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XVI: Il ritratto di Minerva
Già prima che mi fosse aperta la porta, indovinai che qualcosa di grave doveva essere accaduto in casa: sentivo gridare Papiano e il Paleari. Mi venne incontro, tutta sconvolta, la Caporale: - E dunque vero? Dodici mila lire? M'arrestai, ansante, smarrito. Scipione Papiano, l'epilettico, attraversò in quel momento la saletta d'ingresso, scalzo, con le scarpe in mano, pallidissimo, senza giacca; mentre il fratello strillava di là: - E ora denunzii! denunzii! Subito una fiera stizza m'assalì contro Adriana che, non ostante il divieto, non ostante il giuramento, aveva parlato. - Chi l'ha detto? - gridai alla Caporale. - Non è vero niente: ho ritrovato il denaro! La Caporale mi guardò stupita: - Il denaro? Ritrovato? Davvero? Ah, Dio sia lodato! - esclamò, levando le braccia; e corse, seguìta da me, ad annunziare esultante nel salotto da pranzo, dove Papiano e il Paleari gridavano e Adriana piangeva: - Ritrovato! ritrovato! Ecco il signor Meis! Ha ritrovato il denaro! - Come! - Ritrovato? - Possibile? Restarono trasecolati tutti e tre; ma Adriana e il padre, col volto in fiamme; Papiano, all'incontro, terreo, scontraffatto. Lo fissai per un istante. Dovevo essere più pallido di lui, e vibravo tutto. Egli abbassò gli occhi, come atterrito, e si lasciò cader dalle mani la giacca del fratello. Gli andai innanzi, quasi a petto, e gli tesi la mano. - Mi scusi tanto; lei, e tutti... mi scusino, - dissi. - No! - gridò Adriana, indignata; ma subito si premé il fazzoletto su la bocca. Papiano la guardò, e non ardì di porgermi la mano. Allora io ripetei: - Mi scusi... - e protesi ancor più la mano, per sentire la sua, come tremava. Pareva la mano d'un morto, e anche gli occhi, torbidi e quasi spenti, parevano d'un morto. - Sono proprio dolente, - soggiunsi, - dello scompiglio, del grave dispiacere che, senza volerlo, ho cagionato. - Ma no... cioè, sì... veramente, - balbettò il Paleari, - ecco, era una cosa che... sì, non poteva essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, sono proprio felicissimo che lei abbia ritrovato codesto denaro, perché... Papiano sbuffò, si passò ambo le mani su la fronte sudata e sul capo e, voltandoci le spalle, si pose a guardare verso il terrazzino. - Ho fatto come quel tale... - ripresi, forzandomi a sorridere. - Cercavo l'asino e c'ero sopra. Avevo le dodici mila lire qua, nel portafogli, con me. Ma Adriana, a questo punto, non poté più reggere: - Ma se lei, - disse, - ha guardato, me presente, da per tutto, anche nel portafogli; se lì, nello stipetto... - Sì, signorina, - la interruppi, con fredda e severa fermezza. - Ma ho cercato male, evidentemente, dal punto che le ho ritrovate... Chiedo anzi scusa a lei in special modo, che per la mia storditaggine, ha dovuto soffrire più degli altri. Ma spero che... - No! no! no! - gridò Adriana, rompendo in singhiozzi e uscendo precipitosamente dalla stanza, seguita dalla Caporale. - Non capisco... - fece il Paleari, stordito. Papiano si voltò, irosamente: - Io me ne vado lo stesso, oggi... Pare che, ormai, non ci sia più bisogno di... di... S'interruppe, come se si sentisse mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non gli bastò l'animo di guardarmi in faccia: - Io... io non ho potuto, creda, neanche dire di no... quando mi hanno... qua, preso in mezzo... Mi son precipitato su mio fratello che... nella sua incoscienza... malato com'è... irresponsabile, cioè, credo... chi sa! si poteva immaginare, che... L'ho trascinato qua... Una scena selvaggia! Mi son veduto costretto a spogliarlo... a frugargli addosso... da per tutto... negli abiti, fin nelle scarpe... E lui... ah! Il pianto, a questo punto, gli fece impeto alla gola; gli occhi gli si gonfiarono di lagrime; e, come strozzato dall'angoscia, aggiunse: - Così hanno veduto che... Ma già, se lei... Dopo questo, io me ne vado! - Ma no! Nient'affatto! - diss'io allora, - Per causa mia? Lei deve rimanere qua! Me n'andrò io piuttosto! - Che dice mai, signor Meis? - esclamò dolente, il Paleari. Anche Papiano, impedito dal pianto che pur voleva soffocare, negò con la mano; poi disse: - Dovevo... dovevo andarmene; anzi, tutto questo è accaduto perché io... così, innocentemente... annunziai che volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa... Il marchese, anzi, mi ha dato... - l'ho qua - una lettera per il direttore di una casa di salute a Napoli, dove devo recarmi anche per altri documenti che gli bisognano... E mia cognata allora, che ha per lei... meritatamente, tanto... tanto riguardo... è saltata sù a dire che nessuno doveva muoversi di casa... che tutti dovevamo rimanere qua... perché lei... non so... aveva scoperto... A me, questo! al proprio cognato!... l'ha detto proprio a me... forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio suocero... - Ma che vai pensando, adesso! - esclamò, interrompendolo, il Paleari. - No! - raffermò fieramente Papiano. - Io ci penso! ci penso bene, non dubitate! E se me ne vado... Povero, povero, povero Scipione! Non riuscendo più a frenarsi, scoppiò in dirotto pianto. - Ebbene, - fece il Paleari, intontito e commosso. - E che c'entra più adesso? - Povero fratello mio! - seguitò Papiano, con tale schianto di sincerità, che anch'io mi sentii quasi agitare le viscere della misericordia. Intesi in quello schianto il rimorso, ch'egli doveva provare in quel momento per il fratello, di cui si era servito, a cui avrebbe addossato la colpa del furto, se io lo avessi denunziato, e a cui poc'anzi aveva fatto patir l'affronto di quella perquisizione. Nessuno meglio di lui sapeva ch'io non potevo, aver ritrovato il danaro ch'egli mi aveva rubato. Quella mia inattesa dichiarazione, che lo salvava proprio nel punto in cui, vedendosi perduto, egli accusava il fratello o almeno lasciava intendere - secondo il disegno che doveva aver prima stabilito - che soltanto questi poteva essere l'autore del furto, lo aveva addirittura schiacciato. Ora piangeva per un bisogno irrefrenabile di dare uno sfogo all'animo così tremendamente percosso, e fors'anche perché sentiva che non poteva stare, se non così, piangente, di fronte a me. Con quel pianto egli mi si prostrava, mi s'inginocchiava quasi ai piedi, ma a patto ch'io mantenessi la mia affermazione, d'aver cioè ritrovato il denaro: che se io mi fossi approfittato di vederlo ora avvilito per tirarmi indietro, mi si sarebbe levato contro, furibondo. Egli - era già inteso - non sapeva e non doveva saper nulla di quel furto, e io, con quella mia affermazione, non salvavo che suo fratello, il quale, in fin de' conti, ov'io l'avessi denunziato, non avrebbe avuto forse a patir nulla, data la sua infermità; dal canto suo, ecco, egli s'impegnava, come già aveva lasciato intravedere, a restituir la dote al Paleari. Tutto questo mi parve di comprendere da quel suo pianto. Esortato dal signor Anselmo e anche da me, alla fine egli si quietò; disse che sarebbe ritornato presto da Napoli, appena chiuso il fratello nella casa di salute, liquidate le sue competenze in un certo negozio che ultimamente aveva avviato colà in società con un suo amico, e fatte le ricerche dei documenti che bisognavano al marchese. - Anzi, a proposito, - conchiuse, rivolgendosi a me. - Chi ci pensava più? Il signor marchese mi aveva detto che, se non le dispiace, oggi... insieme con mio suocero e con Adriana... - Ah, bravo, sì! - esclamò il signor Anselmo, senza lasciarlo finire. - Andremo tutti... benissimo! Mi pare che ci sia ragione di stare allegri, ora, perbacco! Che ne dice, signor Adriano? - Per me... - feci io, aprendo le braccia. - E allora, verso le quattro... Va bene? - propose Papiano, asciugandosi definitivamente gli occhi. Mi ritirai in camera. Il mio pensiero corse subito ad Adriana, che se n'era scappata singhiozzando, dopo quella mia smentita. E se ora fosse venuta a domandarmi una spiegazione? Certo non poteva credere neanche lei, ch'io avessi davvero ritrovato il denaro. Che doveva ella dunque supporre? Ch'io, negando a quel modo il furto, avevo voluto punirla del mancato giuramento. Ma perché? Evidentemente perché dall'avvocato, a cui le avevo detto di voler ricorrere per consiglio prima di denunziare il furto, avevo saputo che anche lei e tutti di casa sarebbero stati chiamati responsabili di esso. Ebbene, e non mi aveva ella detto che volentieri avrebbe affrontato lo scandalo? Sì: ma io - era chiaro - io non avevo voluto: avevo preferito di sacrificar così dodici mila lire... E dunque, doveva ella credere che fosse generosità da parte mia, sacrifizio per amor di lei? Ecco a quale altra menzogna mi costringeva la mia condizione: stomachevole menzogna, che mi faceva bello di una squisita, delicatissima prova d'amore, attribuendomi una generosità tanto più grande, quanto meno da lei richiesta e desiderata. Ma no! Ma no! Ma no! Che andavo fantasticando? A ben altre conclusioni dovevo arrivare, seguendo la logica di quella mia menzogna necessaria e inevitabile. Che generosità! che sacrifizio! che prova d'amore! Avrei potuto forse lusingare più oltre quella povera fanciulla? Dovevo soffocarla, soffocarla, la mia passione; non rivolgere più ad Adriana né uno sguardo né una parola d'amore. E allora? Come avrebbe potuto ella mettere d'accordo quella mia apparente generosità col contegno che d'ora innanzi dovevo impormi di fronte a lei. Io ero dunque tratto per forza a profittar di quel furto ch'ella aveva svelato contro la mia volontà e che io avevo smentito, per troncare ogni relazione con lei. Ma che logica era questa? delle due l'una: o io avevo patito il furto, e allora per qual ragione, conoscendo il ladro, non lo denunziavo, e ritraevo invece da lei il mio amore, come se anch'ella ne fosse colpevole? o io avevo realmente ritrovato il denaro, e allora perché non seguitavo ad amarla? Sentii soffocarmi dalla nausea, dall'ira, dall'odio per me stesso. Avessi almeno potuto dirle che non era generosità la mia; che io non potevo, in alcun modo, denunziare il furto... Ma dovevo pur dargliene una ragione... Eran forse denari rubati, i miei? Ella avrebbe potuto supporre anche questo... O dovevo dirle ch'ero un perseguitato, un fuggiasco compromesso, che doveva viver nell'ombra e non poteva legare alla sua sorte quella d'una donna? Altre menzogne alla povera fanciulla... Ma, d'altra parte, la verità ch'ora appariva a me stesso incredibile, una favola assurda, un sogno insensato, Ia verità potevo io dirgliela? Per non mentire anche adesso, dovevo confessarle d'aver mentito sempre? Ecco a che m'avrebbe condotto la rivelazione del mio stato. E a che pro? Non sarebbe stata né una scusa per me, né un rimedio per lei. Tuttavia, sdegnato, esasperato com'ero in quel momento, avrei forse confessato tutto ad Adriana, se lei, invece di mandare la Caporale, fosse entrata di persona in camera mia a spiegarmi perché era venuta meno al giurarnento. La ragione m'era già nota: Papiano stesso me l'aveva detta. La Caporale soggiunse che Adriana era inconsolabile. - E perché? - domandai, con forzata indifferenza. - Perché non crede, - mi rispose, - che lei abbia davvero ritrovato il danaro. Mi nacque lì per lì l'idea (che s'accordava, del resto, con le condizioni dell'animo mio, con la nausea che provavo di me stesso) l'idea di far perdere ad Adriana ogni stima di me, perché non mi amasse più dimostrandomele falso, duro, volubile, interessato... Mi sarei punito così del male che le avevo fatto. Sul momento, sì, le avrei cagionato altro male, ma a fin di bene, per guarirla. - Non crede? Come no? - dissi, con un tristo riso, alla Caporale. - Dodici mila lire, signorina... e che son rena? crede ella che sarei così tranquillo, se davvero me le avessero rubate? - Ma Adriana mi ha detto... - si provò ad aggiungere quella. - Sciocchezze! sciocchezze! - troncai io. - E vero, guardi... sospettai per un momento... Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il furto... E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho ritrovato il denaro, se non l'avessi davvero ritrovato? La signorina Caporale si strinse ne le spalle. - Forse Adriana crede che lei possa avere qualche ragione per... - Ma no! ma no! - m'affrettai a interromperla. - Si tratta, ripeto, di dodici mila lire, signorina. Fossero state trenta, quaranta lire, eh via!... Non ho di queste idee generose, creda pure... Che diamine! ci vorrebbe un eroe... Quando la signorina Caporale andò via, per riferire ad Adriana le mie parole, mi torsi le mani, me le addentai. Dovevo regolarmi proprio così? Approfittarmi di quel furto, come se con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla delle speranze deluse? Ah, era vile questo mio modo d'agire! Avrebbe certo gridato di rabbia, ella, di là, e mi avrebbe disprezzato... senza comprendere che il suo dolore era anche il mio. Ebbene, cosi doveva essere! Ella doveva odiarmi, disprezzarmi, com'io mi odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire di più contro me stesso, per far crescere il suo disprezzo, mi sarei mostrato ora tenerissimo verso Papiano, verso il suo nemico, come per compensarlo a gli occhi di lei del sospetto concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così anche il mio ladro, sì, fino a far credere a tutti ch'io fossi pazzo... E ancora più, ancora più: non dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio? ebbene, mi sarei messo, quel giorno stesso, a far la corte alla signorina Pantogada. - Mi disprezzerai ancor più, cosi, Adriana! gemetti, rovesciandomi sul letto. - Che altro, che altro posso fare per te? Poco dopo le quattro, venne a picchiare all'uscio della mia camera il signor Anselmo. - Eccomi, - gli dissi, e mi recai addosso il pastrano. - Son pronto. - Viene cosi? - mi domandò il Paleari, guardandomi meravigliato. - Perché? - feci io. Ma mi accorsi subito che avevo ancora in capo il berrettino da viaggio, che solevo portare per casa. Me lo cacciai in tasca e tolsi dall'attaccapanni il cappello, mentre il signor Anselmo rideva, rideva come se lui... - Dove va, signor Anselmo? - Ma guardi un po' come stavo per andare anch'io - rispose tra le risa, additandomi le pantofole ai piedi. - Vada, vada di là; c'è Adriana... - Viene anche lei? - domandai. - Non voleva venire, - disse, avviandosi per la sua camera, il Paleari. - Ma l'ho persuasa. Vada: è nel salotto da pranzo, già pronta... Con che sguardo duro, di rampogna, m'accolse in quella stanza la signorina Caporale! Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s'era sentita tante volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava contro di me, perché le pareva ingiusto ch'io facessi soffrire una così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un'ombra di scusa potevano averla. Ma perché far soffrire cosi Adriana? Questo mi disse il suo sguardo, e m'invitò a guardar colei ch'io facevo soffrire. Com'era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell'angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con me... Non ostante l'animo con cui mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d'Auletta mi destarono una certa curiosità. Sapevo che egli stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale: restituita Roma al Pontefice, l'unità d'Italia si sarebbe sfasciata, e allora... chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero. Quel giorno, però, nel vasto salone splendidamente arredato non trovammo nessuno. Cioè, no. C'era, nel mezzo, un cavalletto, che reggeva una tela a metà abbozzata, la quale voleva essere il ritratto di Minerva, della cagnetta di Pepita, tutta nera, sdrajata su una poltrona tutta bianca, la testa allungata su le due zampine davanti. - Opera del pittore Bernaldez, - ci annunziò gravemente Papiano, come se facesse una presentazione, che da parte nostra richiedesse un profondissimo inchino. Entrarono dapprima Pepita Pantogada e la governante, signora Candida. Avevo veduto l'una e l'altra nella semioscurità della mia camera: ora, alla luce, la signorina Pantogada mi parve un'altra; non in tutto veramente, ma nel naso... Possibile che avesse quel naso in casa mia? Me l'ero figurata con un nasetto all'insù, ardito, e invece aquilino lo aveva, e robusto. Ma era pur bella così: bruna, sfavillante negli occhi, coi capelli lucidi, nerissimi e ondulati; le labbra fine taglienti, accese. L'abito scuro, punteggiato di bianco, le stava dipinto sul corpo svelto e formoso. La mite bellezza bionda d'Adriana, accanto a lei, impallidiva. E finalmente potei spiegarmi che cosa avesse in capo la signora Candida! Una magnifica parrucca fulva, riccioluta, e - su la parrucca - un ampio fazzoletto di seta cilestrina, anzi uno scialle, annodato artisticamente sotto il mento. Quanto vivace la cornice, tanto squallida la faccina magra e floscia, tuttoché imbiaccata, lisciata, imbellettata. Minerva, intanto, la vecchia cagnetta, co' suoi sforzati rochi abbajamenti, non lasciava fare i convenevoli. La povera bestiola però non abbajava a noi; abbajava al cavalletto, abbajava alla poltrona bianca, che dovevano esser per lei arnesi di tortura: protesta e sfogo d'anima esasperata. Quel maledetto ordegno dalle tre lunghe zampe avrebbe voluto farlo fuggire dal salone; ma poiché esso rimaneva lì, immobile e minaccioso, si ritraeva lei, abbajando, e poi gli saltava contro, digrignando i denti, e tornava a ritrarsi, furibonda. Piccola, tozza, grassa su le quattro zampine troppo esili, Minerva era veramente sgraziata; gli occhi già appannati dalla vecchiaja e i peli della testa incanutiti; sul dorso poi, presso l'attaccatura della coda, era tutta spelata per l'abitudine di grattarsi furiosamente sotto gli scaffali, alle traverse delle seggiole, dovunque e comunque le venisse fatto. Ne sapevo qualche cosa. Pepita tutt'a un tratto la afferrò pel collo e la gettò in braccio alla signora Candida, gridandole: - Cito! Entrò, in quella, di furia don Ignazio Giglio d'Auletta. Curvo, quasi spezzato in due, corse alla sua poltrona presso la finestra, e - appena seduto - ponendosi il bastone tra le gambe, trasse un profondo respiro e sorrise alla sua stanchezza mortale. Il volto estenuato, solcato tutto di rughe verticali, raso, era d'un pallore cadaverico, ma gli occhi, all'incontro, eran vivacissimi, ardenti, quasi giovanili. Gli s'allungavano in guisa strana su le gote, su le tempie, certe grosse ciocche di capelli, che parevan lingue di cenere bagnata. Ci accolse con molta cordialità, parlando con spiccato accento napoletano; pregò quindi il suo segretario di seguitare a mostrarmi i ricordi di cui era pieno il salone e che attestavano la sua fedeltà alla dinastia dei Borboni. Quando fummo innanzi a un quadretto coperto da un mantino verde, su cui era ricamata in oro questa leggenda: « Non nascondo; riparo; alzami e leggi » egli pregò Papiano di staccar dalla parete il quadretto e di recarglielo. C'era sotto, riparata dal vetro e incorniciata, una lettera di Pietro Ulloa che, nel settembre del 1860, cioè agli ultimi aneliti del regno, invitava il marchese Giglio d'Auletta a far parte del Ministero che non si poté poi costituire: accanto c'era la minuta della lettera d'accettazione del marchese: fiera lettera che bollava tutti coloro che s'erano rifiutati di assumere la responsabilità del potere in quel momento di supremo pericolo e d'angoscioso scompiglio, di fronte al nemico, al filibustiere Garibaldi già quasi alle porte di Napoli. Leggendo ad alta voce questo documento, il vecchio s'accese e si commosse tanto, che, sebbene ciò ch'ei leggeva fosse affatto contrario al mio sentimento, pure mi destò ammirazione. Era stato anch'egli, dal canto suo, un eroe. N'ebbi un'altra prova, quando egli stesso mi volle narrar la storia di un certo giglio di legno dorato, ch'era pur lì, nel salone. La mattina del 5 settembre 1860 il Re usciva dalla Reggia di Napoli in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini di corte: arrivato il legnetto in via di Chiaja dovette fermarsi per un intoppo di carri e di vetture innanzi a una farmacia che aveva su l'insegna i gigli d'oro. Una scala, appoggiata all'insegna, impediva il transito. Alcuni operaj, saliti su quella scala, staccavano dall'insegna i gigli. Il Re se n'accorse e additò con la mano alla Regina quell'atto di vile prudenza del farmacista, che pure in altri tempi aveva sollecitato l'onore di fregiar la sua bottega di quel simbolo regale. Egli, il marchese d'Auletta, si trovava in quel momento a passare di là: indignato, furente, s'era precipitato entro la farmacia, aveva afferrato per il bavero della giacca quel vile, gli aveva mostrato il Re fuori, gli aveva poi sputato in faccia e, brandendo uno di quei gigli staccati, s'era messo a gridare tra la ressa: « Viva il Re! ». Questo giglio di legno gli ricordava ora, lì nel salotto, quella triste mattina di settembre, e una delle ultime passeggiate del suo Sovrano per le vie di Napoli; ed egli se ne gloriava quasi quanto della chiave d'oro di gentiluomo di camera e dell'insegna di cavaliere di San Gennaro e di tant'altre onorificenze che facevano bella mostra di sé nel salone, sotto i due grandi ritratti a olio di Ferdinando e di Francesco II. Poco dopo, per attuare il mio tristo disegno, io lasciai il marchese col Paleari e Papiano, e m'accostai a Pepita. M'accorsi subito ch'ella era molto nervosa e impaziente. Volle per prima cosa saper l'ora da me. - Quattro e meccio? Bene! bene! Che fossero però le quattro e meccio non aveva certamente dovuto farle piacere: lo argomentai da quel « Bene! bene! » a denti stretti e dal volubile e quasi aggressivo discorso in cui subito dopo si lanciò contro l'Italia e più contro Roma così gonfia di sé per il suo passato. Mi disse, tra l'altro, che anche loro, in Ispagna, avevano tambien un Colosseo come il nostro, della stessa antichità; ma non se ne curavano né punto né poco: - Piedra muerta! Valeva senza fine di più, per loro, una Plaza de toros. Sì, e per lei segnatamente, più di tutti i capolavori dell'arte antica, quel ritratto di Minerva del pittore Manuel Bernaldez che tardava a venire. L'impazienza di Pepita non proveniva da altro, ed era già al colmo. Fremeva, parlando; si passava rapidissimamente, di tratto in tratto, un dito sul naso; si mordeva il labbro; apriva e chiudeva le mani, e gli occhi le andavano sempre lì, all'uscio. Finalmente il Bernaldez fu annunziato dal cameriere, e si presentò accaldato, sudato, come se avesse corso. Subito Pepita gli voltò le spalle e si sforzò d'assumere un contegno freddo e indifferente; ma quando egli, dopo aver salutato il marchese, si avvicinò a noi, o meglio a lei e, parlandole nella sua lingua, chiese scusa del ritardo, ella non seppe contenersi più e gli rispose con vertiginosa rapidità: - Prima de tuto lei parli italiano, porqué aquì siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori che no comprendono lo espagnolo, e no me par bona crianza che lei parli con migo espagnolo. Poi le digo che me ne importa niente del su' retardo e che podeva pasarse de la escusa. Quegli, mortificatissimo, sorrise nervosamente e s'inchinò; poi le chiese se poteva riprendere il ritratto, essendoci ancora un po' di luce. - Ma comodo! - gli rispose lei con la stessa aria e lo stesso tono. - Lei puede pintar senza de mi o tambien borrar lo pintado, come glie par. Manuel Bernaldez tornò a inchinarsi e si rivolse alla signora Candida che teneva ancora in braccio la cagnetta. Ricominciò allora per Minerva il supplizio. Ma a un supplizio ben più crudele fu sottoposto il suo carnefice: Pepita, per punirlo del ritardo, prese a sfoggiar con me tanta civetteria, che mi parve anche troppa per lo scopo a cui tendevo. Volgendo di sfuggita qualche sguardo ad Adriana, m'accorgevo di quant'ella soffrisse. Il supplizio non era dunque soltanto per il Bernaldez e per Minerva; era anche per lei e per me. Mi sentivo il volto in fiamme, come se man mano mi ubriacasse il dispetto che sapevo di cagionare a quel povero giovane, il quale tuttavia non m'ispirava pietà: pietà, lì dentro, m'ispirava soltanto Adriana; e, poiché io dovevo farla soffrire, non m'importava che soffrisse anche lui della stessa pena: anzi quanto più lui ne soffriva, tanto meno mi pareva che dovesse soffrirne Adriana. A poco a poco, la violenza che ciascuno di noi faceva a se stesso crebbe e si tese fino a tal punto, che per forza doveva in qualche modo scoppiare. Ne diede il pretesto Minerva. Non tenuta quel giorno in soggezione dallo sguardo della padroncina, essa, appena il pittore staccava gli occhi da lei per rivolgerli alla tela, zitta zitta, si levava dalla positura voluta, cacciava le zampine e il musetto nell'insenatura tra la spalliera e il piano della poltrona, come se volesse ficcarsi e nascondersi lì, e presentava al pittore il di dietro, bello scoperto, come un o, scotendo quasi a dileggio la coda ritta. Già parecchie volte la signora Candida la aveva rimessa a posto. Aspettando, il Bernaldez sbuffava, coglieva a volo qualche mia parola rivolta a Pepita e la commentava borbottando sotto sotto fra sé. Più d'una volta, essendomene accorto, fui sul punto d'intimargli: « Parli forte! ». Ma egli alla fine non ne poté più, e gridò a Pepita: - Prego: faccia almeno star ferma la bestia! - Vestia, vestia, vestia... - scattò Pepita, agitando le mani per aria, eccitatissima. - Sarà vestia, ma non glie se dice! - Chi sa che capisce, poverina... - mi venne da osservare a mo' di scusa, rivolto al Bernaldez. La frase poteva veramente prestarsi a una doppia interpretazione; me ne accorsi dopo averla proferita. Io volevo dire: « Chi sa che cosa immagina che le si faccia ». Ma il Bernaldez prese in altro senso le mie parole, e con estrema violenza, figgendomi gli occhi negli occhi, rimbeccò: - Ciò che dimostra di non capir lei! Sotto lo sguardo fermo e provocante di lui, nell'eccitazione in cui mi trovavo anch'io, non potei fare a meno di rispondergli: - Ma io capisco, signor mio, che lei sarà magari un gran pittore... - Che cos'è? - domandò il marchese, notando il nostro fare aggressivo. Il Bernaldez, perdendo ogni dominio su se stesso s'alzò e venne a piantarmisi di faccia: - Un gran pittore... Finisca! - Un gran pittore, ecco... ma di poco garbo, mi pare; e fa paura alle cagnette, - gli dissi io allora, risoluto e sprezzante. - Sta bene, - fece lui. - Vedremo se alle cagnette soltanto! E si ritirò. Pepita improvvisamente ruppe in un pianto strano, convulso, e cadde svenuta tra le braccia della signora Candida e di Papiano. Nella confusione sopravvenuta, mentr'io con gli altri mi facevo a guardar la Pantogada adagiata sul canapè, mi sentii afferrar per un braccio e mi vidi sopra di nuovo il Bernaldez, ch'era tornato indietro. Feci in tempo a ghermirgli la mano levata su me e lo respinsi con forza, ma egli mi si lanciò contro ancora una volta e mi sfiorò appena il viso con la mano. Io mi avventai, furibondo; ma Papiano e il Paleari accorsero a trattenermi, mentre il Bernaldez si ritraeva gridandomi: - Se l'abbia per dato! Ai suoi ordini!... Qua conoscono il mio indirizzo! Il marchese s'era levato a metà dalla poltrona, tutto fremente, e gridava contro l'aggressore; io mi dibattevo intanto fra il Paleari e Papiano, che mi impedivano di correre a raggiungere colui. Tentò di calmarmi anche il marchese, dicendomi che, da gentiluomo, io dovevo mandar due amici per dare una buona lezione a quel villano, che aveva osato di mostrar così poco rispetto per la sua casa. Fremente in tutto il corpo, senza più fiato gli chiesi appena scusa per lo spiacevole incidente e scappai via, seguito dal Paleari e da Papiano. Adriana rimase presso la svenuta, ch'era stata condotta di là. Mi toccava ora a pregare il mio ladro che mi facesse da testimonio: lui e il Paleari: a chi altri avrei potuto rivolgermi? - Io? - esclamò, candido e stupito, il signor Anselmo. - Ma che! Nossignore! Dice sul serio? - (e sorrideva). - Non m'intendo di tali faccende, io, signor Meis... Via, via, ragazzate, sciocchezze, scusi... - Lei lo farà per me, - gli gridai energicamente, non potendo entrare in quel momento in discussione con lui. - Andrà con suo genero a trovare quel signore, e... - Ma io non vado! Ma che dice! - m'interruppe. - Mi domandi qualunque altro servizio: son pronto a servirla; ma questo, no: non è per me, prima di tutto; e poi, via, glie l'ho detto: ragazzate! Non bisogna dare importanza... Che c'entra... - Questo, no! questo, no! - interloquì Papiano vedendomi smaniare. - C'entra benissimo! Il signor Meis ha tutto il diritto d'esigere una soddisfazione; direi anzi che è in obbligo, sicuro! deve, deve... - Andrà dunque lei con un suo amico, - dissi, non aspettandomi anche da lui un rifiuto. Ma Papiano apri le braccia addoloratissimo. - Si figuri con che cuore vorrei farlo! - E non lo fa? - gli gridai forte, in mezzo alla strada. - Piano, signor Meis, - pregò egli, umile. - Guardi... Senta: mi consideri... consideri la mia infelicissima condizione di subalterno... di miserabile segretario del marchese... servo, servo, servo... - Che ci ha da vedere? Il marchese stesso... ha sentito? - Sissignore! Ma domani? Quel clericale... di fronte al partito... col segretario che s'impiccia in questioni cavalleresche... Ah, santo Dio, lei non sa che miserie! E poi, quella fraschetta, ha veduto? è innamorata, come una gatta, del pittore, di quel farabutto... Domani fanno la pace, e allora io, scusi, come mi trovo? Ci vado di mezzo! Abbia pazienza, signor Meis, mi consideri... E proprio così. - Mi vogliono dunque lasciar solo in questo frangente? - proruppi ancora una volta, esasperato. - Io non conosco nessuno, qua a Roma! -...Ma c'è il rimedio! C'è il rimedio! - s'affrettò a consigliarmi Papiano. - Glielo volevo dir subito... Tanto io, quanto mio suocero, creda, ci troveremmo imbrogliati; siamo disadatti... Lei ha ragione, lei freme, lo vedo: il sangue non è acqua. Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del regio esercito: non possono negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in una partita d'onore. Lei si presenta, espone loro il caso... Non è la prima volta che càpita loro di rendere questo servizio a un forestiere. Eravamo arrivati al portone di casa; dissi a Papiano: - Sta bene! - e lo piantai lì, col suocero, avviandomi solo, fosco, senza direzione. Mi s'era ancora una volta riaffacciato il pensiero schiacciante della mia assoluta impotenza. Potevo fare un duello nella condizione mia? Non volevo ancora capirlo ch'io non potevo far più nulla? Due ufficiali? Sì, Ma avrebbero voluto prima sapere, e con fondamento, ch'io mi fossi. Ah, pure in faccia potevano sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero sodo, sì, quanto volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore... Due ufficiali! E se per poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di tutto non m'avrebbero creduto, chi sa che avrebbero sospettato; e poi sarebbe stato inutile, come per Adriana: pur credendomi, m'avrebbero consigliato di rifarmi prima vivo, giacché un morto, via, non si trova nelle debite condizioni di fronte al codice cavalleresco... E dunque dovevo soffrirmi in pace l'affronto, come già il furto? Insultato, quasi schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo dell'intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso? No, no! E come avrei potuto più vivere? come sopportar la mia vita? No, no, basta! basta! Mi fermai. Mi vidi vacillar tutto all'intorno; sentii mancarmi le gambe al sorgere improvviso d'un sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido dal capo alle piante. « Ma almeno prima, prima... » dissi tra me, vaneggiando, « almeno prima tentare... perché no? se mi venisse fatto... Almeno tentare... per non rimaner di fronte a me stesso così vile... Se mi venisse fatto... avrei meno schifo di me... Tanto, non ho più nulla da perdere... Perché non tentare? » Ero a due passi dal Caffè Aragno. « Là, là, allo sbaraglio! » E, nel cieco orgasmo che mi spronava, entrai. Nella prima sala, attorno a un tavolino, c'erano cinque o sei ufficiali d'artiglieria e, come uno d'essi, vedendomi arrestar lì presso torbido, esitante, si voltò a guardarmi, io gli accennai un saluto, e con voce rotta dall'affanno: - Prego... scusi... - gli dissi. - Potrei dirle una parola? Era un giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell'anno stesso dall'Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s'appressò, con molta cortesia. - Dica pure, signore... - Ecco, mi presento da me: Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco nessuno... Ho avuto una... una lite, sì... Avrei bisogno di due padrini... Non saprei a chi rivolgermi... Se lei con un suo compagno volesse... Sorpreso, perplesso, quegli stette un po' a squadrarmi, poi si voltò verso i compagni, chiamò: - Grigliotti! Questi, ch'era un tenente anziano, con un pajo di baffoni all'insù, la caramella incastrata per forza in un occhio, lisciato, impomatato, si levò, seguitando a parlare coi compagni (pronunziava l'erre alla francese) e ci s'avvicinò, facendomi un lieve, compassato inchino. Vedendolo alzare, fui sul punto di dire al tenentino: « Quello, no, per carità! quello, no! ». Ma certo nessun altro del crocchio, come riconobbi poi, poteva esser più designato di colui alla bisogna. Aveva su la punta delle dita tutti gli articoli del codice cavalleresco. Non potrei qui riferire per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque di dirmi intorno al mio caso, tutto ciò che pretendeva da me... dovevo telegrafare, non so come, non so a chi, esporre, determinare, andare dal colonnello ça va sans dire... come aveva fatto lui, quando non era ancora sotto le armi, e gli era capitato a Pavia lo stesso mio caso... Perché, in materia cavalleresca... e giù, giù, articoli e precedenti e controversie e giurì d'onore e che so io. Avevo cominciato a sentirmi tra le spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora, sentendolo sproloquiare così! A un certo punto, non ne potei più: tutto il sangue m'era montato alla testa: proruppi: - Ma sissignore! ma lo so! Sta bene... lei dice bene; ma come vuole ch'io telegrafi, adesso? Io son solo! Io voglio battermi, ecco! battermi subito, domani stesso, se è possibile... senza tante storie! Che vuole ch'io ne sappia? Io mi son rivolto a loro con la speranza che non ci fosse bisogno di tante formalità, di tante inezie, di tante sciocchezze, mi scusi! Dopo questa sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò improvvisamente con uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali. Scappai via, fuori di me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a scudisciate. Mi recai le mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi fuggiva; e, inseguito da quelle risa, m'allontanai di furia, per cacciarmi, per nascondermi in qualche posto... Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai all'impazzata; poi, man mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi fermai, come se non potessi più trascinar l'anima, frustata da quel dileggio, fremebonda e piena d'una plumbea tetraggine angosciosa. Rimasi un pezzo attonito; poi mi mossi di nuovo, senza più pensare, alleggerito d'un tratto, in modo strano, d'ogni ambascia, quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per quanto tempo, fermandomi qua e là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che man mano si serravano, e mi pareva che si serrassero per me, per sempre; e che le vie a poco a poco si spopolassero, perché io restassi solo, nella notte, errabondo, tra case tacite, buje, con tutte le porte, tutte le finestre serrate, serrate per me, per sempre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva, ammutoliva con quella notte; e io già la vedevo come da lontano, come se essa non avesse più senso né scopo per me. Ed ecco, alla fine, senza volerlo, quasi guidato dal sentimento oscuro che mi aveva invaso tutto, maturandomisi dentro man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte. « Là? » Un brivido mi colse, di sgomento, che fece d'un subito insorgere con impeto rabbioso tutte le mie vitali energie armate di un sentimento d'odio feroce contro coloro che, da lontano, m'obbligavano a finire, come avevan voluto, là, nel molino della Stìa. Esse Romilda e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti: ah, io non avrei mai pensato di simulare un suicidio per liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato due anni, come un'ombra, in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato pei capelli a eseguire su me la loro condanna. Mi avevano ucciso davvero! Ed esse, esse sole si erano liberate di me... Un fremito di ribellione mi scosse. E non potevo io vendicarmi di loro, invece d'uccidermi? Chi stavo io per uccidere? Un morto... nessuno... Restai, come abbagliato da una strana luce improvvisa. Vendicarmi! Dunque, ritornar lì, a Miragno? uscire da quella menzogna che mi soffocava divenuta ormai insostenibile; ritornar vivo per loro castigo, col mio vero nome, nelle mie vere condizioni, con le mie vere e proprie infelicità? Ma le presenti? Potevo scuotermele di dosso, così, come un fardello esoso che si possa gettar via? No, no, no! Sentivo di non poterlo fare. E smaniavo lì, sul ponte ancora incerto della mia sorte. Frattanto, ecco, nella tasca del mio pastrano palpavo, stringevo con le dita irrequiete qualcosa che non riuscivo a capir che fosse. Alla fine, con uno scatto di rabbia, la trassi fuori. Era il mio berrettino da viaggio, quello che, uscendo di casa per far visita al marchese Giglio, m'ero cacciato in tasca, senza badarci. Feci per gittarlo al fiume, ma - sul punto - un'idea mi balenò; una riflessione, fatta durante il viaggio da Alenga a Torino, mi tornò chiara alla memoria. « Qua, » dissi, quasi inconsciamente, tra me, « su questo parapetto... il cappello... il bastone... Sì! Com'esse là, nella gora del molino, Mattia Pascal; io, qua, ora, Adriano Meis... Una volta per uno! Ritorno vivo; mi vendicherò! » Un sussulto di gioja, anzi un impeto di pazzia m'investì, mi sollevò. Ma sì! ma sì! Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m'aveva torturato, straziato due anni, quell'Adriano Meis, condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell'Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo, com'era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un po' d'acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal. Una volta per uno! Quell'ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si sarebbe chiusa degnamente, così, con una menzogna macabra! E riparavo tutto! Che altra soddisfazione avrei potuto dare ad Adriana per il male che le avevo fatto? Ma l'affronto di quel farabutto dovevo tenermelo? Mi aveva investito a tradimento, il vigliacco! Oh, io ero ben sicuro di non aver paura di lui. Non io, non io, ma Adriano Meis aveva ricevuto l'insulto. Ed ora, ecco, Adriano Meis s'uccideva. Non c'era altra via di scampo per me! Un tremore, intanto, mi aveva preso, come se io dovessi veramente uccidere qualcuno. Ma il cervello mi s'era d'un tratto snebbiato, il cuore alleggerito, e godevo d'una quasi ilare lucidità di spirito. Mi guardai attorno. Sospettai che di là, sul Lungotevere, ci potesse essere qualcuno, qualche guardia, che - vedendomi da un pezzo sul ponte - si fosse fermata a spiarmi. Volli accertarmene: andai, guardai prima nella Piazza della Libertà, poi per il Lungotevere dei Mellini. Nessuno! Tornai allora indietro; ma, prima di rifarmi sul ponte, mi fermai tra gli alberi, sotto un fanale: strappai un foglietto dal taccuino e vi scrissi col lapis: Adriano Meis. Che altro? Nulla. L'indirizzo e la data. Bastava così. Era tutto lì, Adriano Meis, in quel cappello, in quel bastone. Avrei lasciato tutto, là, a casa, abiti, libri... Il denaro, dopo il furto, l'avevo con me. Ritornai sul ponte, cheto, chinato. Mi tremavano le gambe, e il cuore mi tempestava in petto. Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m'aveva salvato, e via, cercando l'ombra, come un ladro, senza volgermi addietro.

 

capitulo 16 - El retrato de «Minerva» Ya antes de que me abrieran la puerta, adiviné que algo grave había pasado en casa, pues oíanse a Papiano y don Anselmo dando voces. La pianista salióme al encuentro, toda descompuesta. —Pero ¿es verdad eso? ¿Doce mil liras? Detúveme, anhelante y aturdido. Escipión Papiano atravesó en aquel momento la salita de entrada, descalzo, con las botas en la mano, muy pálido, en mangas de camisa; en tanto el hermano chillaba: —Y ahora, denuncia, denuncia. De pronto acometióme un impulso de altiva cólera contra Adriana, que, no obstante mi prohibición y su juramento, había hablado. —¿Quién lo ha dicho? —contestéle a la pianista—. Nada de eso es cierto. ¡Ya pareció el dinero! La pianista mirome estupefacta. —¿El dinero? ¿Que ya pareció? ¿De veras? ¡Ah! ¡Alabado sea Dios! —exclamó, alzando los brazos. Y conmigo detrás corrió muy alborozada al comedor, donde seguían Papiano y don Anselmo dando voces, mientras Adriana lloraba. —¡Que ya pareció el dinero! ¡Que ha parecido! Aquí está el señor Meis, que lo puede decir, ¿verdad? —¿Cómo? —¿Que ha parecido? —Pero ¿es posible? Quedáronse como pasmados los tres; pero Adriana y su padre tenían la cara como la grana, mientras que Papiano, en cambio, estaba lívido y descompuesto. Mirele un instante. Debía yo de estar más pálido que él y todo temblón. Bajó los ojos como aterrado y dejó caer de las manos la chaqueta del hermanito. Yo me fui derecho a él hasta casi dar pecho con pecho, y le tendía la mano. —¡Usted dispense! ¡Dispense usted, y que me dispensen todos! —dije. —¡No! —gritó Adriana, indignada; pero inmediatamente se metió el pañuelo en la boca. Papiano la miró y no se atrevió a tenderme la mano. Yo volví a decirle: —¡Dispénseme usted! ... Y tendíle aún más la mano, hasta sentir el contacto de la suya, que temblaba. Parecía la mano de un muerto, y también sus ojos, turbios y casi apagados, parecían los de un cadáver. —Siento mucho —añadí— el disgusto, el trastorno que, sin querer, he ocasionado... —No, señor... Es decir, sí, verdaderamente —balbució don Anselmo—. Era una cosa que... Sí, no podía ser, ¡diantre! ¡Me alegro mucho! No sabe usted cuánto me alegro, señor Meis, de que haya usted encontrado ese dinero, porque... Papiano resolló fuerte; pasóse ambas manos por la frente, bañada en sudor, así como la cabeza, y, volviéndonos la espalda, púsose a mirar la azoteílla. —Me ha pasado —dije yo, haciendo por sonreír— lo que a aquel del cuento, que buscaba al burro e iba montado en él. Las doce mil liras las tenía yo aquí, encima de mí, en la cartera. Adriana no pudo contenerse ya más. —¡Pero si usted —dijo— lo revolvió todo estando yo delante, inútilmente! Sí, allí, en el armario... —Sí, señorita —interrumpíla con fría y severa entereza—; pero, sin duda, busqué mal, cuando luego ha aparecido el dinero... Le ruego a usted también, y particularísimamente, que me perdone por mi atolondramiento, pues ha debido usted de sufrir más que nadie. Espero, sin embargo, que... —¡No! ¡Tanto, no! —gritó Adriana, rompiendo a sollozar y saliéndose precipitadamente de la habitación, seguida de la pianista. —No comprendo... —exclamó don Anselmo, estupefacto. Papiano volvióse colérico: —Pues, de todos modos, yo me voy de aquí hoy mismo... Según parece..., ya no hay necesidad de... de... Interrumpióse, como si le faltase el aliento; hizo ademán de volverse a mí, pero no tuvo ánimos para mirarme a la cara. —Yo... yo no he tenido fuerzas, créame usted, ni para decir que no... cuando me han cogido... aquí.... entre todos... Me abalancé a mi hermano, que..., en su inconsciencia..., enfermo, como es... irresponsable.... ¡quién sabe! Puede usted figurarse que... Tiré de él, y me lo traje acá... ¡Una escena bárbara! Me vi obligado a desnudarlo..., a registrarlo... por todas partes, hasta las botas... Y él... ¡ah! ... En este instante subiósele el llanto a la garganta, como haciéndole un nudo; cuajáronsele de lágrimas los ojos, y, como agobiados bajo el peso de su congoja, añadió: —Ya han podido convencerse de que... Pero ya comprenderá usted... que, después de esto, yo no tengo más remedio que irme. —¡Quiá, hombre! ¿Por qué? —exclamé yo—. ¿Por mi culpa? No, señor. Usted debe quedarse aquí. Yo soy quien debo irme. —¿Qué está usted diciendo, señor Meis? —saltó, afligido, el señor Paleari. También Papiano, cohibido por el llanto, que trataba de reprimir, hizo un ademán negativo; después dijo: —¡No, no! ¡Debo irme yo.... debo irme! Es más: todo esto ha sucedido porque yo inocentemente.... a la buena de Dios, anuncié mi propósito de irme, por causa de mi hermano, al que no se puede tener en casa... Tengo ya en mi poder una carta del marqués para el director de un hospital de Nápoles, adonde tengo que ir también por otros documentos que el marqués necesita Y entonces, mi cuñada, que le tiene a usted y con razón.... naturalmente..., en tanta estima fue y dijo que ninguno nos podíamos mover de la casa..., que teníamos que estarnos aquí..., porque usted.... no sé..., había descubierto... ¡Decírmelo eso a mí, a su cuñado! ... Pues así me lo dijo.... ¡sí, señor! .... quizá porque yo, pobre, pero honrado, soy todavía en deberle aquí, a mi suegro... —¡Pero hombre!, ¿a qué sacas eso a colación? —exclamó, interrumpiéndole, el anciano. —¡No! —replicó Papiano con vehemencia—. ¡Es que no tengo más remedio que hacerlo! ¡A mí no se me olvida ese pico! ... Y si me voy de esta casa..., ¡pobre, pobre de Escipión! Y, no atinando ya a reprimirse, prorrumpió en desatado llanto. —¡Bueno! —dijo don Anselmo, turulato y conmovido—. Pero ¿a qué viene eso? —¡Pobre hermano mío! —continuó Papiano con tales acentos de sinceridad, que hasta yo mismo sentíme transido de misericordia. Comprendía, al través de aquel llanto, el remordimiento que debía de experimentar en aquel instante por el hermano, del cual se había valido para sus fines, y al que le habría echado toda la culpa del robo, si yo lo hubiera denunciado, habiéndole ya infligido la afrenta de aquel cacheo. Nadie mejor que él sabía que yo no había podido encontrar el dinero. Aquella inesperada declaración mía, que venía a salvarlo en el preciso instante en que, creyéndose perdido, acusaba al hermano o, cuando menos, dejaba entender —según el plan que tendría tramado— que sólo aquél podía haber sido el tutor del robo, habíalo materialmente anonadado. Ahora lloraba de aquella manera por la necesidad de desahogarse el alma, tan tremendamente conmovida, y quizá también por comprender que sólo así, deshecho en llanto, podía afrontar mi presencia. Con aquel llanto era como si se me postrase a los pies de hinojos, aunque a condición de que yo mantuviese mi afirmación de haber encontrado el dinero; que, de haberme yo aprovechado de su decaimiento para volverme atrás de lo dicho, se hubiera alzado contra mí furioso. El —ni qué decir tenía— no sabía ni debía saber nada de tal robo, y yo, con aquella afirmación mía, sólo venía a salvar a su hermano el cual, en fin de cuentas, aunque yo lo hubiera Denunciado, no saldría perdiendo nada, ya que la enfermedad lo eximía; cuanto a él, a Papiano, se comprometía, según ya dejaba entrever, a devolverle a su suegro la dote. Todo esto parecióme deducir de aquellos lloros. A lo último, Papiano, ante las exhortaciones del suegro y mías, serenóse; dijo que se volvería enseguida de Nápoles, no bien internase a su hermano en el hospital y obtenido determinados informes acerca de cierto negocio que había planteado allí con un amigo suyo, y procurándose los documentos que le había encargado el marqués. —Y a propósito —me dijo, encarándose conmigo—; ya se me olvidaba con todo este trajín... El señor marqués me ha dicho que si no le parecía a usted mal, hoy.... en compañía de mi suegro y Adriana... —¡Ah, sí! —exclamó don Anselmo, sin dejarlo acabar—. ¡Sí, iremos todos! ¡Me parece que ahora ya no hay por qué estar tristes! ... ¿Qué dice usted a esto, don Adriano? —Por mí... —respondí, abriendo los brazos. —Pues entonces, a eso de las cuatro... ¿Les parece bien? —propuso Papiano, enjugándose definitivamente los ojos. Yo me retiré a mi cuarto. Mi pensamiento voló hacia Adriana, que, después de aquel mentís mío, se había salido de la habitación sollozando. ¿Vendría ahora a pedirme explicaciones? Era indudable que no podría creerse tampoco aquello de que Yo hubiese encontrado el dinero. Y siendo así, ¿qué iría la pobre a figurarse ahora? Pues que o, al negar lo del robo, había querido castigarla a ella, por haber faltado a su juramento. Pero ¿por qué? indudablemente, porque el abogado, con quien le había dicho que pensaba consultar antes de proceder a denunciar el robo, me había dicho que, de hacerlo así, habían de verse envueltos en responsabilidad ella y todos los inquilinos de la casa. Pero bueno: ¿no me había dicho ella que estaba dispuesta a afrontar con gusto el escándalo? Sí; pero yo —era claro— no había consentido en ello, Prefiriendo sacrificar las doce mil liras... Y entonces, ¿ debía dejarla en la creencia de que todo aquello era generosidad de mi parte, un sacrificio que hacía por amor a ella? He aquí a qué, otra mentira me obligaba mi extraña situación, repugnante mentira, que me engalanaba con el airón de una exquisita y delicada prueba de amor, atribuyéndome una generosidad tanto mayor cuanto que nadie me la había pedido, ni siquiera deseado. Pero no. ¡Eso no podía ser! ¿Qué era lo que estaba pensando? A otras conclusiones muy distintas había de llegar, siguiendo la lógica de aquella mentira mía, necesaria e inevitable. ¡Cuánta generosidad! ¡Qué sacrificio! ¡Qué prueba de amor! ¿Qué más hubiera podido hacer por lisonjear a aquella pobre muchacha? No; lo que debía hacer, en adelante, era sofocar mi pasión; no volverle a dirigir en la vida ni una mirada, ni una palabra de amor. Pero, entonces, ¿cómo iba a poder ella conciliar aquella aparente generosidad mía con la reserva que desde ahora había de guardar en nuestras relaciones? De suerte que me veía obligado, a la fuerza, a aprovecharme de aquel robo, que ella había divulgado contra mi voluntad, y desmentido yo, a fin de romper toda relación con ella. Mas ¿qué lógica era ésta? Porque, una de dos: si yo había sido víctima de aquel robo, conociendo, como conocía, al ladrón, ¿por qué, en lugar de denunciarle, la pagaba con ella, retirándole mi amor, como si también ella fuera culpable? O si había recuperado, efectivamente, el dinero, ¿por qué no seguir amándola? Sentí que el empacho, la ira y el odio a mí mismo sofocábame. ¡Si siquiera hubiese podido decirle que no era generosidad la mía! ¡Que yo no podía, en modo alguno, denunciar el robo! ... Pero, en tal caso, tendría que exponerle alguna razón... ¿La diría que aquel dinero mío era robado? ¿O que era un fugitivo comprometido, al que perseguía la Justicia, un individuo que debía vivir en la oscuridad, incapacitado para todo, incluso para unir su suerte con la de una mujer? Pero no más mentiras a la pobre muchacha, ¡no! ... Además, la verdad, que a mí mismo antojábaseme ahora increíble, fábula absurda, sueño insensato, ¿podría decírsela a ella? ¿Habría de confesarle, por no mentirle ahora, que no había hecho hasta entonces sino mentir? He ahí adónde me hubiera conducido la revelación de mi extraño estado. Y después de todo, ¿para qué? Porque con eso, ni yo hubiera podido disculparme, ni consolarse ella. Todavía, exasperado como estaba y fuera de mí, en aquel instante se lo hubiera confesado todo a Adriana si ésta, en vez de enviarme a la pianista, hubiese venido personalmente a mi cuarto a explicarme la razón de haber faltado a su juramento. Razón que ya sabía yo, por haberla oído de labios de Papiano. Añadió la pianista que Adriana estaba inconsolable. —Y ¿por qué? —preguntéle con forzada indiferencia. —Pues porque no pasa a creer —respondióme— que usted haya encontrado el dinero. Ocurrióseme entonces la idea —que, por lo demás, se avenía muy bien con el estado de mi ánimo y con aquella rabia que contra mí mismo sentía —de hacerle perder a Adriana toda la estimación que me tenía, a fin de que dejase de amarme, mostrándome a sus ojos falso, duro, voluble e interesado... De esa suerte me castigaría a mí mismo por el mal que le había hecho. Y aunque, de momento, hubiera de hacerle todavía más daño, de él se seguiría su curación. —¿Qué no lo cree? ¿Y por qué no? —díjele con triste sonrisa a la solterona—. Pues doce mil liras..., ¿son una gota de agua? ¿Se figura ella que iba yo a estar tan tranquilo si de verdad me las hubiesen robado? —Pero Adriana me ha dicho... —intentó añadir aquélla. —Nada. ¡Sandeces! ¡Gana de hablar! —atajéle yo—. Es verdad, lo confieso, que al pronto sospeché... Pero también lo es que ya le dije a Adriana que no pasaba a creer en un robo... Y, efectivamente, así era. Además, ¿por qué iba yo a decir que había encontrado el dinero, de no ser exacto? La pianista se encogió de hombros. —Quizá crea Adriana que usted tenga alguna razón para... —¡Nada de eso! —apresuréme a interrumpirla— Le repito a usted que andaban por medio doce mil liras... ¡Si hubieran sido treinta o cuarenta, todavía!... Pero no, ¡yo no soy tan generoso! ... ¡ Caramba, se necesita ser un héroe! ... Al salir de mi cuarto la pianista, para transmitirle a Adriana mis palabras, quedéme yo retorciéndome y mordiéndome las manos. ¿Estaba bien que yo hiciese aquello? ¿Qué me aprovechase de aquel robo, cual si con el dinero robado quisiera pagarle a ella, compensarla de sus defraudadas esperanzas? ¡Ah! ¡Aquella conducta mía era vil! ... Seguramente, ella ahora clamaría al cielo, de rabia y me despreciaría..., sin comprender que su dolor era también el mío. Pero ¡así tenía que ser! Era menester que ella me odiara y despreciase, como yo me odiaba y despreciaba a mí mismo. Y hasta, para que me tomase más odio y concibiese por mí mayor desprecio, procuraría aún mostrarme muy cariñoso con Papiano, su enemigo, como para desagraviarle, a los ojos de ella, de la sospecha de que le hiciera blanco. Y, de esa suerte, desconcertaría también al propio ladrón, hasta hacer creer a todos que me había vuelto loco... ¡Y, por si era poco, recordé que habíamos quedado en ir a casa del marqués de Giglio, y me propuse empezar aquel mismo día a hacerle el amor a la señorita de Pantogada! ... “¡Con eso me despreciarás más todavía, Adriana! —sollocé, dejándome caer en el lecho—. ¿Qué más, qué más podría yo hacer por ti?» Poco después de las cuatro vino a llamar a mi puerta el señor Paleari. —¡Ya voy! —le dije; y me endosé aprisa el abrigo—. ¡Vamos allá! —Pero ¿va usted a venir así? —preguntóme don Anselmo, mirándome maravillado. —¿Por qué? —exclamé yo. Mas al punto advertí que llevaba todavía en la cabeza el gorro de viaje, que solía ponerme en casa. Guardémelo en el bolsillo, y me encasqueté el sombrero, en tanto mi patrón se sonreía, como si él... —¿Adónde va usted así también, don Anselmo? —Es verdad. Aguarde usted un poco... ¡Hay que ver cómo iba a salir yo!... —respondió, riendo, y me mostró sus pantuflas—. Pase usted un momento al comedor, que allí está Adriana... —¿Va a venir también con nosotros? —pregunté. —Al principio no quería —respondióme don Anselmo, dirigiéndose a su cuarto—; pero, al fin, he logrado convencerla. ¡Ande usted! En el comedor la encontrará, ya lista... ¡Con qué dura mirada de rencor acogióme la pianista! Ella, que tanto había sufrido por culpa del amor y recibido tantas veces consuelo de aquella pobre muchacha, ignorante de todo, ahora que a Adriana se le habían abierto los ojos también y tenía el corazón herido, procuraba consolarla a ella, a su vez, halagadora y llena de buena voluntad, y se rebelaba contra mí, por parecerle injusto que yo hiciera sufrir a una criatura tan hermosa y tan buena. Ella, —Por su parte, no era hermosa ni buena, y así, aun podían tener una sombra de disculpa los hombres si se portaban mal con ella; pero ¿por qué hacerle sufrir de aquel modo a Adriana? Todo esto me dijo con los ojos, invitándome a mirar a mi víctima. ¡Qué pálida estaba! Conocíasele todavía en los ojos que había llorado. ¡Quién sabe cuántos angustiosos esfuerzos habríale costado el tenerse que vestir para salir conmigo! ... No obstante el estado de ánimo con que hube de hacer aquella visita, despertaron en mí viva curiosidad la persona y la casa del marqués de Giglio d’Auletta. Sabía que vivía en Roma porque ya no se le alcanzaba otro recurso para lograr la restauración del reino de las Dos Sicilias sino luchar por el triunfo del Poder eclesiástico; restituyéndole Roma al Pontífice, tendría que quebrantarse la unidad de Italia, y entonces..., ¿quién sabe? No quería el marqués aventurar profecías; por el momento, su misión estaba bien clara: luchar sin cuartel en el campo clerical. Y su casa veíase frecuentada por los más intransigentes prelados de la Curia y los más fervorosos paladines del partido negro. Pero aquel día, en el amplio salón, espléndidamente decorado, no vimos a nadie. Había, en su centro, un caballete con un lienzo no más que abocetado, que quería ser el retrato de Minerva, la perrilla de Pepita, negra del todo, tendida en una butaca blanca y con el hocico entre las patas. Díjonos Papiano que aquélla era obra de Bernáldez. Se nos presentaron, primero, Pepita Pantogada y su dueña, doña Cándida. Ya las había visto yo a las dos en la semioscuriad de mi cuarto; pero ahora, a plena luz, la señorita de Pantogada parecióme otra, no del todo, sino por lo que se refería a aquella nariz que gastaba... ¿Es posible que en casa no se la hubiera visto? Habíame figurado que tenía una naricilla respingona, atrevidilla, y ahora resultaba que la tenía aguileña y no tan corta. ¡Pero era, a pesar de todo, tan hermosa, con aquella tez morena, ojos de brasa, pelo negrísimo, brillante y rizado, y labios de carmín! El traje, oscuro con motas blancas, sobrio y elegante, veníale que ni pintado a su esbelto y airoso cuerpo. Junto a ella palidecía la suave hermosura rubia de Adriana. ¡Y, por fin, pude explicarme qué era lo que doña Cándida llevaba en la cabeza! Una magnífica peluca rubia, muy rizada, y, encima de la peluca, un gran pañolón de seda celeste; mejor dicho, una toquilla, anudada artísticamente por debajo de la barba. Todo lo brillante que resultaba el marco, teníalo de pálido y descolorido aquella carita flaca y fofa, muy dada de polvos y afeites. A todo esto, Minerva, la perrilla, no nos dejaba hablar, con sus roncos y forzados ladridos. Aunque el pobre bicho no se dirigía a nosotros, sino que sus ladridos iban contra el caballete y contra aquella butaca blanca, que a ella debían parecerle instrumentos de tortura; ladridos con los que protestaba y daba suelta a la exasperación de su alma perruna. De buena gana hubiera Minerva echado del salón a aquel condenado chisme de tres patas; pero, visto que seguía allí plantado, inmóvil y amenazador, era ella la que se apartaba, ladrando, y luego daba una carrera hacia él, enseñando los dientes, y volvía a echarse hacia atrás, colérica. Verdaderamente, la tal Minerva, tan rechoncha y pelicorta, con sus cuatro patitas tan finas, no resultaba nada airosa; tenía ya los ojos que se le hacían agua, de puro vieja; sembrado de canas el pelo de la cabeza, y el lomo, junto al nacimiento de la cola, pelado por la costumbre de rascarse Curiosamente en las patas de los armarios y en los travesaños de las sillas, dondequiera y como le venía a pelo. Pepita la cogió del gañote con muy malos modos, y echósela en los brazos a doña Cándida, gritándole: —Cito! En esto entró en la sala don Ignacio Giglio d’Auletta. Con una carrerilla, encorvado, casi partido en dos, fuese hacia la butaca que había junto a la ventana, y, apenas sentado, poniéndose el bastón entre las piernas, lanzó un profundo resuello. El semblante demacrado, todo surcado de arrugas verticales y afeitado, mostraba palidez cadavérico; pero, en cambio, los ojos despedían vivísimos y ardientes destellos, casi juveniles. Por las mejillas y las sienes corríansele, por modo extraño, ciertas mechuzas de pelo, que parecían lenguas de limpia ceniza. Acogiónos con mucha cordialidad, expresándose con marcado acento napolitano, y rogóle al secretario que siguiera enseñándonos los recuerdos de que estaba lleno el salón, y que atestiguaban su fidelidad a la dinastía borbónica. Luego que hubimos llegado a un cuadrito cubierto con una cortina verde, en la que había, bordada, esta leyenda: «No oculto, resguardo; levántame y lee», díjole a Papiano que descolgase el cuadrito y nos lo enseñase. Debajo del cristal, y con su correspondiente marco, encontrábase una carta de Pedro Ullua, con fecha de septiembre de 1860, es decir, cuando el reino ya estaba en las últimas, invitándole al marqués de Giglio d’Auletta a formar parte del Ministerio, que no llegó a constituirse; y al lado estaba el borrador de la carta del marqués aceptando, altanera misiva que disparaba rayos contra todos aquellos que se habían negado a cargar con la responsabilidad del Poder en aquellos instantes de supremo peligro y angustioso desorden con el enemigo, el filisbutero Garibaldi, ya a las puertas de Nápoles. Leyendo en voz alta el documento, enardecióse el marqués y conmovióse tanto, que con todo y no ser de mi gusto lo que leía, no pude menos de admirarle. También él, en lo suyo, habíase portado como un héroe. Del cual tuve otra prueba al oír de sus labios la historia de cierta flor de lis, de madera dorada, que había allí en el salón. La mañana del 5 de septiembre de 1860 salía el rey del palacio de Nápoles, en un coche cubierto, en unión de la reina y dos palaciegos; llegado el coche a la calle de Chiaja, tuvo que detenerse, por haberse obstruido el paso, por la afluencia de carros y coches, delante de una farmacia, en cuya muestra campeaban unas flores de lis de oro. Una escalera, apoyada contra la muestra, impedía el tránsito. Dos obreros, encaramados en lo alto de la misma, ocupábanse en quitar las flores de lis de la muestra. Hubo de notario el rey, e indicóle con la mano a la reina aquel acto de vil Prudencia del boticario, que, en otros tiempos, solicitara el honor de decorar su tienda con aquel emblema real. En aquel momento acertó a pasar por allí el marqués D’Auletta, e indignado, furioso, lanzóse al interior de la botica, cogió de la solapa de la americana al bellaco, sacólo fuera, enseñóselo al rey, escupirle después a la cara y, blandiendo una de aquellas flores de lis que acababan de quitar de la muestra, rompió a gritar con voz estentóreo: “¡Viva el rey!” La flor de lis de madera recordábale ahora al marqués, en su salón, aquella triste mañana de septiembre, y una de las últimas veces que sus soberanos pasearon por las calles de Nápoles, gloriándose de aquella simbólica flor casi tanto como de la llave de oro de gentilhombre de cámara y de las insignias de caballero de San Jenaro, y de tantas otras condecoraciones como se dejaban ver allí, bajo un gran retrato de Francisco II. Poco después, con objeto de poner por obra mi lamentable propósito, dejé al marqués con Paleari y Papiano, y acerquéme a Pepita. Noté enseguida que era muy nerviosa e impaciente. Lo primero que hizo fue preguntarme la hora. —Quattro e meccio? Bene! Bene![1] No debió de hacerle mucha gracia que fueran las cuatro y media, según el modo como pronunció aquel bene!, bene!, a regañadientes, y el voluble y casi agresivo discurso en que luego arremetió contra Italia entera, y particularmente contra Roma, tan hueca con su pasado. Entre otras cosas, díjome que «también» allá, en España tenían un Coliseo como el nuestro, de la mayor antigüedad; sólo que no le hacían el menor caso: —¡Piedra muerta![2]. Para los españoles valía infinitamente más una plaza de toros[3]. Sí, y especialmente para ella, valía muchísimo más que todas las obras maestras del arte antiguo aquel retrato de Minerva, obra del pintor Bernáldez, que, por cierto, ya se tardaba. A lo cual, y no otra cosa, debíase la impaciencia de Pepita, que ya tocaba a su colmo. Estremecíase al hablar, pasábase rápidamente, de cuando en cuando, un dedo por la nariz; mordíase los labios, abría y cerraba las manos, y a cada instante ibánsele los ojos a la puerta. Hasta que, por último, anunció el criado su llegada, y acto seguido presentóse Bernáldez muy acalorado y sudoroso, como si hubiera venido echando el bofe. Pepita le volvió la espalda y esforzóse por adoptar una actitud de fría indiferencia; pero en cuanto él, después de cumplimentar al marqués, acercóse a nosotros, o, mejor dicho, a ella, y hablándole en su idioma pidióle perdón por su tardanza, ya la joven no pudo contenerse, y con vertiginosa rapidez respondióle: —Prima de tuto le parli italiano, porque aquí siamo a Roma, dove ci sono aquesti segnori que no comprendono lo espagnolo e no me par bona crianza che le¡parli conmigo espagnolo. Poi le digo che no me importa niente del suo retardo e che podeva pasarse de la escusa.[4] El pintor, mortificadísimo, sonrió nerviosamente, haciendo una reverencia; luego preguntóle si podía seguir trabajando en el retrato, ya que todavía había un poco de luz. —Ma comodo! —respondióle ella con el mismo talante y en el mismo tono—. Le puede pintar senza de mí o también borrar lo pintado, como glie par[5]. Manuel Bernáldez hízole otra reverencia, y dirigióse a doña Cándida, que seguía con la perrita en los brazos. Entonces renovóse el suplicio de Minerva. Sólo que su verdugo hubo de sufrir un suplicio todavía más cruel. Pepita, para castigarlo por su tardanza, púsose a coquetear conmigo en una forma que a mí mismo parecióme excesiva para el objeto que me proponía. Dirigiendo de cuando en cuando una mirada de soslayo a Adriana, pude advertir cuánto sufría la pobre. De suerte que el suplicio no era sólo para Bernáldez y Minerva, sino también para Adriana y para mí. Yo sentía que las mejillas me echaban fuego, como si se me subiese a la cabeza el disgusto que sabía le estaba ocasionando a aquel pobre chico, con todo y no inspirarme piedad, porque quien de los presentes me la inspiraba era Adriana, y habiendo yo de hacerla sufrir a ella, poco me importaba que otros también sufrieran, de rechazo; es más: cuanto más me parecía que sufría el pintor, tanto menos se me antojaba que había de sufrir Adriana. Poco a poco fue subiendo de punto la violencia que cada uno de nosotros se hacía a sí mismo, en tales proporciones, que, al fin y al cabo, no tuvo más remedio que estallar. Dio para ello pie Minerva, la cual, no teniendo aquella tarde la sujeción de otras, pues su amiguita no reparaba en ella, no bien el pintor dejaba de mirarla para fijar los ojos en el lienzo, abandonaba con mucho sigilo la postura en que la habían colocado y metía las patas y el hocico en el frunce que formaban el respaldo y el asiento de la butaca, cual si quisiera esconderse, presentándole al artista las partes traseras y meneando la cola, tiesa. Doña Cándida habíala ya vuelto a colocar varias veces en la postura debida. El pintor aguardaba a que lo hiciera dando bufidos, y, cogiendo al vuelo alguna palabra mía dirigida a su tormento, comentábala para sus adentros, refunfuñando. Más de una vez, habiéndolo notado, estuve por decirle: “¡Hable usted más claro, hombre!” Pero, al fin, fue él quien perdió los estribos, y le dijo a Pepita: —¡Por favor! ¿Quiere usted hacer que ese animal se esté quieto? —Animale, animale! —saltó Pepita, manoteando, muy excitada—. Sara animale, man non glie se dice! —¡Quién sabe si el pobrecillo lo entenderá! —se me ocurrió observar a mí, encarándome con Bernáldez. Después de soltar aquella frase caí en la cuenta de que podía tener un doble sentido. Yo me refería, naturalmente, a la perrilla, como diciendo: “¡Quién sabe lo que ella se figurará que le queremos hacer!»; pero Bernáldez dio otra interpretación a mis palabras, y con extremada violencia, comiéndome con los ojos, replicó: —¡Quien da muestras de no entender es usted! Ante su firme y retadora mirada, y con lo excitado que estaba yo, no pude menos de responderle: —¡Señor mío! Yo entiendo muy bien que usted podrá ser un gran pintor; pero... —¿Qué pasa? —preguntó el marqués, reparando en nuestras actitudes agresivas. Bernáldez, perdiendo por completo los estribos, vino a plantárseme delante, diciendo: —Un gran pintor... ¡Acabe usted! —Un gran pintor, ¡sí! ... Pero, a lo que veo, tan poco simpático, que infunde miedo a las personas... —¡Está bien! —replicó Bernáldez—: ¡Ya veremos si solamente a las perrillas! Y se retiró. De pronto, prorrumpió Pepita en un llanto extraño, convulsivo, y desplomóse, desmayada, en brazos de doña Cándida y Papiano. En el revuelo que con esto se produjo, mientras yo, lo mismo que los demás, estaba mirando a la señorita de Pantogada, tendida en el canapé, sentí que me cogían de un brazo, y, al volverme, encontréme de manos a boca con Bernáldez, que se había echado hacia atrás. Dióme tiempo a repeler la mano, que ya había levantado para agredirme, y lo aparté con violencia; pero él volvió a abalanzarse a mí, y rozóme la cara con su mano. Yo me fui a él furioso; pero Papiano y don Anselmo acudieron a sujetarme, mientras Bernáldez retrocedía, gritando: —¡Téngasela usted por dada! ... ¡Estoy a sus órdenes! ... ¡Aquí saben mis señas! ... El marqués habíase levantado a medias del sillón, todo trémulo, y pronunciaba frases de censura contra el agresor; en tanto, yo forcejeaba con Papiano y don Anselmo, pugnando por desasirme de ellos y correr tras el artista. El marques mismo probó a serenarme, diciéndome que, a fuer de caballero, debía yo de mandarle los padrinos a aquel villano, para darle una lección, ya que había demostrado tener tan poco respeto a su casa. Apenas si le pedí perdón por el enojoso incidente, y me retiré enseguida, en unión de Papiano y su suegro. Adriana quedóse junto a la desmayada, a la que se habían llevado a sus habitaciones. Cumplíame ahora pedirle a mi ladrón que me sirviese de padrino; pues ¿a quién sino a él y a don Anselmo iba a dirigirme? —¿Yo? —exclamó estupefacto don Anselmo—. ¡Quia! ¡No, señor! ¡Usted no hablará en serio! Yo no entiendo de esas cosas... ¡Esas son niñadas y simplezas, con perdón de usted, señor Meis! —¡Usted lo hará por mí! —díjele con energía, ya que no era aquél el momento indicado para ponernos a discutir—. Usted irá con su yerno a ver ese señor.... y... —Pues lo que es yo, ¡no voy! —atajóme él—. ¡Es inútil que usted insista, señor Meis! Cualquier otro favor que usted me pidiera me faltaría tiempo para hacérselo; pero eso, ¡no! Y, además, que ya le he dicho a usted que todo eso son niñadas, a las que no hay que conceder importancia... —¡No! ¡Eso, no! —saltó Papiano, notando lo furioso que yo estaba—. ¡Y tanto como hay que concedérsela! El señor Meis está en todo su derecho al pedir una satisfacción, y hasta me atrevería a decir que está en la obligación de demandarla. ¡Claro que sí! Debe hacerlo, debe... —¡Bueno! Pues, entonces, irá usted con un amigo suyo —díjele, no esperando de él un desaire. Pero Papiano abrió los brazos muy contrito. —¡Ya se figurará usted con cuánto gusto lo complacería! —respondióme. —Entonces, ¿por qué no lo hace? —gritéle fuerte, en mitad de la calle. —Pues porque... ¡Vamos por partes, señor Meis! —rogóme él, humilde—. Óigame y recapacite... Considere mi desgraciadísima situación de subalterno..., de mísero secretario del marqués... —¿Y qué tiene que ver eso? —exclamé—. El marqués mismo.... ya lo ha oído usted... —Sí, señor —replicó Papiano—. Pero ¿y mañana? Con lo clerical que es, ¿qué ira a decir cuando... el partido le eche en cara... que su secretario se mete en libros de caballería?... ¡Ay, Dios mío! ¡ Usted no sabe cómo son! Y, además, ¿no ha reparado usted en la chica? Está enamorada hasta las cachas de ese zopenco del pintor... Figúrese usted que mañana hacen las paces, como no tienen más remedio que hacerlas, y entonces, ¿quiere usted decirme en qué lugar quedo yo? ¡Hágase cargo usted de esto, señor Meis! ¡Piense en lo que le digo! ... —Según eso, ¿piensan dejarme solo en este aprieto? —exclamé yo exasperado—. Porque yo no conozco a nadie en Roma... —Pero hay un remedio. ¿Hay un remedio? —saltó de pronto Papiano—. Iba a decírselo antes... Tanto mi suegro como yo, créalo usted, no entendemos de estas cosas; es la verdad... Usted tiene razón para estar como está, que le veo cómo tiembla de rabia; ¡qué diantre!, la sangre no es horchata. Bueno, mire usted: lo mejor es que se dirija a dos oficiales del ejército; éstos no podrán negarse a servir de padrinos a un caballero como usted en un lance de honor... Usted va y les refiere lo ocurrido... No es la primera vez que hacen favor semejante a un forastero. Habíamos llegado a casa. En la puerta díjele a Papiano: “¡Está bien!”, y volviéndoles las espaldas a él y al suegro, fuíme de allí, solo, con gesto huraño, y eché a andar por la calle, sin rumbo fijo. Había vuelto a presentárseme con toda claridad el agobiador pensamiento de mi absoluta impotencia. ¿Podía yo batirme con nadie en las condiciones en que me encontraba? ¿No acababa de enterarme de que yo no podía hacer nada? ¡Dos oficiales! Pero éstos, lo primero que hubieran querido saber, y con razón, era quién fuese yo. ¡Ah! Ya podían escupirme a la cara, abofetearme, darme de palos; que lo único que yo haría sería rogarle a mi agresor que me diese con todas ganas, sí, pero en silencio, sin armar demasiado ruido... ¡Dos oficiales! Y si iba y les revelaba mi verdadera condición, hubieran empezado por no creerme; luego, quién sabe lo que hubieran sospechado, y, en fin de cuentas, no me hubiera valido de nada —lo mismo que en el caso de Adriana—, pues, aun creyéndome, habríanme aconsejado, lo primero de todo, rehacerme una vida, ya que los muertos no reúnen los requisitos que exige el código de honor... ¿De suerte que tenía que aguantarme con la afrenta, lo mismo que ya apechugara con el robo? ¿Y después de verme insultado, abofeteado casi, y desafiado, quitarme de en medio como un cobarde y desaparecer así, en la oscuridad de la insufrible suerte que me aguardaba, objeto de desprecio y aborrecimiento para mí mismo? ¡No, no! ¿Cómo iba a poder vivir en adelante ni sufrir mi vista? ¡No, no! ¡Basta ya! Me detuve. Todo daba vueltas a mi alrededor, y sentí que me flaqueaban las piernas ante el inesperado surgir de un oscuro pensamiento, que me hizo temblar de pies a cabeza, transido de horrible calofrío. —Pero, a lo menos, antes... —dije entre mí, desvariando—, a lo menos, antes..., intentar... ¿Por qué no?... Si me saliese bien... Por lo menos, intentarlo..., aunque sólo sea por no hacerme a mí mismo esta impresión tan vil... Si me saliese bien..., quizá no me tuviese a mí mismo tanto asco... Después de todo, no tengo nada que perder... ¿Por qué no intentarlo? Estaba a dos pasos del café Aragno. “¡Ahí, ahí, a la ventura!” Y espoleado por la ciega ira que me dominaba, penetré en el café. En la primera sala, en torno a una mesa, hallábanse sentados cinco o seis oficiales de Artillería, y como uno de ellos, al verme allí parado, agitado e indeciso, se volviese a mirarme, yo lo saludé, y con voz afanosa le dije: —Le ruego... Usted dispense... ¿No podría usted hacerme el favor de escucharme dos palabras? Era un jovencito sin pelo de barba, que seguramente habría salido aquel año mismo de la Academia, con los galones de teniente. Al punto se levantó y acercóseme con mucha cortesía: —¡Hable usted, caballero! —Empezaré por hacer mi presentación: Adriano Meis. Soy forastero aquí y no conozco a nadie... Acabo de tener un... lance de honor, eso es. Me harían falta dos padrinos... Y no sé a quién dirigirme... Si usted y alguno de sus compañeros fuesen tan amables. Sorprendido, perplejo, el oficial quedóseme mirando un instante, y luego, volviéndose a sus compañeros, gritó: —¡Grigliottil Este, que era un teniente ya viejo, con unos bigotes a lo Káiser, y el monóculo metido a la fuerza en un ojo, muy afeitado y dado de cosmético, levantóse sin dejar de charlar con los compañeros (pronunciaba las erres a la francesa) y se llegó a nosotros, haciéndome a mí un leve y ceremonioso saludo. Yo, al verlo levantarse, estuve por decirle al otro tenientillo: “¡No, ése, no, por Dios, hombre! ¡ Otro cualquiera menos ése!” Pero era la verdad que ningún otro de los del corro parecía más indicado para el caso que aquel atildado militar, que parecía tener en la punta de los dedos los artículos todos del código del honor. No podría referir con todos sus pormenores todo cuanto tuvo a bien decirme acerca de mi caso, ni todo cuanto quería que yo hiciese... Telegrafiar no sé dónde ni a quién, exponer, precisar, ir a ver al coronel Ca va sans dire..., según había hecho él una vez, cuando todavía no era militar y en ocasión de haberle ocurrido el mismo lance que a mí... Porque en materia de honor.... y venga citar artículos, y precedentes, y controversias, y tribunales de honor, y qué sé yo cuántas cosas más... Con sólo verlo ya me había dado a mí mala espina. ¡Figuraos lo que sería ahora que lo oía hablar! Hubo un momento en que ya no pude más, habíaseme subido toda la sangre a la cabeza, y exclamé: —¡Ya, ya estoy al tanto de todo! Sé muy bien lo que usted quiere decir... Pero ¿a quién quiere usted que telegrafíe? Yo soy solo en el mundo... Y quiero batirme, y se acabó. ¡Quiero batirme enseguida, mañana mismo, si es posible.... y sin más historias! ¿Qué quiere usted que entienda yo de estas cosas? Me he dirigido a ustedes con la esperanza de que no harían falta tantas formalidades, tonterías y pamplinas. ¡Y usted dispense! Después de aquel ex abrupto mío, degeneró la conversación poco menos que en disputa, terminando inesperadamente en una carcajada general de todos los oficiales presentes. Yo me fui de allí como loco, con la cara como la grana, ni más ni menos que si me hubiesen breado a golpes. Llevéme las manos a la cabeza, como para detener a la razón, que se me iba; y perseguido por aquellas risas, eché a correr, por alejarme de aquel sitio y esconderme en cualquier parte... ¿En dónde? ¿En casa? Me entró pánico al pensarlo. Y seguí andando, de acá para allá, al tuntún; luego, poco a poco, fui aflojando el paso, hasta que, por último, casi sin aliento, hice un alto, como si no pudiese ya con mi alma, fustigada por aquella brutal, tremebundo y henchida de una plúmbea y congojosa tristeza. Permanecí largo rato como pasmado; luego eché a andar de nuevo, con la cabeza huera, aligerado de pronto, por modo extraño, de toda preocupación; y vuelta a vagar de un lado para otro, no sé cuánto tiempo, parándome de trecho en trecho ante los escaparates de las tiendas, que poco a poco se iban cerrando, pareciéndome a mí que se cerraban para siempre, y que las calles se despoblaban también para que yo me quedara solo en ellas, en medio de la noche, dando vueltas por entre casas silenciosas y oscuras, con todas sus puertas y balcones cerrados, cerrados para mí para siempre; encogíase la vida toda, apagábase y enmudecía con la noche, y yo la veía como desde lejos, cual si ya no tuviese para mí objeto ni sentido. Y he aquí que, por último, sin querer, como guiado por el oscuro sentimiento de que todo mi ser habíase apoderado, cada vez con más pujanza, encontréme otra vez en el Puente Margherita, apoyado en el pretil, contemplando con tamaños ojos el río, negro en la oscuridad de la noche. —¿Ahí? Sobrecogióme un calofrío de espanto, que fue causa de que, inesperadamente, surgieran con rabioso ímpetu todas mis vitales energías, armadas de un sentimiento de odio feroz contra aquellos que desde lejos me obligaban a acabar mis días, como ellos habían decidido, allí, en el molino de La Cabaña. Ellas, Romilda y su madre, habíanme puesto en este trance; yo, por mí, jamás hubiera pensado en simular un suicidio por ver—me libre de ellas. ¡Y he aquí que ahora, después de haber andado dando vueltas por el mundo, como una sombra, en aquella ilusión de vida de ultratumba, veíame obligado, reducido, arrastrado por los pelos, al cumplimiento de mi condena! ¡Me habían matado de verdad! ¡Y ellas eran quienes se habían libertado de mí! ... Sacudióme un temblor de rebeldía. Y en vez de matarme, ¿no podía yo tomar venganza? ¿A quién iba yo a matar? ¡A un muerto..., a nadie! ... Quedéme como deslumbrado a la vista de una extraña e inesperada luz. ¡Vengarme! ¡Pero para eso tendría que volver a Miragno!; salir de aquel ambiente de mentira, que me ahogaba y que ya se me había hecho insufrible; volver allá vivo, para su castigo, con mi verdadero nombre y en mis verdaderas condiciones, con mi legítima y propia infelicidad. Pero ¿y mi condición presente? ¿Podía quitármela de encima tan fácilmente como quien se quita una carga de los hombros? ¡No, no! Comprendía que no podía hacerlo. Y seguía desvariando allí, en el puente, todavía perplejo acerca de mi destino. A todo esto, en el bolsillo del gabán apretaban mis dedos una cosa que no lograba atinar con lo que fuese. Hasta que, por último, en un arranque de ira, fui y lo saqué. Era mi gorro de viaje, que, al salir de casa para ir a visitar al marqués de Giglio, me guardara impensadamente en el bolsillo. Hice ademán de tirarlo al río; pero en aquel preciso momento ocurrióseme una idea. Una reflexión que ya hiciera anteriormente durante el viaje de Alenga a Turín, acudió con toda claridad a mi memoria. —Aquí... —dije casi inconscientemente para mi capote—, en este pretil.... el sombrero..., el bastón. ¡Eso es! Como aquél de marras que se ahogó en el molino, como aquel Matías Pascal, voy a hacer ahora yo, Adriano Meis... Ahora me toca a mí. ¡Volveré allá vivo y me vengaré! Un arrechucho de alegría, mejor dicho, un venate de locura, apoderóse de mí, levantándome en vilo el alma. Eso. ¡Eso! Yo no debía matarme a mí, que era tanto como matar a un muerto, sino matar a aquella absurda y loca ficción que por espacio de dos años había sido mi tortura y mi suplicio; matar a aquel Adriano Meis, condenado de por vida a ser un bellaco, un embustero, un miserable; al que yo debía matar era a aquel Adriano Meis, que, siendo como era, un nombre postizo, hubiera debido tener de estopa el cerebro, de cartón piedra el corazón, y en las venas, en vez de sangre, un poco de agua teñida; sí, a él era a quien yo debía matar. ¡Fuera, pues, semejante odioso fantasma! ¡Al río con él! ¡Que se ahogue ahí como se ahogó en el molino Matías Pascal! ¡Ahora era la mía! Aquella sombra de vida, surgida de una mentira macabra, tendría digno remate en otra macabra mentira. ¡Así se reparaba todo! ¿Qué otra satisfacción hubiera podido darle a Adriana por el daño que le había hecho? Pues y el insulto de aquel tunante, ¿había de tragármelo? El muy bellaco habíame acometido a traición. ¡Oh! Estaba seguro de que el tal no me infundía ningún miedo! Pero no había sido yo el ofendido, sino Adriano Meis. ¡Y ahora Adriano Meis iba a suicidarse! ¡No había para mí otra salvación! A todo esto, me había entrado un temblorcillo, ni más ni menos que si hubiera ido a suicidarme de veras. Pero el cerebro se me había, en cambio, limpiado por completo de nubes, y aligerándoseme el corazón, gozando yo en aquel momento de una lucidez de espíritu casi alegre. Miré a mi alrededor. Temí no fuera que allí, en el Lungotevere, hubiera alguien, algún guardia, que —al ver el rato que ya llevaba en el puente se hubiera puesto a espiarme. Creí conveniente cerciorarme bien, y fui y miré, primero, en la plaza de la Libertad, y luego por el Lungotevere de Mellini. ¡Nadie! Entonces me volví al punto de partida; pero antes de subir al puente me paré entre los árboles, al pie de un farol; saqué un cuadernito de bolsillo y escribí en él con lápiz: «Adriano Meis». ¿Qué más? Nada. La dirección y la fecha. Con eso había bastante. Lo dejaría todo, ropas y libros, en casa. El dinero sobrante, después del robo, lo llevaba encima. Volvíme al puente, muy despacito, con la cabeza baja. Me flaqueaban las piernas y el corazón me daba brincos en el pecho. Elegí el sitio menos alumbrado por los faroles, y de pronto me quité el sombrero, prendile en la cinta el papelito doblado, y luego lo dejé en el pretil, con el bastón al lado; encasqueteme en la cabeza la gorra de viaje que había sido mi salvación, y me fui de allí, amparado en la sombra, como un ladrón, sin volver la cara atrás.






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