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X: Acquasantiera e portacenere
Pochi giorni dopo ero a Roma, per prendervi dimora. Perché a Roma e non altrove? La ragione vera la vedo adesso, dopo tutto quello che m'è occorso, ma non la dirò per non guastare il mio racconto con riflessioni che, a questo punto, sarebbero inopportune. Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me. La scelta della casa, cioè d'una cameretta decente in qualche via tranquilla, presso una famiglia discreta, mi costò molta fatica. Finalmente la trovai in via Ripetta, alla vista del fiume. A dir vero, la prima impressione che ricevetti della famiglia che doveva ospitarmi fu poco favorevole; tanto che, tornato all'albergo, rimasi a lungo perplesso se non mi convenisse di cercare ancora. Su Ia porta, al quarto piano, c'erano due targhette: PALEARI di qua, PAPIANO di là; sotto a questa, un biglietto da visita, fissato con due bullette di rame, nel quale si leggeva: Silvia Caporale. Venne ad aprirmi un vecchio su i sessant'anni (Paleari? Papiano?), in mutande di tela, coi piedi scalzi entro un pajo di ciabatte rocciose, nudo il torso roseo, ciccioso, senza un pelo, le mani insaponate e con un fervido turbante di spuma in capo. - Oh scusi! - esclamò. - Credevo che fosse la serva... Abbia pazienza mi trova cosi... Adriana! Terenzio! E subito, via! Vedi che c'è qua un signore.. Abbia pazienza un momentino; favorisca... Che cosa desidera? - S'affitta qua una camera mobiliata? - Sissignore. Ecco mia figlia: parlerà con lei. Sù, Adriana, la camera! Apparve, tutta confusa, una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli, dolci e mesti, come tutto il volto. Adriana, come me! « Oh, guarda un po'! » pensai. « Neanche a farlo apposta! - Ma Terenzio dov'è? - domandò l'uomo dal turbante di spuma. - Oh Dio, papà, sai bene che è a Napoli, da jeri. Ritìrati! Se ti vedessi... - gli rispose la signorinetta mortificata, con una vocina tenera che, pur nella lieve irritazione, esprimeva la mitezza dell'indole. Quegli si ritirò, ripetendo: - Ah già! ah già! -, strascicando le ciabatte e seguitando a insaponarsi il capo calvo e anche il grigio barbone. Non potei fare a meno di sorridere, ma benevolmente, per non mortificare di più la figliuola. Ella socchiuse gli occhi, come per non vedere il mio sorriso. Mi parve dapprima una ragazzetta; poi, osservando bene l'espressione del volto, m'accorsi ch'era già donna e che doveva perciò portare, se vogliamo, quella veste da camera che la rendeva un po' goffa, non adattandosi al corpo e alle fattezze di lei così piccolina. Vestiva di mezzo lutto. Parlando pianissimo e sfuggendo di guardarmi (chi sa che impressione le feci in prima!), m'introdusse, attraverso un corridojo bujo, nella camera che dovevo prendere in affitto. Aperto l'uscio, mi sentii allargare il petto, all'aria, alla luce che entravano per due ampie finestre prospicienti il fiume. Si vedeva in fondo in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant'Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest'altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi. In grazia di quella spaziosa veduta presi in affitto la camera, che era per altro addobbata con graziosa semplicità, di tappezzeria chiara, bianca e celeste. - Questo terrazzino qui accanto, - volle dirmi la ragazzetta in veste da camera, - appartiene pure a noi, almeno per ora. Lo butteranno giù, dicono, perché fa aggetto. - Fa... che cosa? - Aggetto: non si dice così? Ma ci vorrà tempo prima che sia finito il Lungotevere. Sentendola parlare piano, con tanta serietà, vestita a quel modo, sorrisi e dissi: - Ah sì? Se ne offese. Chinò gli occhi e si strinse un po' il labbro tra i denti. Per farle piacere, allora, le parlai anch'io con gravità: - E scusi, signorina: non ci sono bambini, è vero, in casa? Scosse il capo senza aprir bocca. Forse nella mia domanda sentì ancora un sapor d'ironia, ch'io però non avevo voluto metterci. Avevo detto bambini e non bambine. Mi affrettai a riparare un'altra volta. - E... dica, signorina: loro non affittano altre camere, è vero? - Questa è la migliore, - mi rispose, senza guardarmi. - Se non le accomoda... - No no... Domandavo per sapere se... - Ne affittiamo un'altra, - disse allora ella, alzando gli occhi con aria d'indifferenza forzata. - Di là, posta sul davanti... su la via. E occupata da una signorina che sta con noi ormai da due anni: dà lezioni di pianoforte... non in casa. Accennò, così dicendo, un sorriso lieve lieve, e mesto. Aggiunse: - Siamo io, il babbo e mio cognato... - Paleari? - No: Paleari è il babbo; mio cognato si chiama Terenzio Papiano. Deve però andar via, col fratello che per ora sta anche lui qua con noi. Mia sorella è morta... da sei mesi. Per cangiar discorso, le domandai che pigione avrei dovuto pagare; ci accordammo subito; le domandai anche se bisognava lasciare una caparra. - Faccia lei, - mi rispose. - Se vuole piuttosto lasciare il nome... Mi tastai in petto, sorridendo nervosamente, e dissi: - Non ho... non ho neppure un biglietto da visita... Mi chiamo Adriano, sì, appunto: ho sentito che si chiama Adriana anche lei, signorina. Forse le farà dispiacere... - Ma no! Perché? - fece lei, notando evidentemente il mio curioso imbarazzo e ridendo questa volta come una vera bambina. Risi anch'io e soggiunsi: - E allora, se non le dispiace, mi chiamo Adriano Meis: ecco fatto! Potrei alloggiare qua stasera stessa? O tornerò meglio domattina... Ella mi rispose: - Come vuole, - ma io me ne andai con l'impressione che le avrei fatto un gran piacere se non fossi più tornato. Avevo osato nientemeno di non tenere nella debita considerazione quella sua veste da camera. Potei vedere però e toccar con mano, pochi giorni dopo, che la povera fanciulla doveva proprio portarla, quella veste da camera, di cui ben volentieri, forse, avrebbe fatto a meno. Tutto il peso della casa era su le sue spalle, e guaj se non ci fosse stata lei! Il padre, Anselmo Paleari, quel vecchio che mi era venuto innanzi con un turbante di spuma in capo, aveva pure così, come di spuma, il cervello. Lo stesso giorno che entrai in casa sua, mi si presentò, non tanto - disse - per rifarmi le scuse del modo poco decente in cui mi era apparso la prima volta, quanto per il piacere di far la mia conoscenza, avendo io l'aspetto d'uno studioso o d'un artista, forse: - Sbaglio? - Sbaglia. Artista... per niente ! studioso... così così... Mi piace leggere qualche libro. - Oh, ne ha di buoni! - fece lui, guardando i dorsi di quei pochi che avevo già disposti sul palchetto della scrivania. - Poi, qualche altro giorno, le mostrerò i miei, eh? Ne ho di buoni anch'io. Mah! E scrollò le spalle e rimase lì, astratto, con gli occhi invagati, evidentemente senza ricordarsi più di nulla, né dov'era né con chi era; ripeté altre due volte: - Mah!... Mah!, - con gli angoli della bocca contratti in giù, e mi voltò le spalle per andarsene, senza salutarmi. Ne provai, lì per lì, una certa meraviglia; ma poi, quando egli nella sua camera mi mostrò i libri, come aveva promesso, non solo quella piccola distrazione di mente mi spiegai, ma anche tant'altre cose. Quei libri recavano titoli di questo genere: La Mort et l'au-delà - L'homme et ses corps - Les sept principes de l'homme - Karma - La clef de la Théosophie - A B C de la Théosophie - La doctrine secrète - Le Plan Astral - ecc., ecc. Era ascritto alla scuola teosofica il signor Anselmo Paleari. Lo avevano messo a riposo, da caposezione in non so qual Ministero, prima del tempo, e lo avevano rovinato, non solo finanziariamente, ma anche perché libero e padrone del suo tempo, egli si era adesso sprofondato tutto ne' suoi fantastici studii e nelle sue nuvolose meditazioni, astraendosi più che mai dalla vita materiale. Per lo meno mezza la sua pensione doveva andarsene nell'acquisto di quei libri. Già se n'era fatta una piccola biblioteca. La dottrina teosofica però non doveva soddisfarlo interamente. Certo il tarlo della critica lo rodeva, perché, accanto a quei libri di teosofia, aveva anche una ricca collezione di saggi e di studii filosofici antichi e moderni e libri d'indagine scientifica. In questi ultimi tempi si era dato anche a gli esperimenti spiritici. Aveva scoperto nella signorina Silvia Caporale, maestra di pianoforte, sua inquilina, straordinarie facoltà medianiche, non ancora bene sviluppate, per dire la verità, ma che si sarebbero senza dubbio sviluppate, col tempo e con l'esercizio, fino a rivelarsi superiori a quelle di tutti i medium più celebrati. Io, per conto mio, posso attestare di non aver mai veduto in urla faccia volgarmente brutta, da maschera carnevalesca, un pajo d'occhi più dolenti di quelli della signorina Silvia Caporale. Eran nerissimi, intensi, ovati, e davan l'impressione che dovessero aver dietro un contrappeso di piombo, come quelli delle bambole automatiche. La signorina Silvia Caporale aveva più di quarant'anni e anche un bel pajo di baffi, sotto il naso a pallottola sempre acceso. Seppi di poi che questa povera donna era arrabbiata d'amore, e beveva; si sapeva brutta, ormai vecchia e, per disperazione, beveva. Certe sere si riduceva in casa in uno stato veramente deplorevole: col cappellino a sghimbescio, la pallottola del naso rossa come una carota e gli occhi semichiusi, più dolenti che mai. Si buttava sul letto, e subito tutto il vino bevuto le riveniva fuori trasformato in un infinito torrente di lagrime. Toccava allora alla povera piccola mammina in veste da camera vegliarla, confortarla fino a tarda notte: ne aveva pietà, pietà che vinceva la nausea: la sapeva sola al mondo e infelicissima, con quella rabbia in corpo che le faceva odiar la vita, a cui già due volte aveva attentato; la induceva pian piano a prometterle che sarebbe stata buona che non l'avrebbe fatto più; e sissignori, il giorno appresso se la vedeva comparire tutta infronzolata e con certe mossette da scimmia, trasformata di punto in bianco in bambina ingenua e capricciosa. Le poche lire che le avveniva di guadagnare di tanto in tanto facendo provar le canzonette a qualche attrice esordiente di caffè-concerto, se n'andavano così o per bere o per infronzolarsi, ed ella non pagava né l'affitto della camera né quel po' che le davano da mangiare là in famiglia. Ma non si poteva mandar via. Come avrebbe fatto il signor Anselmo Paleari per i suoi esperimenti spiritici? C'era in fondo, però, un'altra ragione. La signorina Caporale, due anni avanti, alla morte della madre, aveva smesso casa e, venendo a viver lì dai Paleari, aveva affidato circa sei mila lire, ricavate dalla vendita dei mobili, a Terenzio Papiano, per un negozio che questi le aveva proposto, sicurissimo e lucroso: le sei mila lire erano sparite. Quando ella stessa, la signorina Caporale, lagrimando, mi fece questa confessione, io potei scusare in qualche modo il signor Anselmo Paleari, il quale per quella sua follia soltanto m'era parso dapprima che tenesse una donna di tal risma a contatto della propria figliuola. E' vero che per la piccola Adriana, che si dimostrava così istintivamente buona e anzi troppo savia, non v'era forse da temere: ella infatti più che d'altro si sentiva offesa nell'anima da quelle pratiche misteriose del padre, da quell'evocazione di spiriti per mezzo della signorina Caporale. Era religiosa la piccola Adriana. Me ne accorsi fin dai primi giorni per via di un'acquasantiera di vetro azzurro appesa a muro sopra il tavolino da notte, accanto al mio letto. M'ero coricato con la sigaretta in bocca, ancora accesa, e m'ero messo a leggere uno di quei libri del Paleari; distratto, avevo poi posato il mozzicone spento in quell'acquasantiera. Il giorno dopo, essa non c'era più. Sul tavolino da notte, invece, c'era un portacenere. Volli domandarle se la avesse tolta lei dal muro; ed ella, arrossendo leggermente, mi rispose: - Scusi tanto, m'è parso che le bisognasse piuttosto un portacenere. - Ma c'era acqua benedetta nell'acquasantiera? - C'era. Abbiamo qui dirimpetto la chiesa di San Rocco... E se n'andò. Mi voleva dunque santo quella minuscola mammina, se al fonte di San Rocco aveva attinto l'acqua benedetta anche per la mia acquasantiera? Per la mia e per la sua, certamente. Il padre non doveva usarne. E nell'acquasantiera della signorina Caporale, seppure ne aveva, vin santo, piuttosto. Ogni minimo che - sospeso come già da un pezzo mi sentivo in un vuoto strano - mi faceva ora cadere in lunghe riflessioni. Questo dell'acquasantiera m'indusse a pensare che, fin da ragazzo, io non avevo più atteso a pratiche religiose, né ero più entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi vi conduceva insieme con Berto, per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a me stesso se avessi veramente una fede. E Mattia Pascal era morto di mala morte senza conforti religiosi. Improvvisamente, mi vidi in una condizione assai speciosa. Per tutti quelli che mi conoscevano, io mi ero tolto - bene o male - il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte. Chi sa quanti, a Miragno, dicevano: - Beato lui, alla fine! Comunque sia, ha risolto il problema. E non avevo risolto nulla, io, intanto. Mi trovavo ora coi libri d'Anselmo Paleari tra le mani, e questi libri m'insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione, nei « gusci » del Kâmaloka, specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral (premier degré du monde invisible, d'après la théosophie), raffigura come eccitati da ogni sorta d'appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch'essi però ignorano d'aver perduto. « Oh, guarda un po', » pensavo, « ch'io quasi quasi potrei credere che mi sia davvero affogato nel molino della Stìa e che intanto mi illuda di vivere ancora. » Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s'attaccò. Non che credessi veramente di esser morto: non sarebbe stato un gran male, giacché il forte è morire, e, appena morti, non credo che si possa avere il tristo desiderio di ritornare in vita. Mi accorsi tutt'a un tratto che dovevo proprio morire ancora: ecco il male! Chi se ne ricordava più? Dopo il mio suicidio alla Stìa, io naturalmente non avevo veduto più altro, innanzi a me, che la vita. Ed ecco qua, ora: il signor Anselmo Paleari mi metteva innanzi di continuo l'ombra della morte. Non sapeva più parlar d'altro, questo benedett'uomo! Ne parlava però con tanto fervore e gli scappavan fuori di tratto in tratto, nella foga del discorso, certe immagini e certe espressioni così singolari, che, ascoltandolo, mi passava subito la voglia di cavarmelo d'attorno e d'andarmene ad abitare altrove. Del resto, la dottrina e la fede del signor Paleari, tuttoché mi sembrassero talvolta puerili, erano in fondo confortanti; e, poiché purtroppo mi s'era affacciata l'idea che, un giorno o l'altro, io dovevo pur morire sul serio, non mi dispiaceva di sentirne parlare a quel modo. - C'è logica? - mi domandò egli un giorno, dopo avermi letto un passo di un libro del Finot, pieno d'una filosofia così sentimentalmente macabra, che pareva il sogno d'un becchino morfinomane, su la vita nientemeno dei vermi nati dalla decomposizione del corpo umano. - C'è logica? Materia, sì materia: ammettiamo che tutto sia materia. Ma c'è forma e forma, modo e modo, qualità e qualità: c'è il sasso e l'etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo, c'è l'unghia, il dente, il pelo, e c'è perbacco il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia anch'essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l'unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l'etere, o che so io. L'etere, sì, l'ammettete come ipotesi, e l'anima no? C'è logica? Materia, sissignore. Segua il mio ragionamento, e veda un po' dove arrivo, concedendo tutto. Veniamo alla Natura. Noi consideriamo adesso l'uomo come l'erede di una serie innumerevole di generazioni, è vero? come il prodotto di una elaborazione ben lenta della Natura. Lei, caro signor Meis, ritiene che sia una bestia anch'esso, crudelissima bestia e, nel suo insieme, ben poco pregevole? Concedo anche questo, e dico: sta bene, l'uomo rappresenta nella scala degli esseri un gradino non molto elevato; dal verme all'uomo poniamo otto, poniamo sette, poniamo cinque gradini. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all'uomo; s'è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia, signor Meis, e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt'a un tratto, pàffete, torna zero? C'è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l'anima mia, per bacco! materia anch'essa, sissignore, chi vi dice di no? ma non come il mio naso o come il mio piede. C'è logica? - Scusi, signor Paleari, - gli obbiettai io, - un grand'uomo passeggia, cade, batte la testa, diventa scemo. Dov'è l'anima? Il signor Anselmo restò un tratto a guardare, come se improvvisamente gli fosse caduto un macigno innanzi ai piedi. - Dov'è l'anima? - Sì, lei o io, io che non sono un grand'uomo, ma che pure... via, ragiono: passeggio, cado, batto la testa, divento scemo. Dov'è l'anima? Il Paleari giunse le mani e, con espressione di benigno compatimento, mi rispose: - Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis? - Per un'ipotesi... - Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente. Prendiamo i vecchi che, senza bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi. Ebbene, che vuol dire? Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l'anima, per dimostrar così che l'estinzione dell'uno importi l'estinzione dell'altra? Ma scusi! Immagini un po' il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell'anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi come per esempio Sua Santità Leone XIII! E dunque? Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore? - Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l'anima? - Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza l'anima s'appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento, pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un'altra questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là? E' un fatto, questo, un fatto, una prova reale. - Dicono: l'istinto della conservazione... - Ma nossignore, perché me n'infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla; ma se mi provano, perdiana, che - dopo averla sopportata per altri cinque o sei o dieci anni - io non avrò pagato lo scotto in qualche modo, e che tutto finirà lì ma io la butto via oggi stesso, in questo stesso momento: e dov'è allora l'istinto della conservazione? Mi conservo unicamente perché sento che non può finire cosi! Ma altro è l'uomo singolo, dicono, altro è l'umanità. L'individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un po'! Come se l'umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant'anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l'umanità? Ma se l'umanità anch'essa un giorno dovrà finire? Pensi un po': e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente? E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste... Guarigione dell'astro, è vero? come ha detto lei l'altro giorno. Va bene: guarigione; ma bisogna vedere in che senso. Il male della scienza, guardi, signor Meis, è tutto qui: che vuole occuparsi della vita soltanto. - Eh, - sospirai io, sorridendo, - poiché dobbiamo vivere... - Ma dobbiamo anche morire! - ribatté il Paleari. - Capisco; perché però pensarci tanto? - Perché? ma perché non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte. - Col bujo che ci fa? - Bujo? Bujo per lei! Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l'olio puro dell'anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi, con tutta la luce elettrica che abbiamo inventato! Sta bene, benissimo, per la vita, la lampadina elettrica; ma noi, caro signor Meis, abbiamo anche bisogno di quell'altra che ci faccia un po' di luce per la morte. Guardi, io provo anche, certe sere, ad accendere un certo lanternino col vetro rosso; bisogna ingegnarsi in tutti i modi, tentar comunque di vedere. Per ora, mio genero Terenzio è a Napoli. Tornerà fra qualche mese, e allora la inviterò ad assistere a qualche nostra modesta sedutina, se vuole. E chi sa che quel lanternino... Basta, non voglio dirle altro. Come si vede, non era molto piacevole la compagnia di Anselmo Paleari. Ma, pensandoci bene potevo io senza rischio, o meglio, senza vedermi costretto a mentire, aspirare a qualche altra compagnia men lontana dalla vita? Mi ricordavo ancora del cavalier Tito Lenzi. Il signor Paleari invece non si curava di saper nulla di me, pago dell'attenzione ch'io prestavo a' suoi discorsi. Quasi ogni mattina, dopo la consueta abluzione di tutto il corpo, mi accompagnava nelle mie passeggiate; andavamo o sul Gianicolo o su l'Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte. « Ed ecco che bel guadagno ho fatto io, » pensavo, « a non esser morto davvero! » Tentavo qualche volta di trarlo a parlar d'altro; ma pareva che il signor Paleari non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno; camminava quasi sempre col cappello in mano; a un certo punto, lo alzava come per salutar qualche ombra ed esclamava: - Sciocchezze! Una sola volta mi rivolse, all'improvviso, una domanda particolare: - Perché sta a Roma lei, signor Meis? Mi strinsi ne le spalle e gli risposi: - Perché mi piace di starci... - Eppure è una città triste, - osservò egli, scotendo il capo. - Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea viva vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. - Morta anche Roma? - esclamai, costernato. - Da gran tempo, signor Meis! Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri cosi spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un'altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? Guardi, signor Meis. Mia figlia Adriana mi ha detto dell'acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse dalla camera, quell'acquasantiera; ma, l'altro giorno, le cadde di mano e si ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, su la mia scrivania, adibita all'uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l'identico. I papi ne avevano fatto - a modo loro, s'intende - un'acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D'ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell'amaro e velenoso piacere che essa ci dà.

 

capitulo 10 - La pila del agua bendita y el cenicero A los pocos días estaba ya en Roma, con intenciones de plantar allí mis reales. ¿Por qué en Roma y no en otro sitio? La verdadera razón la veo ahora, después de todas las cosas que me han ocurrido; sólo que me la callo, por no echar a perder mi relato con reflexiones que en esta sazón serían inoportunas. Opté entonces por Roma, ante todo, porque me gustó más que ciudad alguna, y, además, por parecerme la más a propósito para alojar, entre tanto extranjero, otro extranjero como yo. La búsqueda de la casa, es decir, de un cuartito decente, en una calle tranquila, con una familia discreta, me costó no pocos pasos. Hasta que, por último, la encontré en la calle Ripetta, con vistas al río. A decir verdad, la primera impresión que me hizo la familia que había de hospedarme fue muy poco grata; tanto, que, de vuelta a la fonda, permanecí largo rato perplejo, pensando si no me convendría irme de allí. Encima de la puerta, en el cuarto piso, campeaban dos rótulos, en uno de los cuales se leía: PALEARI, y en el otro, PAPIANO. Por debajo de este último veíase una tarjeta de visita, sujeta con dos tachuelas, y en la cual se leía: SILVIA CAPORALE. Salió a abrirme un viejecito de más de sesenta anos —¿Paleari? ¿Papiano?—, en calzones blancos con los pies descalzos, metidos en unas zapatillas que eran una lástima; desnudo el sonrosado torso; calvo completamente, sin un pelo siquiera; con las manos llenas de jabón y un hervoroso turbante de espuma en la cabeza. —¡Oh! ¡Usted dispense! —exclamó—. Creía que era mi hija... Disimule que haya salido así... ¡Adriana! ¡Tirencio! ¡Pronto, aquí, que hay un caballero! ... Aguarde un momento; haga el favor de aguardar... ¿Qué era lo que deseaba usted? —¿No es aquí donde se alquila una habitación amueblada? Sí, señor. Mire usted: aquí está ya mi hija. Entiéndase usted con ella. ¡Adriana, que vienen por la habitación! Dejóse ver en aquel momento, toda confusa, una muchachita muy bajita, rubia, pálida, con ojos azules llenos de dulzura y tristeza, como la cara toda. —¡Adriana, como yo! ¡Hay que ver! —díjeme para mí—. ¡Ni buscada de encargo! —Pero ¿y Terencio, dónde anda? —preguntó el tío del turbante de espuma. —¡Por Dios, papá! ¿No sabes que se fue ayer a Nápoles? ¡Retírate, hombre; métete dentro! ¡Si te vieses!... —respondióle la señorita, mortificada, con una vocecita muy tierna, que, aun enojada como parecía, dejaba traslucir su buena pasta. Retiróse el viejo, repitiendo: “¡Ah, ya! ¡Ah, ya!”, chancleando y sin parar de enjabonarse la calva cabeza y también la barba canosa. No pude menos de sonreírme, aunque benévolamente, por no mortificar a la hija. Esta entornó los ojos, como por no ver mi sonrisa. Primero, parecióme una niña; luego, reparando en la expresión de su semblante, comprendí que era ya mujer, y que por eso llevaría aquel vestido largo, que, por no ceñírsela al cuerpo ni a sus formas, tan menuditas, la embastecía. Vestía alivio de luto. Hablando muy bajito y esquivando mi mirada —¡Dios sabe qué impresión le haría yo a lo primero!—, condújome, por un corredor oscuro, a la habitación que se alquilaba. No bien abrió la puerta, sentí que se me ensanchaba el pecho ante el aire y la luz que entraban por dos grandes ventanas que daban vista al río. Allá, en el fondo, veíase el Monte Mario, el Ponte Margherita y todo el barrio nuevo de Prati, hasta el castillo de Sant’Angelo; dominábase el antiguo puente de Ripetta y el nuevo que, al lado, estaban levantando; más allá, el puente Umberto y todo el viejo caserío de Tordinona, que seguía la amplia curva del río; al fondo, por esta otra parte, divisábanse las verdes alturas del Janículo, con la gran fuente de San Pedro en Montorio y la estatua ecuestre de Garibaldi. En atención a aquel espacioso panorama, alquilé el cuarto, que estaba revestido, por cierto, con graciosa sencillez, de un papel claro, blanco y celeste. —Esta azoteíta que ve usted —díjome la niñita vestida de largo—, también es nuestra; por lo menos, ahora, pues, según dicen, piensan derribarla, porque hace saliente... —¿Qué hace? —Saliente. ¿No se dice así? Ahora, que va para largo, porque antes han de terminar el Lungotevere. Al oírla hablar tan bajito, con tanta seriedad y vestida de aquella guisa, sonreí, y dije: —¡Ah! ... ¿Sí? Ella dióse por ofendida. Bajó los ojos y se mordió los labios. Pero yo entonces, por contenerla, adopté también un tono serio: —Usted dispense, señorita. Pero no habrá niños en casa, ¿verdad? Movió ella la cabeza, sin despegar los labios. Acaso en mis palabras viese ribetes de ironía, siendo así que no había tenido yo esa intención, pues dije niños y no niñas. Así que apresuréme a reparar de nuevo aquel agravio. —Y dígame usted, señorita: supongo que no alquilarán más habitaciones, ¿verdad? —Esta es la mejor de la casa —respondióme, sin mirarme—. Ahora, si no le gusta... —No lo decía por eso... Se lo preguntaba por saber si... —Alquilamos también otra —díjome mi tocaya, alzando los ojos con aire de postiza indiferencia—. La otra de fuera.... que da a la calle. La tiene alquilada una señorita, que lleva ya con nosotros dos años; da lecciones de piano.... pero no en casa. Esbozó, al decir esto, una ligerísima sonrisa, algo triste. Y añadió: —En casa somos el abuelo y mi cuñado... —¿Paleari? —No; Paleari es el abuelo; mi cuñado se llama Terencio Papiano... Pero tendrá que irse de aquí con su hermano, que ahora vive también con nosotros. Mi hermanita se nos murió... hará seis meses. Por desviar la conversación, preguntéle el importe del alquiler, no tardando en ponernos de acuerdo. Preguntéle después si quería que le dejase señal, y respondióme: —Como usted guste. Aunque, si no, con dejar su tarjeta... Llevéme la mano al pecho, sonriendo nerviosamente, y dije: —El caso es que.... que..., que no me queda ni una tarjeta... Yo me llamo Adriano, eso es; lo mismo que usted, ¿no es verdad, señorita? Puede que no le haga a usted gracia... —¡Que no! Y ¿por qué? —exclamó ella, reparando, sin duda, en mi extraña cortedad, y echándose a reír, ahora como una verdadera chiquilla. Reíme yo también, y añadí: —Bueno; pues si no lo lleva usted a mal, mi nombre es Adriano Meis. Y ahora, dígame usted: ¿podría dormir esta noche misma aquí, o será mejor que vuelva mañana?... Mi tocaya respondióme: —Como usted guste. Pero yo salí de la casa convencido de que le hubiera hecho un gran favor no volviendo a aportar por allí. ¡Ahí era nada lo que le había hecho! ¡No guardarle la consideración debida a su falda larga! Sin embargo, a los pocos días pude convencerme de que la pobre muchacha no tenía más remedio que llevar aquel vestido, del cual con mucho gusto acaso se hubiera deshecho. ¡Todo el peso de la casa gravitaba sobre sus hombros! ¡Ay, si no hubiera sido por ella! El padre, Anselmo Paleari, aquel viejecillo que había salido a abrirme con un turbante de espuma en la cabeza, tenía también de espuma el cerebro. El mismo día de plantar yo mis reales en la casa, presentóseme, no tanto, según me dijo, con objeto de repetirme que le dispensase por el modo tan poco decente como se me había mostrado la primera vez, cuanto por el gusto de hablar conmigo, pues parecía enteramente un erudito o un artista. —¿No estoy en lo cierto? —No, señor; no lo está usted. Artista..., ni por asomo. Erudito..., así, así... Me gusta un poco la lectura; pero nada más. —¡Como que tiene usted muy buenos libros! —exclamó él, pasando revista a los lomos de los, muy pocos por cierto, que ya había yo colocado encima de la mesa—. Un día de éstos le enseñaré los míos. Que también los tengo buenos, no vaya usted a creerse. ¡Vaya! Y, encogiéndose de hombros, quedóse allí plantado, con la mirada perdida en el vacío, olvidado, indudablemente, de todo, incluso de dónde estaba y con quién. Repitió otras dos veces: “¡Vaya! ... ¡Vaya!”, frunciendo hacia abajo la comisura de los labios, y, dando media vuelta, fuese, sin despedirse. Aquel talante suyo hubo de causarme cierta maravilla; pero luego, cuando me enseñó un día sus libros, según me prometiera, expliquéme, no sólo aquellas distracciones suyas, sino también todo lo demás. Los tales libros ostentaban títulos de este jaez: La mort et l’au delá, LHome et ses corps, Les sept príncipes de I’homme, Karma, La clef de la Theosophie, A B C de la Theosophie, La doctrine secrete, Le plan astral, etc., etc... El señor don Anselmo Paleari era un adepto de la escuela teosófica. Habíanlo jubilado, antes de tiempo, de jefe de negociado en no sé qué Ministerio, con lo que habíanlo arruinado, no sólo hiriéndole en sus intereses, sino también dejándole ocio y vagar para que se engolfase a placer en sus fantásticos estudios y nebulosas meditaciones, abstrayéndose cada vez más de la vida de la materia. La mitad, por lo menos, de su jubilación debía de írsele en comprar aquellos libros. Había reunido ya una bibliotequita. Pero, a la cuenta, no debía satisfacerle del todo la doctrina teosófica. Sin duda, roíale el espíritu la carcoma de la duda, pues junto a aquellos libros teosóficos tenía también una copiosa colección de ensayos y estudios filosóficos, antiguos y modernos, y libros de investigación científica. En aquellos últimos tiempos habíase dedicado también a experimentos de espiritismo. A la señorita Silvia Caporale, profesora de piano, su inquilina, habíale descubierto extraordinarias facultades de médium, no bien desarrolladas todavía, a decir verdad, pero que, sin duda, se desarrollarían con el tiempo y la práctica, hasta revelarse superiores a las de los médiums más famosos. Yo, por mí, puedo certificar no haber visto nunca en una cara tan fea y vulgar, de máscara carnavalesca, un par de ojos más tristes que los de la señorita Silvia Caporale. Eran unos ojos negrísimos, intensos, ahuevados, y daban la impresión como si dentro tuviesen un contrapeso de plomo, cual los de las muñecas automáticas. Tenía la señorita Silvia Caporale más de cuarenta años, y también un hermoso bigote, por debajo de la nariz, en forma de bola, siempre colorada. Más tarde hube de saber que la pobre solterona estaba enberrenchinada por los amores, y empinaba el codo; no se le ocultaba que era fea y vieja ya, y se daba a la bebida de puro desesperada. Algunas noches volvía a casa en un estado verdaderamente deplorable: con el sombrerillo ladeado, la bola de la nariz encarnada como una remolacha y los ojos entornados y más tristes que nunca. Tendíase en la cama, y al punto echaba fuera cuanto vino había bebido, convertida en un mar de llanto. La pobre de Adriana, como una mamaíta vestida de largo, iba a consolarla y se estaba con ella hasta muy entrada la noche; teníale una lástima que podía más que el asco; sabía que estaba la pobre sola en el mundo, y que era muy desgraciada, con aquel berrenchín dentro del cuerpo, que le hacía odiar la vida, que por dos veces intentara quitarse. Mi tocaya la exhortaba con hábiles palabras, hasta que la arrancaba la promesa de ser buena en adelante y no volver a las andadas; y, efectivamente, al día siguiente la veíamos llegar muy peripuesto y adornada y con ademanes y gestos de niña ingenua y caprichosa. Las contadas liras que cogía alguna vez, en pago de enseñarle canciones a alguna artista incipiente de café—concierto, gastábaselas en vino o en perifollos; de suerte que no pagaba la habitación ni su comida en familia. Pero no era posible echarla. Porque ¿cómo se hubiera arreglado sin ella el señor don Anselmo Paleari para sus experimentos de espiritismo? Aunque había, en el fondo, otra razón. La señorita de Caporale, dos años antes, a raíz de morírsele la madre, levantó la casa y se vino a vivir con los Paleari , entregándole unas seis mil liras, que sacara de la venta del moblaje, a Terencio Papiano, para que las empleara en un negocio que éste habíale propuesto, muy productivo y saneado; y las seis mil liras no se habían vuelto a ver Cuando la propia señorita de Caporale, lloriqueando, me hizo esta confesión, yo disculpé en cierto modo al señor Paleari , que a lo primero pensaba yo que sólo por lo chiflado que estaba podía consentir en tener en su casa a una mujer de tal calaña conviviendo con su hija. Cierto que la cosa no era de temer por Adrianita, que daba señales de ser, instintivamente, muy buena, y hasta demasiado juiciosa y sensata, pues era la primera en dolerse y sentirse ofendida de que el padre se entregase a aquellas prácticas misteriosas de invocar a los espíritus por mediación de la señorita de Caporale. Tenía Adrianita un fondo religioso. Lo noté desde el primer día, con sólo fijarme en una pila de agua bendita, de cristal azul, que había colgada de la pared, encima de la mesilla de noche, al lado de mi cama. Yo me acosté con el cigarrillo todavía encendido en la boca, y me puse a leer uno de aquellos libracos del abuelo; y, distraído, hube de tirar la colilla en la pila del agua bendita. Al otro día ya había volado de allí la pila, y en su lugar habíanme puesto, encima de la mesilla de noche, un cenicero. Preguntéle a Adriana si era ella quien había descolgado y llevádose la pila del agua bendita; y la joven, con algo de rubor, repúsome: —Sí, señor. Usted dispense; pero creí que lo que le hacía más falta a usted era un cenicero. —Pero ¿tenía agua bendita? —¡Claro! ¡Como que tenemos enfrente la iglesia de San Roque! ... Y se fue. ¿Me tendría quizá por beato aquella minúscula mamaíta, cuando había ido a la fuente de San Roque por agua bendita para ella y para mí? Para ella y para mí seguramente; porque su padre no debería de usarla. Y cuanto a la señorita de Caporale, a ésa, si algo había que echarle en la pila del agua bendita, no era agua, ¡sino vino! La menor cosa —pendiente de un cabello como me sentía yo de algún tiempo a aquella parte inducíame a largas reflexiones. Aquel pormenor de la pila del agua bendita hízome recordar que desde que era un niño no había vuelto a observar las prácticas religiosas ni puesto nunca los pies en una iglesia, luego que se nos acabó el pobre de Pinzone, que algunas veces nos llevaba a misa a Berto y a mí por encargo de nuestra madre. Jamás había sentido la necesidad de preguntarme a mí mismo si verdaderamente creía en algo. Y Matías Pascal había muerto de mala manera, sin Sacramentos. De pronto hube de verme en una situación bastante peregrina. Para cuantos conocíanme, yo me había quitado de encima, bien o mal, el pensamiento más enojoso y aflictivo que torturarnos puede: el de la muerte: ¡Quién sabe cuántos en mi pueblo no dirían!: “¡Dichoso él, que, después de todo, ya resolvió su problema!”, —cuando, en realidad, no había resuelto nada. Encontrábame ahora con los libros de Anselmo Paleari en las manos, y estos libros me decían que los muertos, los de verdad, se hallaban en mi misma situación, en las «envolturas» del Kamaloka, sobre todo los suicidas, a los que el señor Leadbeater, autor del Plan Astral —primer grado del mundo invisible, según la Teosofía—, nos pinta como acuciados de toda suerte de apetitos humanos, que no pueden satisfacer, faltos, como se hallan, del cuerpo físico, que creen conservar todavía. “¡Es notable! —pensaba yo—. ¡Como que pudiera ser que fuera verdad que me había ahogado en el molino de La Cabaña y me esté haciendo la ilusión de seguir todavía en el mundo!” Sabido es que ciertas especies de locura son contagiosas. Y la de Paleari hubo de —pegárseme a mí con todo y haberme rebelado contra ella al principio. No es que yo me creyese de verdad que me había muerto, lo que no hubiera sido un gran mal, ya que es fuerte cosa morir, y luego de muerto no creo que a nadie le queden ganas de volver a la vida. De pronto caí en la cuenta de que todavía tenía que morirme. ¡Eso era lo malo! ¿Quién se acordaba ya de tal cosa? A raíz de mi suicidio en La Cabaña, yo no había visto delante de mí más que a la vida. Y he aquí que ahora salía el señor Paleari poniéndome de continuo ante los ojos la sombra de la muerte. ¡El santo varón no atinaba a hablar de otra cosa! Eso sí, hablaba de la otra vida con tanto fervor y soltaba de cuando en cuando, en el ardor de sus razonamientos, ciertas imágenes y expresiones tan peregrinas, que, al oírlo, entrábanme ganas de quitarme el mal sabor de la boca e irme a vivir al otro barrio. Por lo demás, la doctrina y la fe del señor Paleari , con todo y parecerme pueriles en el fondo, tenían algo de consoladoras, y como, al fin y al cabo, habíaseme metido en la cabeza que tarde o temprano tendría que morirme de veras, no me desagradaba oírle expresarse en aquellos términos. —¿Hay lógica en el mundo? —preguntóme cierto día, después de haber leído unas páginas de un libro de Finot, henchidas de una filosofía tan sentimentalmente macabra, que parecía el sueño de un sepulturero morfinómano, nada menos que sobre la vida de los gusanos nacidos de la descomposición del cadáver—. ¿Hay lógica en el mundo? Materia, sí; materia. Demos de barato que todo sea materia; pero es que hay formas de formas y modos de modos y cualidades de cualidades; hay la piedra y hay el éter imponderable. En mi mismo cuerpo tengo uñas, y dientes, y pelo, y, ¡diantre!, el finísimo tejido ocular. Ahora bien, señor mío, ¿quién le dice a usted que no? Será materia, si usted quiere, lo que llamamos alma; sólo que convendrá usted conmigo en que esa materia no será como la de las uñas, los dientes o el pelo, sino algo así como el éter, o ¡sabe Dios! Al éter, si lo admite usted como hipótesis. ¿Y al alma, no? ¿Hay lógica en el mundo? Que todo es materia, bueno, sí, señor; pero tómese la molestia de seguir con atención mi razonamiento y ya verá usted adónde voy yo a parar con parecer que se lo concedo a usted todo. Vengamos a la Naturaleza. Nosotros consideramos actualmente al hombre como al descendiente de una serie innumerable de generaciones, ¿no es eso?; como el fruto de una elaboración lentísima de la Naturaleza. ¿Sostiene usted, mi querido señor Meis, que el hombre sea también un animal como los demás, mejor dicho, una fiera, y, en general, muy poco digno de alabanza? Pues también eso se lo concedo a usted; nada, que el hombre representa en la escala de los seres un peldaño no muy elevado; pongamos ocho, siete, cinco grados desde el gusano al hombre. Pero, ¡por los clavos de Cristo!, la Naturaleza ha tardado miles y miles de siglos en subir estos cinco peldaños desde el gusano al hombre; ha tenido que evolucionar, ¿no es eso?, esta materia para alcanzar como forma y como sustancia ese quinto grado, para convertirse en este animal que roba, en esta fiera que mata, en esta alimaña que echa mentiras; pero que, además, es capaz de escribir la Divina Comedia, señor Meis, y de sacrificarse como se sacrificaron por nosotros su madre de usted y la mía. ¿Y todo eso ha de quedar reducido a cero de golpe y porrazo? ¿Qué lógica es ésa? Se me convertirán en gusanos la nariz, el pie, pero no el alma; que será materia también, ¿quién se lo niega, señor mío?, pero no de la misma índole que la nariz o el pie. ¿Hablo con lógica? —Usted dispense, señor Paleari —le objetaba yo—. Pero fíjese: supongamos que un gran hombre, estando paseándose, tiene la desgracia de caerse y romperse la crisma y quedarse lelo. ¿Adónde va a parar su alma? El señor Paleari quedóseme mirando de hito en hito, como si de pronto le cayese a los pies un pedrusco. —¿Que adónde va a parar el alma? —Sí; y lo mismo si nos ocurre esa desgracia a usted o a mí, que, aunque no soy un gran hombre, sin embargo.... ¡vamos!, razono. Suponga usted que me caigo, me rompo la crisma y me quedo lelo. ¿Qué se ha hecho de mi alma? Paleari juntó las manos, y con expresión de benigna lástima, me repuso: —Pero, ¡Dios santo!, ¿por qué quiere usted caerse y romperse la crisma, querido señor Meis? —Es una hipótesis... —Pues no, señor; siga usted paseándose tranquilamente. Cojamos a los viejos que, sin necesidad de caerse ni romperse la crisma, se vuelven chochos. Bien; ¿qué quiere decir esto? ¿Tendría usted la pretensión de querer probarme, apoyándose en esa circunstancia, que al quebrantarse el cuerpo debilitase también el alma, y que la extinción del uno supone la extinción del otro? Pues, si es así, haga usted el favor de imaginarse el caso contrario; es decir, cuerpos en el colmo de la extenuación y en los cuales, sin embargo, refulge potentísima la luz del alma: Giacomo Leopardi y tantos ancianos, como, por ejemplo, Su Santidad León XIII, sin ir más lejos. ¿Qué dice usted a esto? Pero supóngase usted ahora un piano y un pianista, y que, al estarlo tocando, el piano, de pronto, desafina: no suena ya esta tecla, dos o tres cuerdas saltaron. Pues bien: naturalmente, con un instrumento tan estropeado, por fuerza ha de tocar mal el pianista, por más diestro que sea. Pero y si, por fin, el piano deja de ser, ¿será que no existe ya tampoco el pianista? —¿Quiere usted dar a entender que el cerebro es el piano y el alma el pianista? —Eso mismo, señor Meis. Y si el cerebro se estropea, por fuerza el alma ha de parecer mema o loca o qué sé yo. Lo cual quiere decir que si el pianista rompió, no por accidente, sino por inadvertencia o adrede, el instrumento, habrá de pagarlo. El que rompe paga; se paga todo, sí, señor; todo. Pero ésta es otra cuestión. Dispénseme usted; pero dígame: ¿no hace mella alguna en su ánimo ver que la Humanidad toda, hasta donde hay noticia de ella, alimentó siempre la aspiración a otra vida más allá? Este es un hecho, señor mío; un hecho, una prueba positiva. —Dicen que el instinto de conservación... —Pues no es así, para que usted se entere. Porque lo que es yo, me chincho, ¿sabe usted?, en esta vil pelleja que me envuelve. Me pesa, y si la soporto, es porque sé que debo soportarla; pero en probándome, ¡voto a Cristo!, que, después de haberla estado soportando por espacio de otros cinco o seis o diez años, aun no habré pagado mi escote de algún modo, y que todo ha de acabar aquí, pues, ¡nada!, que ya me la estoy arrancando. ¿Y quiere usted decirme dónde está, entonces, el instinto de la conservación? Yo sigo tirando únicamente porque siento que la cosa no puede parar en eso. Sólo que a esto salen diciéndome que una cosa es el individuo y otra la Humanidad. El individuo acaba, la especie sigue evolucionando. ¡Vaya un modo de discurrir! Fíjese, si no, un poco, señor Meis. ¡Como si usted, o el vecino de al lado, todos, en una palabra, no fuésemos la Humanidad! ¿Y no pensamos todos nosotros, allá en nuestro fuero interno, que sería el colmo del absurdo, la cosa más atroz, el que todo hubiera de reducirse a este mundo, a este mísero soplo de nuestra vida terrena: cincuenta, sesenta años de calamidades, sinsabores y luchas? Y todo, ¿por qué? ¡Pues por nada! ¡Por la Humanidad! Pero ¿y si la Humanidad no ha de ser tampoco eterna? Fíjese usted, señor Meis: ¿a qué habrán venido, entonces, toda esta vida, todo este progreso, toda esta evolución? ¿A nada?... Pero ¡si luego salen diciéndonos que la nada, la nada pura, no existe! ... La curación del planeta, como dijo usted el otro día, ¿verdad? Bueno: supongamos que sea la curación; sólo que hay que ver en qué sentido. Lo malo que tiene la ciencia, señor Meis, es eso precisamente: que no ve más allá de la vida... —¡Hombre! —suspiré yo, sonriendo—. Puesto que tenemos que vivir... —Pero ¡también tenemos que morir! —replicóme Paleari . —Conformes; pero ¿por qué pensar tanto en ello? —¿Que por qué? Pues porque no podemos atinar con el sentido de la vida, si de algún modo no nos explicamos también la muerte. El criterio director de nuestros actos, el hilo para salir de este laberinto, la luz, en suma, señor Meis, la luz hemos de recibirla de allá, de la muerte. —¿Con la oscuridad que allí reina? —¿Oscuridad? ¡La habrá para usted! Pero pruebe usted a encender una lamparilla de fe con el aceite puro del alma. En faltándonos esta lamparilla, no hacemos más que dar tumbos de acá para allá en esta vida, como ciegos, pese a toda la luz eléctrica que hemos inventado. Buena, bonísima resulta para la vida la luz eléctrica; pero nosotros, señor Meis, necesitamos también de esa otra lamparita que nos alumbra un poco las sombras de la muerte. Mire usted: yo muchas noches procuro encender también cierto farolillo de cristal color de rosa; no hay más remedio que ingeniarse por todos los modos posibles de echar el resto para intentar ver... Ahora se encuentra en Nápoles Terencio, mi yerno; pero dentro de unos meses estará de vuelta, y entonces yo le invitaré a usted a asistir, si quiere, a alguna de nuestras modestas sesiones. Y quién sabe si ese farolillo... Pero punto en boca, que por hoy ya le he dicho bastante. Como se ve, no era muy amena la compañía de Anselmo Paleari. Pero, bien mirado, ¿podía yo, sin correr peligro, o mejor dicho, sin verme en la precisión de mentir, aspirar a otra compañía menos alejada de la realidad? Todavía me acordaba del caballero Tito Lenzi. El señor Paleari, en cambio, contentábase con la atención que yo prestaba a sus razonamientos, sin sentir curiosidad por saber nada de mi persona. Casi todas las mañanas, después del consabido baño general, me acompañaba en mis paseos; y nos íbamos al Janículo, o al Aventino, o al Monte Mario, cuando no nos alargábamos hasta Ponte Nomentano, sin que se nos cayera de la boca el tema de la muerte: “¡Hay que ver —pensaba yo— lo que he salido ganando con no haberme muerto de veras!” A veces intentaba hacerle hablar de otras cosas; pero no parecía sino que el señor Paleari no tuviese ojos para el espectáculo de la vida que le rodeaba. Iba siempre sombrero en mano, y de pronto lo levantaba en alto, como saludando a una sombra, y exclamaba: “¡Chocheces!” Sólo una vez disparóme a boca de jarro esta preguntita: —Y usted ¿a qué ha venido a Roma, señor Meis? Yo me encogí de hombros, y le respondí: —Pues por el gusto de verla... —¡Con lo triste que es Roma! observó mi hombre, meneando la cabeza—. Son muchos los que se hacen cruces de que aquí no prospere ninguna empresa ni arraigue ninguna idea viva. Pero esos tales se maravillan de ello porque no quieren reconocer que Roma está muerta. —¿Muerta también Roma? —exclamé, consternado. —¡Y desde hace mucho tiempo, señor Meis! Y, créame usted, es inútil cuanto se haga por volverla a la vida. Encerrada en el sueño de su grandioso pasado, no quiere ya enterarse de esta menguada vida que se obstina en bullir a su alrededor. Cuando una ciudad ha tenido una vida como la de Roma, con caracteres tan marcados y particulares, ya no puede ser nunca una población moderna, esto es, una población como las demás. Roma yace ahí, con su gran corazón destrozado, a espaldas del Capitolio. ¿Son, por ventura, de Roma estas casas nuevas? Mire usted, señor Meis. Mi hija Adriana me contó lo de la pila del agua bendita que tenía usted en su cuarto; ¿se acuerda? Adriana se la quitó a usted de la cabecera de la cama; pues bien: el otro día se le cayó de las manos y se le quebró, quedando sólo la concha, que ahora tengo yo en mi cuarto, encima de la mesa escritorio, sirviéndome de ella para lo mismo que usted la primera noche, distraídamente, hizo de ella. Pues idéntico, señor Meis, es el destino de Roma. Los papas hicieron de ella —a su modo, ¡claro está! — una pila de agua bendita; nosotros los italianos la hemos convertido —a nuestro modo también— en un cenicero. De todas partes hemos venido aquí a echar en ella la colilla de nuestro cigarro, que es además el símbolo de la frivolidad de esta menguadísima vida y del amargo y ponzoñoso deleite que nos brinda.






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