queso, palabra vulgarota y que,

como subalterno, no creí conveniente poner ante los ojos de un asesor municipal de Instrucción

pública.

Empezaron por mandarme dos mininos tan escuchimizados que no bien hubieron visto aquellas ratas tan

enormes cobráronles miedo; de suerte que para no morirse de hambre tomaron la determinación de

meterse en las ratoneras, comiéndose el queso. Yo me los encontraba todas las mañanas allí

encerrados, flacos, espiritados y tan mustios que parecía como si ni siquiera tuvieran ánimos para

maullar.

Reclamé, y entonces me mandaron dos hermosos gatazos, ágiles y serios, que, sin pérdida de tiempo

aplicáronse al cumplimiento de su deber. También las ratoneras surtían su efecto, y éstas me

entregaban las ratas vivas. Ahora bien; una tarde, rabioso al ver que Romitelli no quería darse por

enterado lo más mínimo de aquellos desvelos y victorias mías, cual si no hubiese tenido él otra

misión que la de leer y las ratas la de comerse los libros, se me ocurrió la idea de echarle antes

de irme dos ratas vivas y coleando en el cajón de su mesa. De esta suerte esperaba aguarle, por lo

menos, la acostumbrada y aburridísima lectura a la mañana siguiente.

¡Pero sí, sí! Al abrir el cajón y sentir en las narices el roce de los dos animalejos, que salieron

huyendo de estampía, volvióse a mí, que no podía tenerme en pie presa de un ataque de risa, y

preguntóme:

—¿Qué era eso?

—¡Dos ratas, señor Romitelli!

—¡Ah, ratas! —dijo él con la mayor pachorra.

Eran de casa; él ya estaba familiarizado con ellas, y como si tal cosa hubiera sucedido reanudó la

lectura del librote.

En un Tratado de los árboles, de Juan Victorio Soderini, se lee que los frutos maduran «parte por el

calor y parte por el frío, porque el calor como a todos es notorio, tiene la virtud de cocer, y es

la simple ocasión de la madurez». Ignoraba Juan Victorio Soderini que los fruteros han encontrado

otra ocasión de la madurez. Con la mira de llevar las primicias al mercado y venderlas más caras,

cuelgan la fruta, manzanas, melocotones y peras, antes de haber alcanzado esa condición que la hace

sana y sabrosa, y la maduran ellos a fuerza de apalearla.

Pues así hubo de madurar mi alma, hasta entonces verde.

En poco tiempo me volví otro de lo que antes fuera. Muerto ya Romitelli, me encontré aquí solo,

roído del tedio, en esta iglesita trasconejada y entre tanto librote; tremendamente solo y, no

obstante, sin apetecer compañía. Hubiera podido muy bien no parar en ella sino unas horitas al día;

sólo que no quería que me vieran por las calles del pueblo en el estado mísero en que me encontraba;

a mi casa le huía como a la cárcel; en suma, que en ninguna parte estaba mejor que entre mis libros.

¿Pero qué hacer aquí? Cazar ratas, es verdad; pero, ¿podía bastarme eso?

La primera vez que hubo de ocurrirme encontrarme con un libro en las manos, cogido a la ventura, sin

advertirlo, de uno de los estantes, entróme por el cuerpo un calofrío de horror. ¿Iría a sucederme

lo que a Romitelli? ¿Me iría a creer obligado, por el solo hecho de ser bibliotecario, a leer yo por

todos los que no iban a la Biblioteca? Y tiré el libro al suelo. Sólo que luego lo recogí de allí, y

¡ah! , señores, me puse a leer yo también, y también con sólo un ojo, ya que el otro no me servía

para maldita la cosa.

De esa suerte leí de todo un poco, a la buena de Dios; pero, por lo general, libros de Filosofía. ¡

Cuidado que pesan! Y sin embargo, quien se sustenta de ellos y en el cuerpo se los mete vive entre

las nubes. A mí me echaron a perder el cerebro, que ya de mío teníalo desquiciado. Cuando se me

calentaban los sesos cerraba la Biblioteca y por un repuesto caminito dirigíame a cierta parte

desierta de la playa.

La vista del mar sumíame en un atónito asombro, que poco a poco iba degenerando en intolerable

opresión. Me sentaba en la playa y hacía por no verlo, agachando la cabeza; pero no podía evitar oír

su fragor a lo largo de la orilla, mientras lenta, lentamente, dejaba escurrir por entre mis dedos

la arena densa y grave, murmurando:

—Así, siempre así; hasta la muerte; sin mudanza alguna jamás.

La inmutabilidad de la condición de aquella existencia mía sugeríame pensamientos súbitos, extraños,

cuasi relámpagos de locura. Poníame en pie de un brinco como para sacudírmelos y empezaba a dar

valsones a lo largo de la orilla; pero al ver entonces al mar enviar sin descanso a la playa sus

mustias y soñolientas olas y al contemplar tanta arena allí abandonada, gritaba con furia, crispando

los puños:

—Pero ¿por qué? ¿Por qué ha de ser esto?

Y me chapuzaba los pies. El mar alargaba por ventura un poco más sus oleadas como para avisarme.

—¿Ves, hombre, lo que se saca de preguntar ciertos porqués? Pues un pediluvio. Así, que vuélvete a

la Biblioteca. El agua salobre estropea las botas, y tú no andas sobrado de cuartos. Vuélvete a la

Biblioteca, y deja en paz a los libros de Filosofía; preferible es que te pongas a leer tú también

eso de que Juan Abraham Birnbaum mandó imprimir en Léipzig, en 1738, un opúsculo en octavo, de lo

que sin duda sacarás más provecho.

Pero cierto día vinieron a decirme que a mi mujer se le habían declarado los dolores de parto, y que

fuese corriendo a casa. Eché a correr como un gamo, aunque más que nada por huir de mí mismo, por no

estar ni un minuto conmigo a solas, dándole vueltas al pensamiento de que iba a tener un hijo. ¡Yo

un hijo, y en aquella situación!

No bien hube llegado a la puerta de mi casa, cogióme mi suegra de un brazo y me hizo dar media

vuelta, diciéndome:

—¡Un médico! ¡Vuela, hombre! ¡Que Romilda se muere!

Ante un notición a quemarropa como el que a mí me habían dado, conviene descansar y reponerse del

susto; ¿no es así? Pues en vez de eso, “¡Corre! ¡Vuela!” Yo ya no sabía dónde tenía las piernas, ni

si las tenía tampoco, y mientras corría, no sé cómo iba diciendo entre mí: “¡Un médico! ¡Un

médico!”, y la gente se detenía para dejarme paso, y se empeñaba en que me detuviese yo también para

contar lo que me pasase. Yo sentía que me tiraban de las mangas, y veía delante de mí caras pálidas

y afligidas, y los apartaba a todos, gritando: “¡Un médico! ¡Un médico!”

Y a todo esto, el médico estaba allí, en mi casa. Cuando, desolado, en un estado lamentable, después

de haber recorrido todas las farmacias, me volví a casa desesperado y furioso, ya había venido al

mundo la primera niña, y se preparaba a imitarla la segunda.

—¡Dos!

Todavía me parece estarías viendo, allí, en la cuna, las dos juntitas; se arañaban la una a la otra

con aquellas manecitas, tan tiernas y, sin embargo, cuasi pertrechadas por un instinto díscolo; más

dignas de lástima que aquellos dos gatitos que me encontraba yo todas las mañanas en las ratoneras;

y así como ellos no tenían apenas fuerzas para maullar, las dos niñas no la tenían tampoco para

lanzar su vagido, y, sin embargo, ¡ya se arañaban!

Las aparté, y al primer contacto con aquellas carnecitas tan tiernas y frías sentí un temblor nuevo,

un temblor de inefable dulzura. ¡Eran mías!

Una se me murió algunos días después; la otra, en cambio, quiso darme tiempo a que le cobrara

cariño, con todo el ardor de un padre que, no teniendo otra cosa en el mundo, hace de su hijita el

fin único y la razón exclusiva de su existencia; y tuvo la crueldad de morírseme cuando iba a

cumplir un año y se había puesto tan mona con aquellos sus bucles de oro, que yo me enroscaba a los

dedos y se los besaba sin hartarme nunca. Me llamaba “¡Papá!”, y yo le respondía en seguida: «¡

Hija!» Y ella volvía otra vez: “¡Papá! ...”, así, sin venir a qué, como se llaman entre sí los

pájaros.

Se murió al mismo tiempo que mi madre, en el mismo día y casi a la misma hora. No sabía yo cómo

repartir mis desvelos y pesares. Dejaba dormidita a la nena y corría a ver a mi madre, que no

cuidaba de sí ni de su muerte y me preguntaba ansiosamente por la nietecita, lamentándose de no

poder verla y besarla por última vez. ¡Y esta tortura duró nueve días! Pues bueno: después de nueve

días, con sus noches, de asidua vigilia, sin pegar los ojos ni un momento..., ¿debo decirlo? —muchos

quizá tendrían reparo en confesarlo, siendo así que es lo más humano que puede imaginarse—, no

sentí, no, pena por el momento, sino que me quedé sumido en una pasmada tristeza, y concluí por

dormirme. Tuve que dormir primero. Luego, al despertar, acometióme un dolor feroz, rabioso, por la

nena y por mi madre, que ya no existían... Y estuve a punto de perder el juicio. Una noche entera me

la pasé vagando por el pueblo y, el campo, con no sé qué ideas en el magín; sólo sé que a lo último

hubo de encontrarme en el cortijo de La Cabaña, junto a la presa del molino, y que un tal Felipe, un

molinero viejo, que estaba allí de guardia, me cogió y me hizo sentar un poco más allá, bajo los

árboles, y, sentándose él a mi vera, púsose a hablarme largo y tendido de mi madre, y también de mi

padre y de los buenos tiempos pasados; y me dijo que no debía llorar y desesperarme de aquella

suerte, porque para cuidar de mi hija en el otro mundo, habíase ido allá la abuelita, la abuelita

buena, que le hablaría de mí y no la dejaría sola un punto.

Tres días después, Roberto, como si hubiera querido pagarme las lágrimas, me envió cincuenta liras.

Era su intención que proveyese a darle a mamá una sepultura digna, según decía. Pero ya había

pensado en ello tía Escolástica. Aquellas cincuenta liras estuvieron algún tiempo entre las páginas

de un libro en la Biblioteca.

Luego sirvieron para sacarme a mí de apuro, y fueron —como he de referir— ocasión de mi muerte

primera.






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