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VII: Cambio treno Pensavo:
« Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini alla terra; e - sotto - fors'anche meglio. « Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione. Ne ha finanche quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi col frastuono delle macine e con lo spolvero che vola per aria e lo veste di farina. « Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco, là, nel molino. Ma appena lo riavrò io: « - Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s'è rotta la bronzina! Signor Mattia, i denti del lubecchio! « Come quando c'era la buon'anima della mamma, e Malagna amministrava. « E mentr'io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l'altalena, e io nel mezzo a godere. « Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca di mia suocera uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore, che la vedova custodisce con la canfora e col pepe come sante reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e mandassi lei a fare il mugnajo e a star sopra al fattore. « L'aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie. Forse a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva. E io rimarrò bibliotecario, solo soletto, a Santa Maria Liberale. » Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché subito m'appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là, nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie. E godevo nel rappresentarmi la scena dell'arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa. Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe, al mio entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un'occhiata, come per dire: « To', qua di nuovo? Non t'eri rotto l'osso del collo? » Zitte loro, zitto io. Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato a sputar bile, rifacendosi dall'impiego che forse avevo perduto. M'ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia del mia sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta, per ordine della questura: e, non trovandomi là entro, morto, né avendosi d'altra parte tracce o notizie di me, quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro, cinque giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche altro sfaccendato il mio posto. Dunque, che stavo a far lì, seduto? M'ero buttato di nuovo, da me, in mezzo a una strada? Ci stéssi! Due povere donne non potevano aver l'obbligo di mantenere un fannullone, un pezzaccio da galera, che scappava via così, chi sa per quali altre prodezze, ecc., ecc. Io, zitto. Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio dispettoso, cresceva, ribolliva, scoppiava: - e io, ancora lì, zitto! A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli e mi sarei messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille: là, là, là e là... Spalancamento d'occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di mia moglie. Poi: « - Dove li hai rubati? « - ...settantasette, settantotto, settantanove, ottanta, ottantuno; cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque; ottantunmila settecento venticinque lire, e quaranta centesimi in tasca. » Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli, e mi sarei alzato. « - Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie! Me ne vado, e salute a voi. » Ridevo, così pensando. I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch'essi, sotto sotto. Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo a pensare a' miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m'avrebbero servito, nascosti? Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere. Per rifarsi lì, col molino della Stìa e coi frutti del podere, dovendo pagare anche l'amministrazione, che si mangiava poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino), chi sa quant'anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora, forse, con un'offerta in contanti, me li sarei levati d'addosso a buon patto. E facevo il conto: « Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani... Chi altro c'è ? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini... Ecco tutta la mia vincita! » Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia per que' due giorni di perdita ! Sarei stato ricco di nuovo... ricco! Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo requie. Era imminente la sera: l'aria pareva di cenere; e l'uggia del viaggio era insopportabile. Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione di sapere che il castello di Valençay, messo all'incanto per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi. La tenuta attorno al castello era di duemila ottocento ettari: la più vasta di Francia. « Press'a poco, come la Stìa... » Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a mezzodì, l'ambasciata marocchina, e che al ricevimento aveva assistito il segretario di Stato, barone de Richtofen. La missione, presentata poi all'imperatrice, era stata trattenuta a colazione, e chi sa come aveva divorato! Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL. MM. i doni del Lama. « I doni del Lama? » domandai a me stesso, chiudendo gli occhi, cogitabondo. « Che saranno? » Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa virtù: mi ridestai, infatti, presto, a un urto del treno che si fermava a un'altra stazione. Guardai l'orologio: eran le otto e un quarto. Fra un'oretta, dunque, sarei arrivato. Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un suicidio così, in grassetto. Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ». « Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese? » Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata putrefazione... ». A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m'alzai in piedi, per essere più vicino al lume. « ... putrefazione. Il molino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro... » Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti. « Accorsa sopra luogo... estratto dalla gora... e piantonato... fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario... » « Io? » « Accorsa sopra luogo... più tardi... per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii. » « Io?... Scomparso... riconosciuto... Mattia Pascal... » Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più quante volte quelle poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie energie vitali insorsero violentemente per protestare: come se quella notizia, così irritante nella sua impassibile laconicità, potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era pur vera per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione, permanente, schiacciante... Guardai di nuovo i miei compagni di viaggio e, quasi anch'essi, lì, sotto gli occhi miei, riposassero in quella certezza, ebbi la tentazione di scuoterli da quei loro scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli, per gridar loro che non era vero. « Possibile? » E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja. Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno s'arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l'orgasmo. Aprivo e chiudevo le mani continuamente, affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo il giornale; lo rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo a memoria, parola per parola. « Riconosciuto! Ma è possibile che m'abbiano riconosciuto?... In istato d'avanzata putrefazione... puàh! » Mi vidi per un momento, lì nell'acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile, galleggiante... Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi: « Io, no; io, no... Chi sarà stato?... mi somigliava, certo... Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia... la mia stessa corporatura... E m'han riconosciuto!... Scomparso da parecchi giorni... Eh già! Ma io vorrei sapere, vorrei sapere chi si è affrettato così a riconoscermi. Possibile che quel disgraziato là fosse tanto simile a me? vestito come me? tal quale? Ma sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m'ha pescato subito, m'ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci! - E' lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero figliuolo mio! - E si sarà messa a piangere fors'anche; si sarà pure inginocchiata accanto al cadavere di quel poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: - Ma lèvati di qua: non ti conosco -. » Fremevo. Finalmente il treno s'arrestò a un'altra stazione. Aprii lo sportello e mi precipitai giù, con l'idea confusa di fare qualche cosa, subito: un telegramma d'urgenza per smentire quella notizia. Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno... ma sì! la mia liberazione la libertà una vita nuova! Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto darle a nessuno! Ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno! libero! libero! libero! Che cercavo di più? Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento stranissimo, là su la banchina di quella stazione. Avevo lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi vidi attorno parecchia gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi scosse e mi spinse, gridandomi più forte: - Il treno riparte! - Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore! - gli gridai io, a mia volta. - Cambio treno! Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse già stata smentita; se già si fosse riconosciuto l'errore, a Miragno; se fossero saltati fuori i parenti del vero morto a correggere la falsa identificazione. Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver notizie precise e particolareggiate. Ma come procurarmele? Mi cercai nelle tasche il giornale. Lo avevo lasciato in treno. Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio. Un dubbio più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato? Ma no: « Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28... » Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma. Non c'era dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva bastarmi. Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA. Avrei trovato in quel paese altri giornali? Mi sovvenne che era domenica. A Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto, l'unico giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene una copia. Lì avrei trovato tutte le notizie particolareggiate che m'abbisognavano. Ma come sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto? Ebbene: avrei telegrafato sotto un falso nome alla redazione del giornale. Conoscevo il direttore, Miro Colzi, Lodoletta come tutti lo chiamavano a Miragno, da quando, giovinetto, aveva pubblicato con questo titolo gentile il suo primo e ultimo volume di versi. Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella richiesta di copie del suo giornale da Alenga? Certo la notizia più « interessante » di quella settimana, e perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio che la richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto? « Ma che! » pensai poi. « A Lodoletta non può venire in mente ch'io non mi sia affogato davvero. Cercherà la ragione della richiesta in qualche altro pezzo forte del suo numero d'oggi. Da tempo combatte strenuamente contro il Municipio per la conduttura dell'acqua e per l'impianto del gas. Crederà piuttosto che sia per questa sua "campagna". » Entrai nella stazione. Per fortuna, il vetturino dell'unico legnetto, quello de la posta, stava ancora lì a chiacchierare con gl'impiegati ferroviarii: il paesello era a circa tre quarti d'ora di carrozza dalla stazione, e la via era tutta in salita. Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali; e via nel buio. Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo. Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un'agenzia giornalistica: - Come dice? Nossignore! - Non si vendono giornali ad Alenga? - Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli. - C'è un albergo? - C'è la locanda del Palmentino. Era smontato da cassetta per alleggerire un po' la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: « Se egli sapesse chi porta... ». Ma ritorsi subito a me stesso la domanda: « Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po'! Come mi chiamo? » Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente! Accozzavo sillabe, cosi, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, che m'irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne... Eh, via! uno qualunque... Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: « Sì! Carlo Martello... ». E la smania ricominciava. Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente, là, dal farmacista, ch'era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno. Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d'occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena certe pàlpebre cartilaginose. - Il Foglietto? Non lo conosco. - E' un giornaluccio di provincia, settimanale, - gli spiegai. - Vorrei averlo. Il numero d'oggi, s'intende. - Il Foglietto? Non lo dieci - badava a ripetere. - E va bene! Non importa che lei non lo conosca io le pago le spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci venti copie, domani o al più presto. Si può? Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: - Il Foglietto?... Non lo conosco -. Finalmente si risolse a fare il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia. E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto. Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m'ero affrettato a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il mio nome. Così: MATTIA PASCAL Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d'inenarrabile angoscia per la desolata famiglia; costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostra cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell'animo, per la giovialità del carattere e per quella natural modestia, che gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza si era in questi ultimi tempi ridotto in umile stato. Quando, dopo il primo giorno dell'inesplicabile assenza, la famiglia impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli, zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa la porta; subito, innanti a questa porta chiusa, sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato dalla lusinga che durò parecchi dì, man mano però raffievolendosi, ch'egli si fosse allontanato dal paese per qualche sua segreta ragione. Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella! La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell'unica figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente sconvolto l'animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesi addietro, già una prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôr fine a' suoi miseri giorni, là, nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati splendori della sua casa ed il suo tempo felice. ...Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria... Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi al grondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte, lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra, presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina (lo segnaliamo all'ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli era riuscito in quella triste notte a impedire che l'infelice riducesse ad effetto il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brina pronto ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora di quel molino. Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sul luogo, quando l'altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del diletto compagno, che era andato a raggiungere la figlioletta sua. Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarlo accompagnando all'estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi e commosse parole d'addio il nostro assessore comunale cav. Pomino. Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello Roberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e col cuore lacerato diciamo per l'ultima volta al nostro buon Mattia: - Vale, diletto amico, vale! M. C. Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia. Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l'aspettassi, non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti interrompere la lettura. La « tremenda costernazione e l'inenarrabile angoscia » della mia famiglia non mi fecero ridere, né l'amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo per l'ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa, dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch'era stato come una prova, e forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e avvilimento. Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l'idea! Me n'ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi, e un altro, invece, s'era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo - oh suprema irrisione! - a subir quello che non gli apparteneva falso compianto, e finanche l'elogio funebre dell'incipriato cavalier Pomino! Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto. Ma poi pensai che quel pover'uomo era morto non certo per causa mia, e che io, facendomi vivo non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero io non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno o l'altro ricomparire. Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla loro pena per la mia morte, a tutta quella « inenarrabile angoscia », a quel « cordoglio straziante » del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio marito. Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto? La vedova Pescatore sperava ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso per quel mio barbaro suicidio, venisse in ajuto della povera vedova? Ebbene: contente loro, contentissimo io! « Morto? affogato? Una croce, e non se ne parli più! » Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di sollievo.

 

capitulo 7 - transbordo Por el camino iba pensando: —Rescataré La Cabaña y me retiraré allá al campo a hacer de molinero. Se vive mejor en el regazo de la tierra; y quizá todavía mejor... debajo de ella. Todo oficio tiene en el fondo algo que consuela de la guerra que da. Hasta el de sepulturero. El molinero puede consolarse y distraerse con el ruido de la máquina y el polvo que vuela por los aires emborrizándole. Seguro estoy de que ahora apenas si se rompe un costal en el molino; pero también lo estoy de que en cuanto sea mío habrá que oír: —¡Señor Matías, el perno de la palanca! ¡Señor Matías, que se ha roto esto! ¡Señor Matías, que se ha roto lo otro! Como en vida de mi pobre madre, cuando nos administraba Malagna. Y mientras yo atienda al molino el aperador me robará la fruta, y si, por el contrario, dedico a ésta mi atención, el molinero me robará la harina. Y el molinero por un lado y el aperador por otro, harán su agosto a costa mía. Quizá fuera mejor que sacase de la venerable arca de mi suegra uno de los trajes viejos de Francisco Antonio Pescatore, que la viuda guarda con alcanfor y pimienta como reliquias santas, y le mandase ponérselo y la encargase del molino y de vigilar al aperador. Seguramente el aire del campo le sentará bien a mi mujer. Puede que al verla se le caiga la hoja a algún árbol y que pierdan la voz los pajarillas; pero ¡con tal que no se ciegue el arroyo! Y yo seguiré de bibliotecario, allí solito, en Santa María Liberal. Así iba yo pensando en tanto corría el tren. No podía cerrar los ojos, porque al punto aparecíaseme con terrible exactitud, el cadáver de aquel jovencito, tendido allá en el jardín de Montecarlo, tan menudito y modoso, bajo los grandes árboles inmóviles en el frescor de la mañana. Tenía que consolarme de aquello con otra pesadilla no tan sangrienta, materialmente al menos: la de mi suegra y mi mujer. Y gozaba al imaginarme la escena de mi llegada al cabo de aquellos trece días de haber desaparecido misteriosamente. Estaba seguro —¡parecíame verlas! — de que al entrar yo por las puertas de la casa habían de fingir ambas la más desdeñosa indiferencia. Apenas una mirada, como diciendo: «¿Tú por aquí otra vez? ¿Pero no te rompiste la crisma?» Luego, callarían ellas, y yo lo mismo. Pero no tardaría mucho, sin duda, mi suegra en empezar a escupir bilis, lamentándose del empleo que yo había abandonado. Habíame llevado conmigo, efectivamente, la llave de la Biblioteca, y al tener noticia de mi desaparición, habrían tenido que descerrajar la puerta de orden del juez; y no encontrándome allí dentro ni vivo ni muerto, y no teniendo tampoco la menor indicación o rastro de mi paradero, los ediles habrían esperado tres, cuatro, cinco días, hasta una semana, mi vuelta, acordando, por último, darle mi empleo a otro ser tan inútil como yo. Así que, ¿qué hacía yo allí sentado? ¿Cómo había tenido valor para echarme yo mismo en mitad del arroyo? Pues ahora, ya lo sabía, allí me podía estar. Dos pobres mujeres como ellas no tenían obligación ninguna de mantener un haragán, a un sujeto que era carne de presidio, y que se iba así, tontamente, por esos caminos de Dios, si no era que había hecho otras cosas peores... Y yo callado. Poco a poco iba creciendo, hervía y rebosaba la bilis de mi suegra, y yo sin decir esta boca es mía. Cuando me pareciera bien no tendría más que sacarme del bolsillo la cartera y ponerme a contar, encima de la mesa, mis billetes de a mil: uno, dos, tres... Mi suegra y mi mujer abrirían ojos y boca. Luego, vendría aquello de: «¿A quién has desvalijado?» ... Setenta y siete, setenta y ocho, setenta y nueve, ochenta, ochenta y uno; quinientas, seiscientas, setecientas; diez, veinte, veinticinco; ochenta y un mil setecientas veinticinco liras con cuarenta céntimos. Luego, recogería con mucha cachaza los billetes, volvería a guardármelos en la cartera y me levantaría. «¿De modo que no queréis nada conmigo, verdad? Bueno, pues muchas gracias. Adiós y que sigáis bien.» Y al imaginar—me la escena no podía contener la risa. Mis compañeros de viaje me observaban, sonriéndose también con disimulo. Entonces, para adoptar un talante más serio, poníame a pensar en mis acreedores, entre los cuales tendría que repartir muchos de aquellos billetes de Banco, porque esconderlos no podía. Y además, ¿ de qué me habrían aprovechado escondidos? Aquella canalla no me los hubiera dejado gozar en paz. Para enjugar tanta trampa, con el molino de La Cabaña y la fruta del cortijo, habiendo de pagarle también al administrador, que se lo come todo a dos carrillos, quién sabe cuántos años tendrían que aguardar todavía los acreedores; mientras que quizá mediante una oferta al contado podría quitármelos de encima con mucho menos costo. Y echaba las cuentas: «Tanto a ese moscardón del Recchioni; tanto a Felipe Brisigo —y ojalá que le sirva para costearse el entierro, que así no les chuparía más la sangre a los pobres—; tanto a Chichín Lunaro, el turinés; tanto a la viuda de Lippani... ¿Qué más queda todavía? ¡Digo, pues una pequeñez! El pico de Della Piana y el de Bossi, y el de Margottini... ¡Nada, que se me van en eso todas mis ganancias! ¿A qué iba a resultar que había ganado en Montecarlo para que ellos hiciesen su avío? ¡Qué rabia que aquellos dos últimos días me hubiera entrado la negra! De haber seguido ganando, me hubiera hecho rico de nuevo... ¡rico!” Lanzaba ahora yo unos suspiros tan ruidosos que les chocaban a mis compañeros de viaje todavía más que mis risotadas de antes. Entretanto, yo no hallaba punto de descanso. Oscurecía ya; el aire parecía ceniza, y el traqueteo del tren resultaba insufrible. En la primera estación italiana compré un periódico, con la esperanza de que me sirviera para conciliar el sueño. Lo abrí, y a la luz de la bombilla eléctrica púseme a leerlo, gracias a lo cual tuve el consuelo de saber que el castillo de Valençay, que por segunda vez había salido a subasta, habíale sido adjudicado al conde De Castellane por la cantidad de dos millones trescientos mil francos. Las tierras que circundaban el castillo tenían dos mil ochocientas hectáreas; no había en Francia entera otra posesión tan dilatada. —Una cosa así como La Cabaña. Tuve también ocasión de enterarme de que el Emperador de Alemania había recibido aquel mediodía, en Postdam, a la Embajada marroquí, y que a la recepción habíase hallado presente el secretario de Estado, barón de Richtofen. La Embajada había pasado luego a saludar a la Emperatriz y después cenado a la mesa imperial, donde sabe Dios lo que habrían tragado los moritos. También los Zares de Rusia habían recibido en Peterhof a una comisión especial tibetana, la cual habíales presentado a las augustas personas los regalos que les enviaba el Gran Lama por su conducto. «¿Los regalos del Gran Lama? —preguntéme a mí mismo, cerrando los ojos en actitud meditabunda—. ¿Qué regalos serán ésos?» Adormideras, porque en seguida me quedé traspuesto. Sólo que adormideras de escasa virtud, ya que no tardé en despertarme al parar el tren en otra estación. Miré el reloj: eran las ocho y cuarto. Una horita más y estaría en el pueblo. Tenía todavía en la mano el periódico y lo había doblado para buscar en la segunda plana algún regalo mejor que los del Gran Lama, cuando hubieron de tropezar mis ojos con unas titulares que decían: suicidio A lo primero figuréme que sería el de Montecarlo y apresuréme a leer. Mas al punto me detuve, asombradísimo, al encontrarme en la primera línea con estas palabras, impresas en un tipo muy menudo: «Nos telegrafían de Miragno.» «¡Miragno! ¿Quién diablos se habrá suicidado en mi pueblo?» Y leí: «Ayer, sábado, 28, encontróse en la presa de un molino un cadáver en estado de putrefacción ya adelantada...” De pronto nublóseme la vista, pareciéndome cual si en el renglón siguiente hubiese leído el nombre de mi cortijo, y como me empezaba en leer con un ojo aquella letra tan menuda, me puse en pie para acercarme más a la luz. “... putrefacción. El molino de referencia está sito en un cortijo llamado La Cabaña, a unos dos kilómetros del pueblo. Personada en el lugar del suceso la autoridad judicial, amén de un gentío inmenso, procedióse a sacar de la presa el cadáver, como así se hizo con las formalidades de rigor. Más tarde identificóse el cadáver, que resultó ser el de nuestro...” Dióme un vuelco el corazón y echéles, como alelado, una mirada a mis compañeros de viaje, que dormían a pierna suelta. «Personada en el lugar del suceso..., a sacar de la presa..., identificóse, el cadáver.... resultó ser el de nuestro bibliotecario...” —¿Yo? «Personada en el lugar del suceso.... más tarde.... el de nuestro bibliotecario Matías Pascal, que había desaparecido unos días antes. Causa del suicidio, contrariedades económicas.» —¿Yo?... Desaparecido... Identificado... Matías Pascal... No sé las veces que leería y reelería aquellos pocos renglones, fruncido el ceño y alborotado el corazón. En el primer instante subleváronseme, como protestando contra aquello, todas mis energías vitales, cual si aquella noticia, tan irritante en su impasible laconismo, pudiese tener validez incluso para mí. Ahora que, si para mí no, para los demás tenía fuerza de verdad—, y la certeza que todo el mundo tenía desde el día antes de que yo había pasado a mejor vida, parecíame una odiosa mixtificación, continua, agobiadora, intolerable. Torné a mirar a mis compañeros de viaje, y, como si también ellos, allí, en mis barbas, descansasen en aquella certidumbre, diéronme tentaciones de sacarlos de sus incómodas y molestas actitudes y despabilarlos diciéndoles que aquello no era cierto. Pero ¿sería posible? Y volví a leer una vez más la desconcertante noticia. No podía estarme ya quieto. Hubiera dado algo por que el tren se detuviese o se despeñase por un precipicio; aquel su andar monótono, de autómata, duro, sordo y pesado, aumentaba todavía más la nerviosidad en que me encontraba. No hacía más que abrir y cerrar las manos a cada momento, hincándome las uñas en las palmas; desdoblaba el periódico y poníalo en alto para leer de nuevo aquella noticia, que ya me sabía de memoria, al pie de la letra. —¿Identificado? Pero ¿es posible que me hayan identificado?... «En estado de putrefacción ya adelantada...” ¡Qué asco! Vime por un momento allí, en las aguas verdinosas de la presa, flotando en ellas, sucio, tumefacto, horrible... Con instintivo movimiento de horror, crucé los brazos sobre el pecho y palpéme y apretujéme con las manos. —Yo no, yo no; pero ¿quién habrá sido? Seguramente alguien que se me parecía... Uno que quizá también se dejase la barba como yo..., que tendría mi misma estatura... ¡Y me han identificado! ... Desaparecido hacía unos días... ¡Ah, ya! ¡Hombre, daría cualquier cosa por saber quién ha sido el que me ha identificado! ¿Es posible que aquel desgraciado se pareciese tanto a mí, que fuese vestido como yo, que tuviese tanta semejanza conmigo como para dar el cambiazo? Pero sí, es posible; porque habrá sido ella, mi suegra. ¡Oh! ¡Qué prisa se habrá dado a identificarme! Le habrá parecido mentira seguramente. “¡Es él! ¡Es él! ¡Mi yerno! ¡Ay! ¡Pobre Matíasi ¡Ay! ¡Pobre hijo mío!” Y puede que también haya soltado el trapo a llorar, y hasta que se haya hincado de rodillas junto al cadáver de aquel pobrecillo, que, por desgracia, no habrá podido darle un puntapié y decirle: “¡Anda y vete de aquí, que no te conozco!” Estaba yo que trinaba. Hasta que, por fin, paróse el tren en otra estación. Abrí la portezuela del coche y lancéme al andén, con la vaga idea de hacer algo, en seguida: un telegrama urgente desmintiendo aquel infundio. El salto que di del vagón al andén fue mi salvación; como si me hubiese ahuyentado del caletre aquella necia idea, vislumbré en un santiamén... ¡eso!: ¡mi redención, mi libertad, una vida nueva! Llevaba encima ochenta y dos mil liras, que podría guardarme para mí solito. Estaba muerto: no era ya de este mundo; no tenía ya trampas, ni mujer, ni suegra; ¡no tenía a nadie! ¡Libre! ¡Libre! ¡ Libre! ¿Qué más quería? Extraña figura debía yo hacer, mientras revolvía tales pensamientos, sentado en un banco del andén. Había dejado abierta la portezuela del coche. Vi a mi alrededor mucha gente que me gritaba no sé qué; hasta que, por fin, uno fue y me empujó, gritándome más fuerte: —¡Que se va el tren! —¡Pues déjelo que se vaya señor mío! —gritéle a mi vez. ¡Yo hago transbordo! Asaltóme después una duda: la de si no habrían ya desmetido aquella noticia y reconocido en Miragno el error; si no se habrían presentado los parientes del muerto verdadero a rectificar la falsa identificación. Antes de entregarme a aquella alegría debía cerciorarme bien, procurarme noticias precisas y con pormenores. Pero, ¿cómo agenciármelas? Metí la mano en el bolsillo en busca del periódico. Me lo había dejado en el tren. Volvíme a mirar la desierta vía del tren, que se alargaba, brillante, un trecho, en el silencio de la noche, y me sentí como perdido en el vacío, en aquella mísera estación de tercer orden. Luego hubo de asaltarme otra duda, todavía peor. ¿No habría yo soñado todo aquello? Pero no. «Nos telegrafían de Miragno, ayer, sábado, 28 ...” Ya lo estaba viendo: podía repetir al pie de la letra el telegrama. ¡No cabía la menor duda! Aunque aquellas pocas líneas no podían bastarme. Miré el nombre de la estación: «Alenga». ¿No podría encontrar por allí otros periódicos? Recordé que era domingo, y, por lo tanto, que aquella mañana habría salido Il Foglietto, el único periódico de la localidad. Era menester buscar a toda costa un número del periódico, el cual traería todos los pormenores del suceso, que yo necesitaba. Pero, ¿cómo esperar que en Alenga hubiese números de Il Foglietto? Bueno, pues le telegrafiaría con un nombre postizo a la Redacción del periódico. Conocía mucho a su director, Miro Colzl, Alondrilla, como todos lo llaman en Miragno desde que siendo un pollito, publicó con tan bello título su primero y último libro de versos. ¡Y poco hueco que se pondría Alondrilla al ver que le pedían desde Alenga nada menos que números de su periódico! Seguramente la noticia más interesante de la semana, y, por lo tanto, lo más saliente del número, debía de ser mi suicidio. Pero, ¿no me expondría con aquella demanda insólita al riesgo de que Alondrilla concibiese alguna sospecha? —¡Quiá! —pensé después—. Alondrilla estará convencidísimo de que me he ahogado de veras. Y creerá que por lo que le piden esos números es por alguna otra cosa que traiga el periódico. Hace ya tiempo que la tiene tomada con el Municipio, a fin de que traiga las aguas al pueblo y ponga alumbrado de gas. Seguramente creerá que esa campaña suya es la causa de tal expectación. Salí del andén. Por fortuna, el auriga del único coche, el del correo, estaba todavía allí charlando con los empleados del tren; el pueblo distaba unas tres horas de la estación, y el camino era todo una pura cuesta. Monté en aquel decrépito carricoche derrengado y sin faroles, y ¡arrea, cochero, por esas oscuridades! Con tantas cosas como tenía en que pensar, de cuando en cuando veníaseme de nuevo a la memoria, en aquella negra y desconocida soledad, la violenta impresión sufrida al leer aquella noticia que tan de cerca me tocaba, y entonces sentíame por un momento perdido en el vacío, como poco antes a la vista de la desierta vía del tren, pavorosamente desligado de la vida, sobreviviente de mí mismo, como loco, con la esperanza de vivir más allá de la muerte, sin vislumbrar todavía en qué forma. Por distraerme, preguntéle al cochero si no habría en Alenga alguna agencia periodística. —¿Cómo dice usted? No, señor. —Pero, ¿en Alenga no hay periódicos? —¡Ah! ¡Eso, sí, señor! Quien los vende es el boticario, Grottanelli. —Y habrá posada, ¿no? —Sí, señor; la de Palmentino. Se había apeado del pescante por aligerar un poco al pobre jamelgo, que apenas podía con su estampa. Yo no le veía bien, hasta que por fin hubo de encender la pipa y entonces se me hizo clara su imagen, y pensé para mis adentros: “¡Si supiera a quién lleva en su coche! ...” Y a renglón seguido híceme la pregunta: «Pero, ¿a quién lleva, si ni siquiera lo sé yo mismo? ¿Quién soy yo ahora? ¡Vamos a ver! ¿Quién soy? Por lo pronto, me hace falta ponerme un nombre, un nombre cualquiera; pero en seguidita, a fin de poder firmar el telegrama y no tener que andar pensando, si me lo preguntan en la fonda. Por ahora bastará con eso. ¡Vamos a ver! ¿Cómo es mi gracia? Jamás hubiera sospechado que pudiera costarme tantos sudores y apuros la elección de nombre y apellido. A no ser que se me hubiera secado el cerebro por efecto de la emoción sufrida y las preocupaciones consiguientes. ¡Sobre todo el apellido! Unía sílabas al tuntún, y salían algunos apellidos, como Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, que me ponían los nervios de punta. No les encontraba la menor propiedad, ni pizca de sentido. Como si, después de todo, hubiesen de tener alguno los apellidos. “¡Ea! —me dije—. ¡Escogeré uno cualquiera! ... Martoni, por ejemplo... ¿Por qué no? Carlos Martoni... Eso es. ¡Ya está!” Pero luego, a renglón seguido, me encogía de hombros: «Sí, Carlos Martello ...” Y vuelta otra vez con la misma... Llegué al pueblo sin haberme decidido por ningún nombre. Gracias que allí, en la botica, cuyo titular éralo al mismo tiempo de la estafeta postal y telegráfica, amén de ejercer la corresponsalía de los periódicos que llegaban a la localidad, no tuve necesidad de declarar mi gracia. Compré los pocos periódicos que el hombre tenía a la venta, periódicos genoveses: Il Caffaro e Il Secolo XIX; luego preguntéle si tenía también Il Foglietto, de Miragno. Tenía el tal Grottanelli cara de lechuza, con un par de ojos redondos y como de cristal, que venían a cubrir de cuando en cuando, como con pena, unos párpados cartilaginosos, y una nariz acaballada que le llegaba hasta la barba. No tenía cuello, y cojeaba de un pie. —¿Il Foglietto? En mi vida lo he oído nombrar. —Es un periodiquillo de provincia, que sólo se publica una vez a la semana —le expliqué—. Quisiera un número, el de hoy, ¡claro! —Pues en mi vida lo he oído —repitióme. —Bueno. Pues mire usted: yo quisiera ponerlo un telegrama a la Redacción pidiendo diez, veinte números, para que me los enviasen en seguida, a fin de recibirlos mañana mismo, o antes, de poder ser. ¿Se podrá? El hombre no me respondía. Con los ojos fijos, puestos en blanco, seguía repitiendo: «¿Il Foglietto?... En mi vida lo he oído nombrar.» Hasta que, por último, decidióse a redactar el telegrama bajo mi dictado, indicando como señas adonde enviar los números su farmacia. Y al otro día, después de una noche en claro, asaltado de un tempestuoso maremágnum de pensamientos, entregáronme en la posada del Palmentino quince números de Il Foglietto. En los dos periódicos de Génova, que apenas me quedé solo dime prisa en repasar, no encontré la menor indicación referente al dichoso suicidio. Al abrir Il Foglietto temblábanme las manos. En primera plana, nada. Recorrí con la vista las dos planas centrales y de pronto metióseme por los ojos una cabecera de luto que encabezaba la tercera plana, y debajo de la cual campeaba mi nombre en letras muy gordas. El suelto decía así: «Matias Pascal »No se tenían noticias de él desde hacía algunos días; días de tremenda consternación y de inenarrable angustia para la familia desolada; consternación y angustia compartidas por la flor de nuestro vecindario, que lo quería y apreciaba por la bondad de su alma, la jovialidad de su carácter y aquella su innata modestia, que le había permitido, aparte otras dotes, soportar sin vilipendio y con resignación los adversos azares que, desde la despreocupada holgura, habíanlo reducido en los últimos tiempos a un estado humilde. »Cuando, al segundo día de su ausencia inexplicable, trasladóse la familia impresionada a la Biblioteca Boccamazza, donde el finado, celosísimo de su deber, pasábase casi todo el día enriqueciendo con doctas lecturas su despejada inteligencia, encontró cerrada la puerta. Súbitamente, ante aquella puerta cerrada, surgió, negra Y trepidante, la sospecha; sospecha pronto alimentada por la esperanza, que duró varios días, pero que poco a poco fue debilitándose, de si se habría extrañado del pueblo por alguna secreta razón. »Pero, ¡ay!, ¡que la verdad era muy otra! »La pérdida reciente de su adorada madre, y al mismo tiempo de su única hijita, consecutivas a la pérdida de sus bienes, había trastornado profundamente el espíritu de nuestro pobre amigo. Tanto, que hará unos tres meses ya intentó poner fin a su mísera existencia, precisamente en la presa del mismo molino que le recordaba los pasados esplendores de su casa y sus tiempos felices. «... Ningún dolor más grande que del tiempo felice recordarse en la miseria... »Con lágrimas en los ojos y sollozando nos lo refería, ante el desfigurado cadáver que chorreaba agua, un anciano molinero, fiel y devoto a la familia de sus antiguos amos. Habíase cerrado, lúgubre, la noche; habían puesto en el suelo, junto al cadáver, que vigilaban dos guardias civiles, un farolillo encarnado, y el anciano Felipe Brina —se lo recomendamos a la admiración de las almas buenas— hablaba y lloraba con nosotros. La triste noche de marras había logrado disuadirle de su fatal propósito; pero esta segunda vez no estuvo allí —Felipe Brina para impedir la consumación del lúgubre designio. Y Matías Pascal permaneció toda una noche y la mitad del siguiente día en la presa del referido molino. »No tenemos ni remotamente la pretensión de describir la desgarradora escena que se desarrolló en el lugar del suceso cuando anteayer, al caer la tarde, la desconsolada viuda encontróse delante de los irreconocibles restos mortales de su amado esposo, que había ido a unirse con su hijita. »El pueblo entero la ha acompañado en su justo dolor, y así ha querido demostrárselo siguiendo hasta la morada postrera al cadáver, al cual dirigió breves y conmovidas palabras de adiós nuestro asesor municipal, caballero Pomino. »Nosotros hacemos presente a la desventurada familia, sumida en tan horrible duelo, y a su hermano Roberto, ausente de Miragno, la expresión de nuestro pésame más sentido, y con el corazón desgarrado le decimos por vez postrera a nuestro pobre amigo Matías: »¡Adiós, amigo querido! ¡Adiós! »M. C.» Aun sin esas dos iniciales hubiera adivinado que era Alondrilla el autor de la necrología. Pero debo confesar, ante todo, que la vista de mi nombre, estampado allí, debajo de aquella cabecera negra, con todo y esperarlo, no sólo no me hizo gracia alguna, sino que fue la causa de que se me acelerasen los latidos del corazón en tal forma, que al cabo de unos cuantos renglones vime obligado a suspender la lectura. La tremenda consternación e inenarrable angustia de mi familia no me movieron a risa, así como tampoco el afecto y la estimación en que tenían mis virtudes mis paisanos. El recuerdo de aquella tristísima noche del cortijo, a raíz de morir mi madre y mi nena, que el articulista aducía como una prueba, y acaso la más poderosa de mi suicidio, sorprendióme a lo primero como una imprevista y siniestra participación en el lance, ocasionándome luego remordimientos y sonrojo. ¡No! No me había matado por la muerte de mi madre y de mi nena, con todo y haberío pensado aquella noche. Sino que había huido de mi casa, es verdad que desesperado; pero he aquí que ahora volvía de una timba, donde la Fortuna habíame sonreído del modo más peregrino, y continuaba sonriéndome todavía; y, en cambio, otro se había suicidado por mí, seguramente un forastero, al cual yo le robaba el llanto de los parientes lejanos y de los amigos, condenándolo —¡oh, suprema irrisión!— a sufrir lo que no le correspondía: un llanto postizo y hasta el elogio fúnebre del remilgado caballero Pomino. Esa fue mi primera impresión al leer aquella mi necrología en Il Foglietto. Pero luego hube de recapacitar en que aquel pobre hombre había muerto, no ciertamente por mi culpa, y que yo, con declararme vivo, no había ya de resucitarlo a él, además, caí en la cuenta de que aprovechándome de su muerte no sólo no timaba a sus parientes, sino que hasta les hacía un bien, ya que para ellos el muerto no era el muerto, sino yo, y así podían creerlo desaparecido y abrigar la esperanza de vérselo entrar algún día por sus puertas. Quedaban mi mujer y mi suegra. ¿Debía yo dar crédito a toda aquella pena por mi muerte, a su inenarrable angustia, a su tremenda consternación, de que se hacía eco el fúnebre suelto de Alondrilla? ¡Pero si bastaba con haberle abierto un ojo a aquel pobre difunto para convencerse de que no era yo! Y aun suponiendo que los dos se los hubiere dejado en el fondo de la presa, ¡por los clavos de Cristo!, que no hay mujer en el mundo que confunda tan fácilmente a su marido con un extraño. ¿Se habrían apresurado a identificarme con aquel muerto? ¿Esperaría mi suegra que ahora Malagna, conmovido y no del todo limpio de remordimientos por mi bárbaro suicidio, acudiese en ayuda de la pobre sobrina viuda? Bueno; ¡pues por mí no había de quedar! ¿Muerto? ¿Ahogado? Está bien; ¡ una cruz y no se hable más! Me levanté, estiré los brazos y lancé un larguísimo suspiro de satisfacción.





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