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XIV: Le prodezze di Max
Apprensione? No. Neanche per ombra. Ma una viva curiosità mi teneva e anche un certo timore che Papiano stésse per fare una pessima figura. Avrei dovuto goderne; e, invece, no. Chi non prova pena, o piuttosto, un frigido avvilimento nell'assistere a una commedia mal rappresentata da comici inesperti? « Tra due sta, » pensavo: « o egli è molto abile, o l'ostinazione di tenersi accanto Adriana non gli fa veder bene dove si mette, lasciando il Bernaldez e Pepita, me e Adriana disillusi e perciò in grado d'accorgerci senza alcun gusto, senz'alcun compenso, della sua frode. Meglio di tutti se n'accorgerà Adriana che gli sta più vicina; ma lei già sospetta la frode e vi è preparata. Non potendo starmi accanto, forse in questo momento ella domanda a se stessa perché rimanga lì ad assistere a una farsa per lei non solamente insulsa, ma anche indegna e sacrilega. E Ia stessa domanda certo, dal canto loro, si rivolgono il Bernaldez e Pepita. Come mai Papiano non se ne rende conto, or che s'è visto fallire il colpo d'allogarmi accanto la Pantogada? Si fida dunque tanto della propria abilità? Stiamo a vedere. » Facendo queste riflessioni, io non pensavo affatto alla signorina Caporale. A un tratto, questa si mise a parlare, come in un leggero dormiveglia. - La catena, - disse, - la catena va mutata... - Abbiamo già Max? - domandò premurosamente quel buon uomo del signor Anselmo. La risposta della Caporale si fece attendere un bel po'. - Sì, - poi disse penosamente, quasi con affanno. - Ma siamo in troppi, questa sera... - E' vero sì! - scattò Papiano. - Mi sembra però, che così stiamo benone. - Zitto! - ammonì il Paleari. - Sentiamo che dice Max. - La catena, - riprese la Caporale, - non gli par bene equilibrata. Qua, da questo lato (e sollevò la mia mano), ci sono due donne accanto. Il signor Anselmo farebbe bene a prendere il posto della signorina Pantogada, e viceversa. - Subito! - esclamò il signor Anselmo, alzandosi. - Ecco, signorina, segga qua! E Pepita, questa volta, non si ribellò. Era accanto al pittore. - Poi, - soggiunse la Caporale, - la signora Candida... Papiano la interruppe: - Al posto d'Adriana, è vero? Ci avevo pensato. Va benone! Io strinsi forte, forte, forte, la mano di Adriana fino a farle male, appena ella venne a prender posto accanto a me. Contemporaneamente la signorina Caporale mi stringeva l'altra mano, come per domandarmi: « E' contento così? ». « Ma sì, contentone! » le risposi io con un'altra stretta, che significava anche: « E ora fate pure, fate pure quel che vi piace ! ». - Silenzio ! - intimò a questo punto il signor Anselmo. E chi aveva fiatato? Chi? Il tavolino! Quattro colpi: - Bujo! Giuro di non averli sentiti. Se non che, appena spento il lanternino, avvenne tal cosa che scompigliò d'un tratto tutte le mie supposizioni. La signorina Caporale cacciò uno strillo acutissimo, che ci fece sobbalzar tutti quanti dalle seggiole. - Luce! luce! Che era avvenuto? Un pugno! La signorina Caporale aveva ricevuto un pugno su la bocca, formidabile: le sanguinavano le gengive. Pepita e la signora Candida scattarono in piedi, spaventate. Anche Papiano s'alzò per riaccendere il lanternino. Subito Adriana ritrasse dalla mia mano la sua. Il Bernaldez col faccione rosso, perché teneva tra le dita un fiammifero, sorrideva, tra sorpreso e incredulo, mentre il signor Anselmo, costernatissimo, badava a ripetere: - Un pugno! E come si spiega? Me lo domandavo anch'io, turbato. Un pugno? Dunque quel cambiamento di posti non era concertato avanti tra i due. Un pugno? Dunque la signorina Caporale s'era ribellata a Papiano. E ora? Ora, scostando la seggiola e premendosi un fazzoletto su la bocca, la Caporale protestava di non voler più saperne. E Pepita Pantogada strillava: - Gracie, segnori! gracie! Aqui se dano cachetes! - Ma no! ma no! - esclamò il Paleari. - Signori miei, questo è un fatto nuovo, stranissimo! Bisogna chiederne spiegazione. - A Max? - domandai io. - A Max, già! Che lei, cara Silvia, abbia male interpretato i suggerimenti di lui nella disposizione della catena? - E probabile! è probabile! - esclamò il Bernaldez, ridendo. - Lei, signor Meis, che ne pensa? - mi domandò il Paleari, a cui il Bernaldez non andava proprio a genio. - Eh, di sicuro, questo pare, - dissi io. Ma la Caporale negò recisamente col capo. - E allora? - riprese il signor Anselmo. - Come si spiega? Max violento! E quando mai? Che ne dici tu, Terenzio? Non diceva nulla, Terenzio, protetto dalla semioscurità: alzò le spalle, e basta. - Via - diss'io allora alla Caporale. - Vogliamo contentare il signor Anselmo, signorina? Domandiamo a Max una spiegazione: che se poi egli si dimostrerà di nuovo spirito... di poco spirito, lasceremo andare. Dico bene, signor Papiano? - Benissimo! - rispose questi. - Domandiamo, domandiamo pure. Io ci sto. - Ma non ci sto io, così! - rimbeccò la Caporale, rivolta proprio a lui. - Lo dice a me? - fece Papiano. - Ma se lei vuol lasciare andare... - Sì, sarebbe meglio, - arrischiò timidamente Adriana. Ma subito il signor Anselmo le diede su la voce: - Ecco la paurosa! Son puerilità, perbacco! Scusi, lo dico anche a lei, Silvia! Lei conosce bene lo spirito che le è familiare, e sa che questa è la prima volta che... Sarebbe un peccato, via! perché - spiacevole quanto si voglia quest'incidente - i fenomeni accennavano questa sera a manifestarsi con insolita energia. - Troppa! - esclamò il Bernaldez, sghignazzando e promovendo il riso degli altri. - E io, - aggiunsi, - non vorrei buscarmi un pugno su quest'occhio qui... - Ni tampoco ió! - aggiunse Pepita. - A sedere! - ordinò allora Papiano, risolutamente. - Seguiamo il consiglio del signor Meis. Proviamoci a domandare una spiegazione. Se i fenomeni si rivelano di nuovo con troppa violenza, smetteremo. A sedere! E soffiò sul lanternino. Io cercai al bujo la mano di Adriana, ch'era fredda e tremante. Per rispettare il suo timore, non gliela strinsi in prima; pian piano, gradatamente, gliela premetti, come per infonderle calore, e, col calore, la fiducia che tutto adesso sarebbe proceduto tranquillamente. Non poteva esser dubbio, infatti, che Papiano, forse pentito della violenza a cui s'era lasciato andare, aveva cangiato avviso. A ogni modo avremmo certo avuto un momento di tregua; poi forse, io e Adriana, in quel bujo, saremmo stati il bersaglio di Max. « Ebbene, » dissi tra me, « se il giuoco diventerà troppo pesante, lo faremo durar poco. Non permetterò che Adriana sia tormentata. » Intanto il signor Anselmo s'era messo a parlare con Max, proprio come si parla a qualcuno vero e reale, lì presente. - Ci sei? Due colpi, lievi, sul tavolino. C'era! - E come va, Max, - domandò il Paleari, in tono d'amorevole rimprovero, - che tu, tanto buono tanto gentile, hai trattato così malamente la signorina Silvia? Ce lo vuoi dire? Questa volta il tavolino si agitò dapprima un poco, quindi tre colpi secchi e sodi risonarono nel mezzo di esso. Tre colpi: dunque, no: non ce lo voleva dire. - Non insistiamo! - si rimise il signor Anselmo. - Tu sei forse ancora un po' alterato, eh, Max? Lo sento, ti conosco... ti conosco... Vorresti dirci almeno se la catena così disposta ti accontenta? Non aveva il Paleari finito di far questa domanda, ch'io sentii picchiarmi rapidamente due volte su la fronte, quasi con la punta di un dito. - Sì! - esclamai subito, denunciando il fenomeno; e strinsi la mano d'Adriana. Debbo confessare che quel « toccamento » inatteso mi fece pure, lì per li, una strana impressione. Ero sicuro che, se avessi levato a tempo la mano avrei ghermito quella di Papiano, e tuttavia... La delicata leggerezza del tocco e la precisione erano state, a ogni modo, meravigliose. Poi, ripeto, non me l'aspettavo. Ma perché intanto Papiano aveva scelto me per manifestar la sua remissione? Aveva voluto con quel segno tranquillarmi, o era esso all'incontro una sfida e significava: « Adesso vedrai se son contento »? - Bravo, Max! - esclamò il signor Anselmo. E io, tra me: « (Bravo, sì! Che fitta di scapaccioni ti darei!) » - Ora, se non ti dispiace - riprese il padron di casa, - vorresti darci un segno del tuo buon animo verso di noi? Cinque colpi sul tavolino intimarono: - Parlate! - Che significa? - domandò la signora Candida, impaurita. - Che bisogna parlare, - spiegò Papiano, tranquillamente. E Pepita : - A chi? - Ma a chi vuol lei, signorina! Parli col suo vicino, per esempio. - Forte? - Sì, - disse il signor Anselmo. - Questo vuol dire, signor Meis, che Max ci prepara intanto qualche bella manifestazione. Forse una luce... chi sa! Parliamo, parliamo... E che dire? Io già parlavo da un pezzo con la mano d'Adriana, e non pensavo, ahimè, non pensavo più a nulla! Tenevo a quella manina un lungo discorso intenso, stringente, e pur carezzevole, che essa ascoltava tremante e abbandonata; già! l'avevo costretta a cedermi le dita, a intrecciarle con le mie. Un'ardente ebbrezza mi aveva preso, che godeva dello spasimo che le costava lo sforzo di reprimer la sua foga smaniosa per esprimersi invece con le maniere d'una dolce tenereza, come voleva il candore di quella timida anima soave. Ora, in tempo che le nostre mani facevano questo discorso fitto fitto, io cominciai ad avvertire come uno strofinio alla traversa, tra le due gambe posteriori della seggiola; e mi turbai. Papiano non poteva col piede arrivare fin là; e, quand'anche, la traversa fra le gambe anteriori gliel'avrebbe impedito. Che si fosse alzato dal tavolino e fosse venuto dietro alla mia seggiola? Ma, in questo caso, la signora Candida, se non era proprio scema, avrebbe dovuto avvertirlo. Prima di comunicare a gli altri il fenomeno, avrei voluto in qualche modo spiegarmelo; ma poi pensai che, avendo ottenuto ciò che mi premeva, ora, quasi per obbligo, mi conveniva secondar la frode, senz'altro indugio, per non irritare maggiormente Papiano. E avviai a dire quel che sentivo. - Davvero? - esclamò Papiano, dal suo posto, con una meraviglia che mi parve sincera. Né minor meraviglia dimostrò la signorina Caporale. Sentii rizzarmi i capelli su la fronte. Dunque, quel fenomeno era vero? - Strofinìo? - domandò ansiosamente il signor Anselmo. - Come sarebbe? come sarebbe? - Ma sì! - confermai, quasi stizzito. - E séguita! Come se ci fosse qua dietro un cagnolino... ecco! Un alto scoppio di risa accolse questa mia spiegazione. - Ma è Minerva! è Minerva! - gridò Pepita Pantogada. - Chi è Minerva? - domandai, mortificato. - Ma la mia cagnetta! - riprese quella, ridendo ancora. - La viechia mia, segnore, che se grata asì soto tute le sedie. Con permisso! con permisso! Il Bernaldez accese un altro fiammifero, e Pepita s'alzò per prendere quella cagnetta, che si chiamava Minerva, e accucciarsela in grembo. - Ora mi spiego, - disse contrariato il signor Anselmo, - ora mi spiego la irritazione di Max. C'è poca serietà, questa sera, ecco! Per il signor Anselmo, forse, sì: ma - a dir vero - non ce ne fu molta di più per noi nelle sere successive, rispetto allo spiritismo, s'intende. Chi poté più badare alle prodezze di Max nel buio? Il tavolino scricchiolava, si moveva, parlava con picchi sodi o lievi; altri picchi s'udivano su le cartelle delle nostre seggiole e, or qua or là, su i mobili della camera, e raspamenti, strascichii e altri rumori; strane luci fosforiche, come fuochi fatui, si accendevano nell'aria per un tratto, vagolando, e anche il lenzuolo si rischiarava e si gonfiava come una vela; e un tavolinetto porta-sigari si fece parecchie passeggiatine per la camera e una volta finanche balzò sul tavolino intorno al quale sedevamo in catena; e la chitarra come se avesse messo le ali, volò dal cassettone su cui era posata e venne a strimpellar su noi... Mi parve però che Max manifestasse meglio le sue eminenti facoltà musicali coi sonaglioli d'un collaretto da cane che a un certo punto fu messo al collo della signorina Caporale; il che parve al signor Anselmo uno scherzo affettuoso e graziosissimo di Max; ma la signorina Caporale non lo gradì molto. Era entrato evidentemente in iscena, protetto dal bujo, Scipione, il fratello di Papiano, con istruzioni particolarissime. Costui era davvero epilettico, ma non così idiota come il fratello Terenzio e lui stesso volevano dare a intendere. Con la lunga abitudine dell'oscurità, doveva aver fatto l'occhio a vederci al bujo. In verità, non potrei dire fino a che punto egli si dimostrasse destro in quelle frodi congegnate avanti col fratello e con la Caporale; per noi, cioè per me e per Adriana, per Pepita e il Bernaldez, poteva far quello che gli piaceva e tutto andava bene, comunque lo facesse: lì, egli non doveva contentare che il signor Anselmo e la signora Candida; e pareva vi riuscisse a meraviglia. E vero bensì, che né l'uno né l'altra erano di difficile contentatura. Oh, il signor Anselmo gongolava di gioja; pareva in certi momenti un ragazzetto al teatrino delle marionette; e a certe sue esclamazioni puerili io soffrivo, non solo per l'avvilimento che mi cagionava il vedere un uomo, non certamente sciocco, dimostrarsi tale fino all'inverosimile; ma anche perché Adriana mi faceva comprendere che provava rimorso a godere così, a scapito della serietà del padre, approfittandosi della ridicola dabbenaggine di lui. Questo solo turbava di tratto in tratto la nostra gioja. Eppure, conoscendo Papiano, avrebbe dovuto nascermi il sospetto che, se egli si rassegnava a lasciarmi accanto Adriana e, contrariamente a' miei timori, non ci faceva mai disturbare dallo spirito di Max, anzi pareva che ci favorisse e ci proteggesse, doveva aver fatto qualche altra pensata. Ma era tale in quei momenti la gioja che mi procurava la libertà indisturbata nel bujo, che questo sospetto non mi s'affacciò affatto. - No! - strillo a un certo punto la signorina Pantogada. E subito il signor Anselmo: - Dica, dica, signorina! che è stato? che ha sentito? Anche il Bernaldez la spinse a dire, premurosamente; e allora Pepita: - Aquì, su un lado, una carecia... - Con la mano? - domandò il Paleari. - Delicata, è vero? Fredda, furtiva e delicata... Oh, Max, se vuole, sa esser gentile con le donne! Vediamo un po', Max, potresti rifar la carezza alla signorina? - Aquì està! aquì está! - si mise a gridare subito Pepita ridendo. - Che vuol dire? - domando il signor Anselmo. - Rifà, rifà... m'acareccia! - E un bacio, Max? - propose allora il Paleari. - No! - strillò Pepita, di nuovo. Ma un bel bacione sonoro le fu scoccato su la guancia. Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca; poi, non contento, mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato fra noi. Che seguì? ci volle un pezzo, prima ch'io smarrito di confusione e di vergogna, potessi riavermi in quell'improvviso disordine. S'erano accorti di quel nostro bacio? Gridavano. Uno, due fiammiferi, accesi; poi anche la candela, quella stessa che stava entro il lanternino dal vetro rosso. E tutti in piedi! Perché? Perché? Un gran colpo, un colpo formidabile, come vibrato da un pugno di gigante invisibile, tonò sul tavolino, così, in piena luce. Allibimmo tutti e, più di ogni altro, Papiano e la signorina Caporale. - Scipione! Scipione! - chiamò Terenzio. L'epilettico era caduto per terra e rantolava stranamente. - A sedere! - gridò il signor Anselmo. - E caduto in trance anche lui! Ecco, ecco, il tavolino si muove, si solleva, si solleva... La levitazione! Bravo, Max! Evviva ! E davvero il tavolino, senza che nessuno lo toccasse, si levò alto più d'un palmo dal suolo e poi ricadde pesantemente. La Caporale, livida, tremante, atterrita, venne a nascondere la faccia sul mio petto. La signorina Pantogada e la governante scapparono via dalla camera, mentre il Paleari gridava irritatissimo: - No, qua, perbacco! Non rompete la catena! Ora viene il meglio! Max! Max! - Ma che Max! - esclamò Papiano, scrollandosi alla fine dal terrore che lo teneva inchiodato e accorrendo al fratello per scuoterlo e richiamarlo in sé. Il ricordo del bacio fu per il momento soffocato in me dallo stupore per quella rivelazione veramente strana e inesplicabile, a cui avevo assistito. Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max: bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro. Chi dunque aveva agito? chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile? Tante cose lette nei libri del Paleari mi balzarono in tumulto alla mente; e, con un brivido, pensai a quello sconosciuto che s'era annegato nella gora del molino alla Stìa, a cui io avevo tolto il compianto de' suoi e degli estranei. « Se fosse lui! » dissi tra me. « Se fosse venuto a trovarmi, qua, per vendicarsi, svelando ogni cosa... » Il Paleari intanto, che - solo - non aveva provato né meraviglia né sgomento, non riusciva ancora a capacitarsi come un fenomeno così semplice e comune, quale la levitazione del tavolino, ci avesse tanto impressionato, dopo quel po' po' di meraviglie a cui avevamo precedentemente assistito. Per lui contava ben poco che il fenomeno si fosse manifestato alla luce. Piuttosto non sapeva spiegarsi come mai Scipione si trovasse là, in camera mia, mentr'egli lo credeva a letto. - Mi fa specie, - diceva - perché di solito questo poveretto non si cura di nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa curiosità: sarà venuto a spiare, sarà entrato furtivamente, e allora... pàffete, acchiappato! Perché e innegabile, sa, signor Meis, che i fenomeni straordinarii della medianità traggono in gran parte origine dalla nevrosi epilettica, catalettica e isterica. Max prende da tutti, sottrae anche a noi buona parte d'energia nervosa, e se ne vale per la produzione dei fenomeni. E' accertato! Non si sente anche lei, difatti, come se le avessero sottratto qualche cosa? - Ancora no, per dire la verità. Quasi fino all'alba mi rivoltai sul letto, fantasticando di quell'infelice, sepolto nel cimitero di Miragno, sotto il mio nome. Chi era? Donde veniva? Perché si era ucciso? Forse voleva che quella sua triste fine si sapesse: era stata forse riparazione, espiazione... e io me n'ero approfittato! Più d'una volta, al bujo - lo confesso - gelai di paura. Quel pugno, lì, sul tavolino, in camera mia, non lo avevo udito io solo. Lo aveva scagliato lui? E non era egli ancor lì, nel silenzio, presente e invisibile, accanto a me? Stavo in orecchi, se m'avvenisse di cogliere qualche rumore nella camera. Poi m'addormentai e feci sogni paurosi. Il giorno appresso aprii le finestre alla luce.

 

capitulo 14 - las proezas de max ¿Aprensión? No. Ni por asomo. Lo que yo sentía era una viva curiosidad y hasta cierto temor de que Papiano hubiese de quedar muy malparado en aquella sesión; aunque parecía lógico que esa perspectiva me agradase, no era así. Porque ¿quién no experimenta tristeza y sonrojo al asistir a una comedia mal representada por cómicos de la legua? “Una de dos —pensaba—: o él es muy habilidoso, o su terquedad en no separarse de las faldas de Adriana no le deja ver claro a lo que se expone, dejándonos a Bernáldez y Pepita, a Adriana y a mí, chasqueados, y, por lo tanto, en situación de descubrir su trampa sin experimentar, en cambio, el menor gusto. La que lo notará más pronto será Adriana, que es la que está a su lado; y diz que ya tiene sospechas de sus fullerías, y anda escamada. No pudiendo estar a mi lado, quizá ya esté preguntándose a sí misma por qué razón asiste a esta farsa, que no sólo le resultaba desaborido, sino hasta indigna y sacrílega. Y lo mismo, sin duda, se preguntarán también Bernáldez y Pepita. ¿Cómo no lo advierte Papiano, ya que ha visto que le falló el tiro de sentarme a mi lado a la señorita de Pantogada? ¿Tanta confianza tiene en su habilidad? Pues vamos a verlo.» En tanto me hacía estas reflexiones, no me acordaba lo más mínimo de la pianista. Y de repente, rompió ésta a hablar, como si estuviera medio dormida. —¡La cadena! —dijo—. ¡Hay que variar la cadena! —¿Está aquí ya Max? —preguntó ansiosamente el bueno de don Anselmo. La respuesta de la pianista hízose esperar un largo rato. —Sí —dijo por último, como a duras penas—; pero somos demasiados esta noche... —¡Eso sí es verdad! —saltó Papiano—. Pero yo creo que así es mejor. —¡Silencio! —ordenó Paleari —. Oigamos lo que dice Max. —La cadena —continuó la pianista— no le parece bien equilibrada. Aquí, a este lado —y me levantó a mí la mano—, hay dos señoras juntas. Convendría que don Anselmo cambiase de sitio con la señorita de Pantogada. —¡Ahora mismo! —exclamó el señor Paleari, levantándose—. Ande usted, Pepita, siéntese aquí. Pepita no rechistó lo más mínimo, y obedeció al viejo. Estaba al lado del pintor. —Además —añadió la pianista—, doña Cándida... Papiano interrumpióla: —Debe cambiar de sitio con Adriana, ¿verdad? Ya se me había ocurrido a mí. ¡Pues admirable! Yo le apreté a Adriana la mano con fuerza, hasta lastimársela, no bien se hubo sentado junto a mí. Al mismo tiempo, la pianista me apretaba a mí la otra mano, como preguntándome: «¿Está usted contento?» «¡Claro que sí! ¡Contentísimo!”, respondíle yo con otro apretón, que significaba también: «¡SYMBOL 181 \f "MS Linedraw" _hora ya pueden ustedes hacer lo que gusten!” —¡Silencio! —ordenó otra vez don Anselmo. ¿Quién había hablado? ¿Quién había de hablar? La mesa. ¡Cuatro golpes! ¡Apagad las luces! Yo, por mí, juro que no sentí los tales golpes. Sólo que, no bien apagado el farolillo, sucedió una cosa que dio al traste, de golpe y porrazo, con todas mis suposiciones. La pianista lanzó un agudo alarido, que nos hizo saltar de los asientos. —¡Luz! ¡Luz! ¿Qué había ocurrido? Pues que la pobre pianista había recibido en la boca un puñetazo formidable; tanto, que le chorreaban sangre las encías. Pepita y doña Cándida levantáronse, despavoridas. También se levantó Papiano, volviendo a encender el farolillo. De pronto, Adriana retiró su mano de la mía. El señor Bernáldez sostenía en alto una cerilla encendida, y sonreía, entre asombrado e incrédulo, mientras el señor Paleari, en el colmo de la desolación, exclamaba: —¡Un puñetazo! Pero, ¿cómo se explica esto? La misma pregunta hacíame yo, desconcertado. ¿Un puñetazo? Luego aquel cambio de sitios no estaba convenido de antemano entre ellos. ¿Un puñetazo? Luego la pianista habíase rebelado contra la voluntad de Papiano. ¿Qué iba a pasar ahora? Pues pasaba que la pianista, dándole un empellón a la silla y llevándose un pañuelo a la boca, decía que para ella se habían acabado las sesiones de espiritismo. Y Pepita Pantogada ponía el grito en el cielo, diciendo: —Gracie, segnori! Gracie! Aquí se dano cachetes! —¡Quiá! ¡No lo crea usted! —exclamó don Anselmo—. Señoras y señores: este es un caso nuevo, sumamente extraño. Hay que pedir explicaciones. —¿A Max? —pregunté yo. —¡Claro que sí! ¡Silvia, mujer! ¿No habrá usted interpretado mal sus indicaciones al disponer la cadena? —¡Es probable! ¡Es probable! —saltó Bernáldez, echándose a reír. —Y usted, señor Meis, ¿qué piensa de esto? —preguntóme el señor Paleari, al cual no le hacía feliz el pintor. —Pues yo pienso lo mismo que usted —respondíle. Pero la pianista negó con la cabeza. —Pero, entonces, ¿cómo se explica lo ocurrido? —siguió diciendo el pobre de don Anselmo—. ¿Max, iracundo? ¿Cuándo se le vio así? ¿Qué dices tú, Terencio? Terencio, recatado en la penumbra, no decía nada; lo único que hizo fue encogerse de hombros. —Bueno —díjele yo entonces a la pianista—. ¿Quiere usted, Silvia, que le demos gusto a don Anselmo? Pidámosle una explicación a Max; que, si después de eso, vuelve a las andadas, poniendo de manifiesto que es un espíritu poco... espiritual, con mandarlo a paseo, asunto concluido. ¿No le parece a usted, Papiano? —¡Admirable! —respondió aquél—. Voto por que se le pidan explicaciones a Max. —Pues yo voto por todo lo contrario —protestó la pianista, encarándose con él. —¿Y a mí que me cuenta usted? —exclamó Papiano—. Si es partidaria de que le espantemos... —Sí, será lo mejor —aventuró, tímidamente, Adriana. Pero al punto, don Anselmo salió diciendo: —¡Miren a la muy miedosa! ¡Todo eso son puerilidades, caramba! Y usted dispense, Silvia, que también va con usted lo que digo. Usted conoce de sobra a ese espíritu, que le es familiar, y sabe que ésta es la primera vez que... ¡Vamos! Que sería una lástima espantarle; porque, después de todo —y aun reconociendo que el incidente no ha podido ser más desagradable—, esta noche prometían los fenómenos manifestarse con una energía insólita. —¡Con demasiada energía, don Anselmo! —exclamó Bernáldez, prorrumpiendo en una carcajada y contagiando de su hilaridad a la reunión. —A mí, la verdad, no me haría mucha gracia que me dieran un puñetazo en este ojo, como lo tengo. —¡Ni a mí tampoco! —añadió Pepita. —¡Siéntense todos! —ordenó entonces Papiano resueltamente—. Sigamos el consejo del señor Meis. Pidámosle una explicación a Max. Y si los fenómenos vuelven a manifestarse con demasiada energía, pues lo dejamos, y en paz. ¡Siéntense! Y apagó, de un soplo, el farolillo. Yo busqué, a tientas en la sombra, la mano de Adriana, que temblaba, aterida. A lo primero, respetando su temor, no me atreví a estrechársela; pero luego, poco a poco, se la fui apretando, como para infundirle calor, y, con él, la confianza en la feliz prosecución de la velada. No cabía, en efecto, duda alguna de que Papiano, arrepentido acaso de su violento proceder, había cambiado de, modo de pensar. Sea de ello lo que fuere, por el momento había derecho a esperar una tregua, después de la cual Max nos tomara a Adriana y a mí por el blanco de sus iras. “¡Bueno! —díjeme para mis adentros—. En cuanto la broma me resulte pesada, con ponerle remate, ¡asunto concluido! ¡No estoy dispuesto a tolerar que nadie haga sufrir a Adriana!” A todo esto, el señor Paleari estaba ya hablando con Max, exactamente igual que lo hubiera hecho con una persona de carne y hueso que se hubiera hallado presente: —¿Estás aquí? Dos golpecitos en la mesa: ¡allí estaba! —¿Y cómo se explica, Max —continuaba el señor Paleari, en tono de cariñoso reproche—, que tú, que eres tan bueno y amable, hayas tratado tan malamente a la señorita Silvia? ¿Quieres decirnos por qué ha sido eso? Aquella vez la mesita tambaleóse un poco, sonando luego en su centro tres golpes secos y rotundos. Tres golpes; luego quería decir que no; que no quería dar explicaciones. —¡No insistamos! —exclamó el señor Paleari —. Estás todavía un poco sobreexcitado, ¿eh? Lo siento, porque te conozco..., te conozco... ¿No querrías decirnos, por lo menos, si te agrada la forma en que ahora tenemos hecha la cadena? No había acabado Paleari de formular esa pregunta, cuando yo sentí que me hurgaban por dos veces en la frente, como con la yema de los dedos. —¡Sí! —exclamé de pronto, denunciando el fenómeno; y apretéle la mano a Adriana. Debo confesar, sin embargo, que aquel inopinado tocamiento prodújome una extraña impresión. Estaba seguro de que si hubiera levantado la mano me hubiera encontrado con la de Papiano; pero, a pesar de todo... La delicada ligereza del tacto, así como lo certero del mismo, resultaban, de todas formas, prodigiosos. Además, repito que no me lo esperaba. Pero, a todo esto, ¿por qué Papiano me había elegido a mí para expresar por mi conducto su satisfacción? ¿Sería que había querido tranquilizarme con aquella señal, o que, por el contrario, tenía ésta un sentido de reto, como diciéndome: Ahora verás si estoy satisfecho? —¡Bravo, Max! —exclamó el bueno de don Anselmo. Y yo pensé para mis adentros: «Ya verá el bravo la tunda que le voy a dar.» —¡Bueno! Pues ahora, si no te desplace —siguió diciendo el dueño de la casa—, ¿querrías darnos una prueba de que no estás enojado con nosotros? Cinco golpes en la mesa indicaron: —¡Hablad! —¿Qué quieren decir esos golpes? —preguntó doña Cándida, asustada. —¡Pues que hay que hablar! —explicó Papiano con la mayor frescura. Y Pepita: —¿Con quién? —¡Pues con quien usted quiera, señorita! Con su vecino, por ejemplo. —¿Fuerte? —Sí —dijo don Anselmo—. Esto quiere decir, señor Meis, que Max va a prepararnos mientras tanto alguna manifestación brillante. Quizá una luz.... ¿quién sabe? ¡Hablemos, hablemos! ... ¿Pero qué decir? Yo ya hacía rato que estaba al habla con la mano de Adriana, y no se me ocurría, ¡ay de mí!, nada más. Traíame con aquella manecita un largo monólogo, intenso, enérgico y, al mismo tiempo, acariciante, que ella escuchaba toda trémula y rendida; habíala obligado ya a abandonarme sus dedos y entrelazarlos con los míos. Ardiente embriaguez había hecho presa en mí, que gozaba lo indecible con el espasmo que le costaba el esfuerzo que hacía para contener su caprichosa fuga, y expresarse, en vez de eso, con el lenguaje de una suave ternura, según cumplíale al candor de aquella alma tímida y delicada. Pero en tanto nuestras manos sostenían este palique tan íntimo, hube de notar algo así como si estuviesen arañando en el travesaño de la silla, entre las dos patas de atrás, de lo que recibí cierto sobresalto. Papiano no podía alcanzar hasta allí con el pie; y puesto caso que pudiera, hubiéraselo impedido el travesaño de las patas delanteras. ¿Sería que se habría levantado de la mesa y venido a colocarse detrás de mi silla? Pero, en ese caso, doña Cándida no hubiera dejado de notario, a menos de estar lela. Antes de comunicarles a los demás el fenómeno, hubiera querido explicármelo en alguna forma; pero luego pensé que, habiendo conseguido ya lo que yo anhelaba, estaba ahora casi en la Obligación de secundar la trampa, sin meterme en más averiguaciones, a fin de no irritar todavía más a Papiano. Y declaré en voz alta lo que estaba sintiendo. —¿Es de verdad? —exclamó Papiano, desde su sitio, con un asombro que me pareció sincero. La pianista mostró también maravillarse. Yo sentí que se me ponían de punta los pelos de la frente. ¿De modo que aquello iba de veras? —¿Ha sentido usted como si arañasen? —preguntó ansiosamente don Anselmo—. ¿Cómo hacían? ¿Cómo hacían? —Pues así —confirmé yo casi enfadado—. ¡Y todavía sigue! Parece exactamente como si por aquí detrás anduviese un perrillo... Una ruidosa carcajada acogió aquella explicación mía. —¡Hombre! ¡Entonces será Minerva! ¡Minerva es! —gritó Pepita Pantogada. —¿Y quién es Minerva? —pregunté yo, mortificado. —¡Pues mi perritas —exclamó la joven, sin dejar de reír—. La viechia mia, segnore, che se grata assi soto tute le sedie! Con permisso! Con permisso! Bernáldez encendió otra cerilla, y Pepita se levantó, cogiendo a la perrilla, que se llamaba Minerva, y acomodándosela en la falda. —¡Ahora me explico —dijo, contrariado, don Anselmo—, ahora me explico el enojo de Max! ¡Hemos procedido con muy poca seriedad esta noche! Por parte del señor Paleari , quizá la hubiese; pero por la nuestra, si he de ser franco, no hubo tampoco mucha seriedad en las noches sucesivas, tocante al espiritismo, se entiende. ¿Quién podía ya llevar la cuenta de las picoezas que Max hacía en la oscuridad? La mesita crujía, movíase, hablaba con golpes rotundos o leves; oíanse más golpes también en los tableros de las sillas y hasta en los muebles de la habitación, amén de roces, arañazos y demás rumores; extrañas luces fosfóricas, semejantes a fuegos fatuos, encendíanse y brillaban un instante en la sombra, dando volteretas; y hasta la sábana, iluminábase y se hinchaba como la vela de un barco; y una mesita de ésas para poner el tabaco dio no sé cuantos paseos por la habitación, llegando una vez incluso a montársele encima a la mesa en torno a la cual estábamos sentados; y la guitarra, cual si le hubiesen salido alas, saltó del testero de la pared donde estaba colgada y se nos vino encima... Pero a mí parecióme que como más gallardamente demostraba Max sus eminentes facultades musicales era con el collar de cascabeles de marras, que en determinado momento resultó tenerlo ceñido al cuello la pianista; lo que hubo de parecerle al bueno de don Anselmo una broma cariñosa e ingeniosísima de Max, bien que a la solterona no le hiciese ni pizca de gracia. Saltaba a la vista que había entrado en escena, a favor de la oscuridad, Escipión, el hermanito de Papiano, con instrucciones particularísimas. Era el muchacho epiléptico, pero no tan idiota como su hermano Terencio y él mismo querían hacernos creer. Acostumbrado ya a la oscuridad, debía de tener la virtud de ver en ella. Y en verdad que no podría decir hasta qué punto era el chico diestro en aquellas trampas, convenidas de antemano con su hermanito y la pianista; para nosotros, es decir, para mí y para Adriana, y para Pepita y Bernáldez, todo cuanto hiciere estaba bien hecho, por mal que le saliera; a quienes tenía que contentar era a don Anselmo y a doña Cándida, y a fe que lo lograba a maravilla el indino. Cierto que ni el uno ni la otra eran muy exigentes. El señor Paleari no cabía en el pellejo de puro alborozado; en ciertos momentos parecía un chiquillo en un teatro de fantoches, y algunas de sus pueriles exclamaciones hacíanme sufrir, no sólo por la vergüenza que me daba ver a un hombre, que no era ciertamente un memo, portarse como tal, hasta un grado inverosímil, sino también porque Adriana dábame a entender que sentía remordimientos de gozar así, a costa de la seriedad de su padre y aprovechándose de su ridícula bonachonería. Esto era lo único que, de cuando en cuando, nos aguaba la fiesta. Sin embargo, conociendo, como conocía yo, a Papiano, ya hubiera debido figurarme que cuando se resignaba a dejar que Adriana se sentase a mi lado, y, contrariamente a mis temores, no nos molestaba valiéndose del espíritu de Max, sino que, al revés, como que nos favorecía y amparaba, era que había echado a rodar la imaginación por otro lado para prepararnos alguna otra trastada. Pero era tal la alegría que me procuraba aquella libertad sin trabas, en la sombra, que ni siquiera se me ocurrió esa sospecha. —¡No! —gritó de pronto una vez la señorita de Pantogada. Y a renglón seguido don Anselmo: —Diga usted, señorita, ¿qué ha sido eso? ¿Qué ha sentido usted? También Bernáldez instóla para que lo dijese con mucha porfía; hasta que Pepita declaró por fin: —Aqui, su un lado, una careccia... —¿Con la mano? —preguntó don Anselmo—. Muy suave, ¿verdad? Fría, furtiva y delicada... ¡No! Es que Max, cuando quiere, sabe ser galante con las damas... Vamos a ver, Max: ¿podrías repetir la caricia que le has hecho a esta señorita? —¿Qué quiere decir? —preguntó don Anselmo. —¡Aquí está! ¡Aquí está! —exclamó de pronto Pepita, riéndose. —Rifa, rifa, me... acareccia. —¿Y un beso, Max? —propuso entonces don Anselmo. —¡No! —tornó a chillar Pepita. Pero, a pesar de ello, asestáronle un sonoro beso en un carrillo. Casi involuntariamente llevéme yo a los labios la mano de Adriana; luego, no contento todavía, inclinéme en busca de su boca, y de esa suerte fue como cambiamos ella y yo nuestro primer beso, largo y mudo. ¿Qué pasó después? Largo rato hubo de transcurrir antes que yo, transtornado por la confusión y la vergüenza, pudiera recobrar la serenidad en aquel impensado desorden. ¿Se habrían percatado de aquel beso nuestro? Oyéronse gritos. Brillaron una, dos cerillas; y después una vela, la del farolillo color de rosa. ¡Pusiéronse todos en pie! ¿Por qué, por qué, Dios santo? Un gran golpetazo, un porrazo formidable, cual descargado por el puño de un gigante invisible, sonó encima de la mesa, así como estábamos, en plena luz. Pusímonos todos muy pálidos, especialmente Papiano y la pianista. —¡Escipión! ¡Escipión! —gritó Terencio. El epiléptico había rodado por tierra, donde jadeaba afanoso. —¡Siéntense todos! —gritó el señor Paleari —. ¿Es que ha caído en trance! ¡Miren, miren cómo se mueve y se levanta la mesa! ... ¡La levitación! ¡Bravo, Max! ¡Viva! Y era lo cierto que la mesa, sin que ninguno de nosotros la tocase, se había levantado más de un palmo del suelo, volviendo luego a caer pesadamente. La pianista, lívida, trémula, aterrorizada, vino a esconder la cara en mi pecho. La señorita de Pantogada y su institutriz escaparon del cuarto, mientras Paleari gritaba en el colmo de la indignación: —Pero, ¡por los clavos de Cristo, vengan acá! ¡No rompan la cadena, que ahora viene lo bueno! ¡Max! ¡Max! —Pero ¿qué Max ni qué ocho cuartos? —exclamó Papiano, recobrándose, por fin, del terror que hasta entonces lo tuviera paralizado, y llegándose al hermano para sacudirlo y volverlo en sí. El recuerdo del beso quedó por el momento sofocado en mí por el estupor de aquella revelación verdaderamente extraña e inexplicable que había presenciado. Si, como sostenía don Anselmo, la fuerza misteriosa que en aquella ocasión había obrado, a la luz y ante mis ojos, procedía de un espíritu invisible, era indudable que el tal espíritu no era el de Max; para convencerse de ello bastaba con mirar a Papiano y la pianista. Ese Max era invención suya. Pero, entonces, ¿quién era el autor de todo aquello? ¿Quién había descargado sobre la mesa tan formidable puñetazo? Acudiéronme en confuso tropel a la mente un sin fin de cosas leídas en los libros de Paleari; y con un calofrío de terror pensé en aquel desconocido que pereciera ahogado en el molino de La Cabaña, y que por mi culpa veíase privado del luto de sus deudos y extraños. —¿Si habrá sido él? —dije para mis adentros—. ¿Si habrá venido aquí para vengarse, descubriendo toda la tramoya?... A todo esto, el bueno de don Anselmo, que era el único que no había experimentado maravilla ni susto, no acababa todavía de explicarse cómo un fenómeno tan sencillo y corriente como el de la levitación de la mesita había podido hacernos tanta impresión, después de las demás cosas peregrinas que ya viéramos en sesiones anteriores. El no le daba importancia alguna al hecho de haberse manifestado el fenómeno a —Plena luz. Lo que sí le asombraba, no hallándole ninguna explicación, era que Escipión hubiera aparecido allí, en mi cuarto, cuando él lo daba por dormido en su lecho. —Lo extraño —nos decía—, porque generalmente este cuitado no se preocupa por nada. Y ahora, según se ve, estas nuestras misteriosas sesiones le han despertado cierta curiosidad; habrá venido a hurtadillas a ver lo que hacíamos..., y de pronto, ¡paf!, el patatús. ¡Porque es innegable, señor Meis, que los extraordinarios fenómenos de la mediumnidad derívense en gran parte de las neurosis epiléptica, cataléptica e histérica! ¡Max coge acá y allá, y hasta a nosotros mismos nos quita buena parte de energía nerviosa, valiéndose de ella para la producción de sus fenómenos! ¡Está comprobado! ¿No se siente usted, señor Meis, efectivamente, como si le hubiesen arrebatado alguna cosa? —Todavía no, a decir verdad. Hasta casi el amanecer estúveme dando vueltas en la cama, desvariando con aquel infeliz que yacía en el camposanto de Miragno, enterrado con mi nombre y apellido. ¿Quién sería? ¿De dónde habría venido? ¿Por qué se quitaría la vida? Quizá quería el pobre que su triste fin tuviese resonancia; acaso su acto fuera un desagravio, una expiación.... y yo me había aprovechado de él. Confieso que más de una vez sentí aquella nochecita un terror que me helaba los huesos. No era yo el único que había oído aquel tremendo puñetazo sobre la mesa. ¿Sería él quien lo había descargado? ¿Y no seguiría aún allí, en el silencio, presente e invisible, a mi lado? Aguzaba el oído, por si sentía algún rumorcillo en el aposento. Al cabo me dormí y asaltáronme terribles pesadillas. Al otro día, lo primero que hice fue abrirle la ventana a la luz.






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