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VIII: Adriano Meis
Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevan o voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d'encomio, quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr'uomo. Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire miseramente nella gora d'un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse sorte migliore. Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell'intimo, non rimanesse più in me alcuna traccia di lui. Ero solo ormai, e più solo di com'ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d'ogni legame e d'ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con I'avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio. Ah, un pajo d'ali! Come mi sentivo leggero! Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai, ragion d'essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal. Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi. « E innanzi tutto, » dicevo a me stesso, « avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, né le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d'essere stato due uomini. » Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, li stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio su quella barbaccia che non m'apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d'esser sorretti in punta con l'altra mano. Non m'arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano. Il brav'uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se era stato bravo. Mi parve troppo! - No, grazie, - mi schermii. - Lo riponga. Non vorrei fargli paura. Sbarrò tanto d'occhi, e: - A chi? - domandò. - Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev'essere antico... Era tondo, col manico d'osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi. Se era stato bravo! Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale; alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio! « Ah, quest'occhio, » pensai, « così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese. » Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d'aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d'una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi un po' ridicola e meschina. Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino. Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d'iconografia cristiana, in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me. Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell'enunciar la notizia ch'egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato bruttissimo. Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria da ispirato. - Ma si, ma si, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d'Alessandria! Sicuro, Cirillo d'Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più brutto degli uomini. L'altro, ch'era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un giogo, sosteneva invece che non c'era da fidarsi delle più antiche testimonianze. - Perché la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero delle sembianze corporee di lui. A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa. - Ma sì! - scattò il giovane barbuto. - Ma se non c'è più dubbio ormai! Quelle due statue rappresentano l'imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi. Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva esser contraria, perché quell'altro, incrollabile, guardando me, s'ostinava a ripetere : - Adriano! - ...Beronike, in greco. Da Beronike poi: Veronica... - Adriano! (a me). - Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima... - Adriano! (a me). - Perché la Beronike degli Atti di Pilato... - Adriano! Ripeté così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi rivolti a me. Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello scompartimento, m'affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi: discutevano ancora, allontanandosi. A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa. - Chi lo dice? - gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si voltò per gridargli: - Camillo De Meis! Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a ripetere meccanicamente: - Adriano... -. Buttai subito via quel de e ritenni il Meis. « Adriano Meis! Si... Adriano Meis: suona bene... » Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare. « Adriano Meis. Benone! M'hanno battezzato. » Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l'animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l'anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l'aria tra essi e me s'era d'un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell'anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all'improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: « Vedrai, vedrai com'essa t'apparirà curiosa, ora, a guardarla cosi da fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini... » Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi piaceva d'immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano, spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso; all'ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa; alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide e col cappello del marito in capo. Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l'anellino di fede che mi stringeva ancora l'anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l'altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d'oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch'esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne? Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano. Tutto, attorno, mi s'era rifatto nero. Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell'ultimo anello! Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell'aperta campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che l'annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal. « No, no, » pensai, « in luogo più sicuro... Ma dove? » Il treno, in quella, si fermò a un'altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per Ia cui attuazione. provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l'umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella... Basta. Da una parte c'era scritto Uomini e dall'altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede. Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov'ero nato, ecc. - posatamente sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle più minute particolarità. Ero figlio unico: su questo mi pareva che non ci fosse da discutere. « Più unico di così... Eppure no! Chi sa quanti sono come me, nella mia stessa condizione, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una lettera in tasca, sul parapetto d'un ponte, su un fiume; e poi, invece di buttarsi giù, si va via tranquillamente, in America o altrove. Si pesca dopo alcuni giorni un cadavere irriconoscibile: sarà quello de la lettera lasciata sul parapetto del ponte. E non se ne parla più! E vero che io non ci ho messo la mia volontà: né lettera, né giacca, né cappello... Ma son pure come loro, con questo di più: che posso godermi senza alcun rimorso la mia libertà. Han voluto regalarmela, e dunque... » Dunque diciamo figlio unico. Nato... - sarebbe prudente non precisare alcun luogo di nascita. Come si fa? Non si può nascer mica su le nuvole, levatrice la luna, quantunque in biblioteca abbia letto che gli antichi, fra tanti altri mestieri, le facessero esercitare anche questo, e le donne incinte la chiamassero in soccorso col nome di Lucina. Su le nuvole, no; ma su un piroscafo, sì, per esempio, si può nascere. Ecco, benone! nato in viaggio. I miei genitori viaggiavano... per farmi nascere su un piroscafo. Via, via, sul serio! Una ragione plausibile per mettere in viaggio una donna incinta, prossima a partorire... O che fossero andati in America i miei genitori? Perché no? Ci vanno tanti... Anche Mattia Pascal, poveretto, voleva andarci. E allora queste ottantadue mila lire diciamo che le guadagnò mio padre, là in America? Ma che! Con ottantadue mila lire in tasca, avrebbe aspettato prima, che la moglie mettesse al mondo il figliuolo, comodamente, in terraferma. E poi, baje! Ottantadue mila lire un emigrato non le guadagna più cosi facilmente in America. Mio padre... - a proposito, come si chiamava? Paolo. Sì: Paolo Meis. Mio padre, Paolo Meis, s'era illuso, come tanti altri. Aveva stentato tre, quattr'anni; poi, avvilito, aveva scritto da Buenos-Aires una lettera al nonno... Ah, un nonno, un nonno io volevo proprio averlo conosciuto, un caro vecchietto, per esempio, come quello ch'era sceso testé dal treno, studioso d'iconografia cristiana. Misteriosi capricci della fantasia! Per quale inesplicabile bisogno e donde mi veniva d'immaginare in quel momento mio padre, quel Paolo Meis, come uno scavezzacollo? Ecco, sì, egli aveva dato tanti dispiaceri al nonno: aveva sposato contro la volontà di lui e se n'era scappato in America. Doveva forse sostenere anche lui che Cristo era bruttissimo. E brutto davvero e sdegnato l'aveva veduto là, in America, se con la moglie lì lì per partorire, appena ricevuto il soccorso dal nonno, se n'era venuto via. Ma perché proprio in viaggio dovevo esser nato io? Non sarebbe stato meglio nascere addirittura in America, nell'Argentina, pochi mesi prima del ritorno in patria de' miei genitori? Ma si! Anzi il nonno s'era intenerito per il nipotino innocente; per me, unicamente per me aveva perdonato il figliuolo. Così io, piccino piccino, avevo traversato l'Oceano, e forse in terza classe, e durante il viaggio avevo preso una bronchite e per miracolo non ero morto. Benone! Me lo diceva sempre il nonno. Io però non dovevo rimpiangere come comunemente si suol fare, di non esser morto, allora di pochi mesi. No: perché, in fondo, che dolori avevo sofferto io, in vita mia? Uno solo, per dire la verità: quello de la morte del povero nonno, col quale ero cresciuto. Mio padre, Paolo Meis, scapato e insofferente di giogo, era fuggito via di nuovo in America, dopo alcuni mesi, lasciando la moglie e me col nonno; e là era morto di febbre gialla. A tre anni, io ero rimasto orfano anche di madre, e senza memoria perciò de' miei genitori; solo con queste scarse notizie di loro. Ma c'era di più! Non sapevo neppure con precisione il mio luogo di nascita. Nell'Argentina, va bene! Ma dove? Il nonno lo ignorava, perché mio padre non gliel'aveva mai detto o perché se n'era dimenticato, e io non potevo certamente ricordarmelo. Riassumendo: a) figlio unico di Paolo Meis; - b) nato in America nell'Argentina, senz'altra designazione; - c) venuto in Italia di pochi mesi (bronchite); - d) senza memoria né quasi notizia dei genitori; - e) cresciuto col nonno. Dove? Un po' da per tutto. Prima a Nizza. Memorie confuse: Piazza Massena, la Promenade, Avenue de la Gare... Poi, a Torino. Ecco, ci andavo adesso, e mi proponevo tante cose: mi proponevo di scegliere una via e una casa, dove il nonno mi aveva lasciato fino all'età di dieci anni affidato alle cure di una famiglia che avrei immaginato lì sul posto, perché avesse tutti i caratteri del luogo; mi proponevo di vivere, o meglio d'inseguire con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d'Adriano Meis piccino. Questo inseguimento, questa costruzione fantastica d'una vita non realmente vissuta, ma colta man mano negli altri e nei luoghi e fatta e sentita mia, mi procurò una gioja strana e nuova, non priva d'una certa mestizia, nei primi tempi del mio vagabondaggio. Me ne feci un'occupazione. Vivevo non nel presente soltanto, ma anche per il mio passato cioè per gli anni che Adriano Meis non aveva vissuti. Nulla o ben poco ritenni di quel che avevo prima fantasticato. Nulla s'inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o men profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita; ma pure, come e quanto appare diversa dalle invenzioni che noi possiamo trarne la realtà viva e spirante! Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sé! Or che cos'ero io, se non un uomo inventato? Una invenzione ambulante che voleva e, del resto, doveva forzatamente stare per sé, pur calata nella realtà. Assistendo alla vita degli altri e osservandola minuziosamente, ne vedevo gl'infiniti legami e, al tempo stesso, vedevo le tante mie fila spezzate. Potevo io rannodarle, ora, queste fila con la realtà? Chi sa dove mi avrebbero trascinato; sarebbero forse diventate subito redini di cavalli scappati, che avrebbero condotto a precipizio la povera biga della mia necessaria invenzione. No. Io dovevo rannodar queste fila soltanto con la fantasia. E seguivo per le vie e nei giardini i ragazzetti dai cinque ai dieci anni, e studiavo le loro mosse, i loro giuochi, e raccoglievo le loro espressioni, per comporne a poco a poco l'infanzia di Adriano Meis. Vi riuscii così bene, che essa alla fine assunse nella mia mente una consistenza quasi reale. Non volli immaginarmi una nuova mamma. Mi sarebbe parso di profanar la memoria viva e dolorosa della mia mamma vera. Ma un nonno, sì, il nonno del mio primo fantasticare, volli crearmelo. Oh, di quanti nonnini veri, di quanti vecchietti inseguiti e studiati un po' a Torino, un po' a Milano, un po' a Venezia, un po' a Firenze, si compose quel nonnino mio! Toglievo a uno qua la tabacchiera d'osso e il pezzolone a dadi rossi e neri, a un altro là il bastoncino, a un terzo gli occhiali e la barba a collana, a un quarto il modo di camminare e di soffiarsi il naso, a un quinto il modo di parlare e di ridere; e ne venne fuori un vecchietto fino un po' bizzoso, amante delle arti, un nonnino spregiudicato, che non mi volle far seguire un corso regolare di studii, preferendo d'istruirmi lui, con la viva conversazione e conducendomi con sé, di città in città, per musei e gallerie. Visitando Milano, Padova, Venezia, Ravenna, Firenze, Perugia, lo ebbi sempre con me, come un'ombra, quel mio nonnino fantasticato, che più d'una volta mi parlò anche per bocca d'un vecchio cicerone. Ma io volevo vivere anche per me, nel presente. M'assaliva di tratto in tratto l'idea di quella mia libertà sconfinata, unica, e provavo una felicità improvvisa, così forte, che quasi mi ci smarrivo in un beato stupore; me la sentivo entrar nel petto con un respiro lunghissimo e largo, che mi sollevava tutto lo spirito. Solo! solo! solo! padrone di me! senza dover dar conto di nulla a nessuno! Ecco, potevo andare dove mi piaceva: a Venezia? a Venezia! a Firenze? a Firenze!; e quella mia felicità mi seguiva dovunque. Ah, ricordo un tramonto, a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po, presso al ponte che ritiene per una pescaja l'impeto delle acque che vi fremono irose: l'aria era d'una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza; e io, guardando, mi sentii così ebro della mia libertà, che temetti quasi d'impazzire, di non potervi resistere a lungo. Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi, scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere. « Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così... Ma, via' che te n'importa? Va benone! Se non fosse per quest'occhio di lui di quell'imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella stranezza un po' spavalda della tua figura. Fai un po' ridere le donne, ecco. Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell'altro non avesse portato i capelli così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne ridono... ridi anche tu: è il meglio che possa fare. » Vivevo, per altro, con me e di me, quasi esclusivamente. Scambiavo appena qualche parola con gli albergatori, coi camerieri, coi vicini di tavola, ma non mai per voglia d'attaccar discorso. Dal ritegno anzi che ne provavo, mi accorsi ch'io non avevo affatto il gusto della menzogna. Del resto, anche gli altri mostravan poca voglia di parlare con me: forse a causa del mio aspetto, mi prendevano per uno straniero. Ricordo che, visitando Venezia, non ci fu verso di levar dal capo a un vecchio gondoliere ch'io fossi tedesco, austriaco. Ero nato, sì, nell'Argentina ma da genitori italiani. La mia vera, diciamo così « estraneità » era ben altra e la conoscevo io solo: non ero più niente io; nessuno stato civile mi registrava, tranne quello di Miragno, ma come morto, con l'altro nome. Non me n'affliggevo; tuttavia per austriaco, no, per austriaco non mi piaceva di passare. Non avevo avuto mai occasione di fissar la mente su la parola « patria ». Avevo da pensare a ben altro, un tempo! Ora, nell'ozio cominciavo a prender l'abitudine di riflettere su tante cose che non avrei mai creduto potessero anche per poco interessarmi. Veramente, ci cascavo senza volerlo, e spesso mi avveniva di scrollar le spalle, seccato. Ma di qualche cosa bisognava pure che mi occupassi, quando mi sentivo stanco di girare, di vedere. Per sottrarmi alle riflessioni fastidiose e inutili, mi mettevo talvolta a riempire interi fogli di carta della mia nuova firma, provandomi a scrivere con altra grafia, tenendo la penna diversamente di come la tenevo prima. A un certo punto però stracciavo la carta e buttavo via la penna. Io potevo benissimo essere anche analfabeta! A chi dovevo scrivere? Non ricevevo né potevo più ricever lettere da nessuno. Questo pensiero, come tanti altri del resto, mi faceva dare un tuffo nel passato. Rivedevo allora la casa, Ia biblioteca, le vie di Miragno, la spiaggia; e mi domandavo: « Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse sì per gli occhi del mondo. Che farà? ». E me la immaginavo, come tante volte e tante l'avevo veduta là per casa; e m'immaginavo anche la vedova Pescatore, che imprecava certo alla mia memoria. « Nessuna delle due, » pensavo, « si sarà recata neppure una volta a visitar nel cimitero quel pover'uomo, che pure è morto così barbaramente. Chi sa dove mi hanno seppellito! Forse la zia Scolastica non avrà voluto fare per me la spesa che fece per la mamma; Roberto, tanto meno; avrà detto: - Chi gliel'ha fatto fare? Poteva vivere infine con due lire al giorno, bibliotecario -. Giacerò come un cane, nel campo dei poveri... Via, via, non ci pensiamo! Me ne dispiace per quel pover'uomo, il quale forse avrà avuto parenti più umani de' miei che lo avrebbero trattato meglio. - Ma, del resto, anche a lui, ormai, che glien'importa? S'è levato il pensiero! » Seguitai ancora per qualche tempo a viaggiare. Volli spingermi oltre l'Italia; visitai le belle contrade del Reno, fino a Colonia, seguendo il fiume a bordo d'un piroscafo; mi trattenni nelle città principali: a Mannheim, a Worms, a Magonza, a Bingen, a Coblenza... Avrei voluto andar più sù di Colonia, più sù della Germania, almeno in Norvegia; ma poi pensai che io dovevo imporre un certo freno alla mia libertà. Il denaro che avevo meco doveva servirmi per tutta la vita, e non era molto. Avrei potuto vivere ancora una trentina d'anni; e così fuori d'ogni legge, senza alcun documento tra le mani che comprovasse, non dico altro, la mia esistenza reale, ero nell'impossibilità di procacciarmi un qualche impiego; se non volevo dunque ridurmi a mal partito, bisognava che mi restringessi a vivere con poco. Fatti i conti, non avrei dovuto spendere più di duecento lire al mese: pochine; ma già per ben due anni avevo anche vissuto con meno, e non io solo. Mi sarei dunque adattato. In fondo, ero già un po' stanco di quell'andar girovagando sempre solo e muto. Istintivamente cominciavo a sentir il bisogno di un po' di compagnia. Me ne accorsi in una triste giornata di novembre, a Milano, tornato da poco dal mio giretto in Germania. Faceva freddo, ed era imminente la pioggia, con la sera. Sotto un fanale scorsi un vecchio cerinajo, a cui la cassetta, che teneva dinanzi con una cinta a tracolla, impediva di ravvolgersi bene in un logoro mantelletto che aveva su le spalle. Gli pendeva dalle pugna strette sul mento un cordoncino, fino ai piedi. Mi chinai a guardare e gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente, lì rincantucciato. Povera bestiolina! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi rispose di sì e che me l'avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto: ah, si sarebbe fatto un bel cane, un gran cane, quella bestiola: - Venticinque lire... Seguitò a tremare il povero cucciolo, senza inorgoglirsi punto di quella stima: sapeva di certo che il padrone con quel prezzo non aveva affatto stimato i suoi futuri meriti, ma la imbecillità che aveva creduto di leggermi in faccia. Io intanto, avevo avuto il tempo di riflettere che, comprando quel cane, mi sarei fatto sì, un amico fedele e discreto, il quale per amarmi e tenermi in pregio non mi avrebbe mai domandato chi fossi veramente e donde venissi e se le mie carte fossero in regola; ma avrei dovuto anche mettermi a pagare una tassa: io che non ne pagavo più! Mi parve come una prima compromissione della mia libertà, un lieve intacco ch'io stessi per farle. - Venticinque lire? Ti saluto! - dissi al vecchio cerinajo. Mi calcai il cappellaccio su gli occhi e, sotto la pioggerella fina fina che già il cielo cominciava a mandare, m'allontanai, considerando però, per la prima volta, che era bella, sì, senza dubbio, quella mia libertà così sconfinata, ma anche un tantino tiranna, ecco, se non mi consentiva neppure di comperarmi un cagnolino.

 

capitulo 8 - adriano meis Inmediatamente, no tanto por engañar a los demás, que habían querido engañarse a sí mismos con una ligereza, no deplorable quizá en mi caso, pero de todas formas nada digna de encomio, cuanto por obedecer a la fortuna y satisfacer un anhelo mío, puse manos a la obra de hacer de mí otro hombre. Poco o nada tenía que ufanarme de aquel desgraciado al cual se habían empeñado en hacerle acabar miserablemente sus días en la presa de un molino. Con tantas sandeces y simplezas como en vida había cometido, quizá no fuere digno de mejor suerte. Lo que yo quería ahora era que no sólo en lo exterior, pero ni tampoco por dentro, me quedase a mí el menor resabio de él. Era ahora solo en el mundo, solo como más no era posible serlo, desligado de todo lazo y de toda obligación, libre, flamante y absolutamente dueño de mi persona, sin tener que cargar más en lo sucesivo con el peso de mi pasado, y con el porvenir ante mí, para forjarlo a la medida de mi deseo. ¡Oh! ¡Y qué par de alas me parecía tener! ¡Qué ligero me sentía! El concepto que mis pasadas vicisitudes habíanme hecho formar de la vida debía ya para mí en adelante ser letra muerta. Yo debía granjearme ahora un nuevo sentido de la vida, sin poner a contribución lo más mínimo la lamentable experiencia del difunto Matías Pascal. Era dueño de mí; podía y debía erigirme en artífice de mi nuevo destino, en la medida que la Fortuna habíase dignado concederme. «Y, ante todo —decíame a mí mismo—, seré celosísimo de mi libertad: la sacaré a paseo por caminos llanos y siempre nuevos, y jamás la cargaré con vestiduras gravosas. Cerraré los ojos y pasaré de largo en cuanto el espectáculo de la vida me resulte desagradable. Procuraré habérmelas más bien con las cosas que se suelen llamar inanimadas, y me echaré a la búsqueda de hermosos panoramas y de parajes plácidos y amenos. Poco a poco me iré dando a mí mismo una educación nueva; me transformaré con amoroso y paciente estudio, de forma que a lo último pueda decir con razón, no sólo que he vivido dos vidas, sino que he sido dos hombres.» Empecé por entrar en una peluquería poco antes de dejar a Alenga, para que me recortasen la barba; de buena gana me la hubiera afeitado del todo allí mismo, en unión de los bigotes, y si no lo hice fue por el temor a dar que sospechar en aquel poblacho. El peluquero hacía también funciones de sastre, y era un hombre ya de edad, con los riñones casi derrengados en fuerza de estar encorvado siempre en la misma postura, y unas antiparras cabalgándole en la punta misma de la nariz. Debía de ser mejor sastre que barbero. Cual un azote de Dios cerró contra aquellas barbas, que no me pertenecían ya, pertrechado de unas tijeras como de cardador, que requerían para su empleo la ayuda de la otra mano. Yo no me atrevía ni siquiera a resollar; cerré los ojos, y no volví a abrirlos hasta que el fígaro no me zarandeó suavemente, dándome a entender que ya había terminado. El bueno del hombre me ponía delante un espejito para que le dijera si me había dejado a mi gusto. ¡Aquello parecióme demasiado! —No, gracias —repliquéle, defendiéndome—. Vuelva a ponerlo en su sitio. No quiero asustarlo. Abrió los ojos como tazas, y me preguntó: —¿A quién? —¡Pues al espejito, hombre! ¡Es muy majo! Debe de ser antiguo... Era redondo y con el mango de hueso taraceado. ¡Quién sabe la historia que tendría y cómo habría ido a parar allí, a aquella sastropeluquería. Pero, en fin, por no disgustar al maestro, que seguía mirándome estupefacto, cogí el espejito y me lo puse delante de los ojos. ¡Que si me había dejado a mi gusto! A la primera ojeada comprendí qué clase de monstruo iba a salir de aquella necesaria y radical alteración de las señas personales de Matías Pascal. ¡Una razón más para odiarle! La barbilla, muy chiquita, en punta y metida, que por espacio de tantos años llevara escondida debajo de aquellas barbazas, parecióme una traición. ¡Ahora tendría que llevarla al descubierto! ¡Y qué decir de la nariz que me había dejado en herencia! Pues ¡y aquel ojo! «¡Ah! Lo que es éste —pensé—, siempre será el mismo, y mirará a otro lado, por más que yo cambie de cara. No me queda otro recurso que disimularlo lo mejor que pueda con unos lentes colorados, que contribuirán, seguramente, a agraviarme. Me dejaré crecer el pelo, y con esta frente tan hermosa y despejada, con los lentes y todo afeitado, pareceré un filósofo alemán.» No había término medio: por fuerza había de ser filósofo con aquella condenada facha. ¡Paciencia! Me pertrecharla de una discreta y sonriente filosofía para cruzar por en medio de esta pobre humanidad, que, por más que yo hiciese, parecíame difícil no me resultase en lo sucesivo un tanto ridícula y menguada. El nombre se me ofreció en el tren, a las pocas horas de haber partido de Alenga con rumbo a Turín. Viajaba yo con dos individuos que discutían con mucho calor de Iconografía cristiana, haciendo ambos alarde de mucha erudición, para lo que un profano como yo podía apreciar. Uno de ellos, el más joven, que tenía una cara muy pálida, oprimida por unas barbas broncas y pobladas, parecía experimentar grande y particular satisfacción al sostener la opinión, que, según él, era antiquísima y contaba en su abono con la autoridad de Justino Mártir, Tertuliano y no sé cuantos doctores más de haber sido Jesucristo muy feo. Hablaba con una vocecilla cavernosa, que formaba extraño contraste con su aire de iluminado. —Pero ¡si Cirilo de Alejandría llega hasta el extremo de afirmar que Cristo fue el hombre más feo del mundo! El otro, que era un viejecito muy flaco, plácido en su palidez ascética, pero con un frunce en las comisuras de la boca, que era indicio de sutil ironía, sentado casi sobre el espinazo, con el largo cuello tendido como bajo un yugo, sostenía, por el contrario, que no había que fiar en los textos antiguos. —Porque la Iglesia, en los primeros siglos, atenta exclusivamente a asimilarse la doctrina y el espíritu de su inspirador, apenas si paraba mientes en su figura corpórea. En el curso de la discusión hubieron de sacar a relucir a la Verónica y a dos estatuas de la ciudad de Paneade, que eran tenidas por imágenes de Cristo y de la piadosa mujer. —¡Pero, hombre, si hoy ya no cabe duda! —saltó el joven barbado—. Esas dos estatuas representan al emperador Adriano con la ciudad arrodillada a sus pies. El viejecillo obstinábase en sostener pacíficamente su opinión, que debía de ser contraria, pues el otro, mirándome, continuaba diciendo: —¡Adriano! —...Beronike, en griego. Y de Beronike, pues Verónica... —¡Adriano! (a mí). —O también Verónica, Veranicon; deformación muy probable. — ¡Adriano! (a mí). —Porque la Beroníke de las Actas de Pilatos... —¡Adriano! Repitió así “¡Adriano!” no sé cuántas veces, y siempre mirándome a mí. Luego que ambos se hubieron apeado en una estación, dejándome solo en el coche, asoméme a la ventanilla por seguirlos con la mirada, y al salir del andén iban todavía discutiendo; pero al llegar a cierto punto perdió el viejo la paciencia y puso pies en polvoroso. —¿Quién lo dice? —preguntóle recio el joven, parándose en seco con aire de desafío. El otro se volvió para gritarle: —¡Camilo de Meis! Parecióme como si aquel nombre me lo brindase también a mí, que aun seguía repitiendo maquinalmente: «Adriano»... Inmediatamente arrojé lejos de mí el de, y me quedé únicamente con el Meis. —Adriano Meis. ¡Sí! ... Adriano Meis. ¡Suena bien! ... Parecióme también que ese nombre había de hacer muy buenas migas con la cara rapada y los lentes y el pelo largo, y el chambergo que pensaba adoptar. —¡Adriano Meis! ¡Magnífico! ¡Esos tipos me han bautizado! Borrado por completo de mi memoria todo recuerdo de mi vida anterior, resueltísimo a dar principio desde aquel punto y hora a una nueva vida, sentíame como penetrado y arrebatado de una ingenua e infantil alegría; parecíame como si tuviese virgen y transparente la conciencia, y el espíritu vigilante y pronto a sacar de todo provecho para la construcción de mi yo nuevo. Entre tanto, alborozábaseme también el alma con la alegría de aquella liberación. Jamás había visto de aquel modo los hombres y las cosas; habíase como desvanecido por ensalmo el aire que entre ellos y yo se interponía, y se me antojaban llanas y ligeras las nuevas relaciones que habían de establecerse entre nosotros, ya que en lo sucesivo bien poco necesitaría yo pedirles para mi íntimo goce. ¡Oh, y qué gustosa ligereza del alma! ¡Oh, qué embriaguez tan serena e inefable! La Fortuna habíame desligado de toda traba: de golpe y porrazo me había sacado de la vida común y héchome espectador desinteresado de la lucha en que los demás seguían empeñados, diciéndome con voz admonitoria: “¡Ya verás cómo ahora, que has de mirarla desde lejos, te parece cunosa esa porfía! Y si no, ahí tienes a ése, que se echa a perder el hígado y pone en trance de coger una rabieta a un pobrecito viejo, con tal de sostener que Jesucristo fue el hombre más feo del mundo.» Yo sonreía. Me sonreía ahora de todo, y a todo le sonreía. Sonreía a los árboles del campo, que me salían al encuentro con peregrinas actitudes en su fuga ilusoria; a las villas desperdigadas acá y allá, donde me placía imaginarme colonos con las mejillas hinchadas de tanto soplar contra la niebla, enemiga de los olivos, y con los puños alzados al cielo, que no se dignaba enviarles agua; y les sonreía también a las avecinas, que se desbandaban, asustadas de aquel fragoroso monstruo negro que se les venía encima; al vibrar de los hilos telegráficos, por los cuales se transmitían a los periódicos ciertos infundios, como el de mi suicidio en el molino de La Cabaña; a las pobres guardabarreras, que mostraban al paso del tren la banderita enrollada, preñadas y con el sombrero del marido a la cabeza. Hasta que de pronto hube de reparar en el anillo de casado que llevaba todavía en el anular de la mano. Hízome aquello una impresión violentísima; cerré los ojos, me cogí la mano aquella con la otra, tirando a quitarme aquél aro de oro como a hurtadillas. Luego recordé que el tal anillo se abría y que en su interior había grabados dos nombres: Matías—Romilda; y la fecha del matrimonio. ¿ Qué debía hacer con él? Abrí los ojos y permanecí un rato contemplando el anillo con gesto avinagrado. A mi alrededor había vuelto a hacerse la sombra. ¡Aquél era todavía un resto de la cadena que me ataba al pasado! ¡Qué anillito tan liviano de por sí, y, sin embargo, tan pesado! Pero ya que se había roto la cadena, era menester tirar también a lo lejos aquel último eslabón. Disponíame ya a arrojarlo por la ventanilla; pero me contuve. Tan excepcionalmente favorecido de la casualidad, no podía ya fiar en ella, pues de allí en adelante todo debía parecerme posible, incluso que un anillito tirado en mitad del campo fuera a parar casualmente a manos de un rústico, que a su vez se lo enseñase a otro, con aquellos dos nombres y la fecha que llevaba grabados en su interior, y por los cuales podría descubrirse la verdad; a saber: que el ahogado de La Cabaña no era el bibliotecario Matías Pascal. «No, no —pensé—; hay que dejarlo en lugar más seguro... Pero ¿dónde? En esto paró el tren en otra estación. Miré, y al momento ocurrióseme una idea que al principio tuve cierto reparo de poner por obra. Digo esto para que me sirva de disculpa con esas personas que gustan del gesto gallardo; gente poco reflexiva, que se complace en no recordar que la Humanidad se halla sujeta a ciertas necesidades, a las que ha de obedecer hasta el hombre más penetrado de un pesar profundo. César, Napoleón y, por más indigno que parezca, hasta la mujer más hermosa... Basta. En un lado ponía Caballeros, y en el otro, Señoras; bueno, pues allí di sepultura al anillo de casado. Luego, no tanto por distraerme, cuanto por ver de darle cierta consistencia a mi nueva vida que campaba en el vacío, púseme a pensar en Adriano Meis, y a imaginarle un pasado, y a preguntarme quién fue su padre, dónde nació, etc., muy tranquilamente, esforzándome por verlo todo claro y concretarlo bien, con sus más nimios pormenores. Era hijo único; sobre esto parecíame ociosa toda discusión. —Más único que yo lo era... Y, sin embargo, no; ¡que quién sabe cuántos hermanos tengo por esos mundos en la misma situación que yo! Hermanos que dejaron el sombrero y la americana con una cartita en el bolsillo, en el pretil de un puente, y luego, en vez de tirarse de cabeza al río, se marcharon tranquilamente a América. A los pocos días aparece flotando sobre las aguas un cadáver desfigurado, irreconocible, y todo el mundo piensa: «¿Será el del suicida que dejó aquella carta en el pretil del puente?» ¡Y ya no se habla más del asunto! Cierto que yo no he obrado con arreglo a mi voluntad; ni cartita, ni chaqueta, ni sombrero... Pero eso no obsta para que me encuentre en la misma situación que esos falsos suicidas, a los que además les llevó la ventaja de poder disfrutar de mi libertad sin pizca de remordimiento. Ha sido un regalo que me han hecho... Así que pongamos hijo único. Natural de... Lo más prudente sería no concretar lugar alguno de nacimiento. Pero ¿cómo arreglárselas entonces? No hay quien haya nacido en las nubes, teniendo por comadrona a la Luna, a pesar de haber yo leído en la Biblioteca Boccamazza que los antiguos, amén de otras funciones, atribuíanle también las de partera a la Luna, por lo que las mujeres preñadas la invocaban con el nombre de Lucina. En las nubes, no; pero a bordo de un barco... Sí; a bordo de un barco se puede venir al mundo. Nada, ya está. En un barco nací yo. Mis padres habían emprendido un viaje... Para que yo naciera a bordo de un barco. Pero dejémonos de cuchufletas...; pensemos algo en serio. Una razón plausible para justificar el que una señora encinta y próxima a dar a luz emprendiese un viaje... ¿Que mis padres habían decidido emigrar a América? ¿Por qué no? ¿No emigran tantos?... Hasta el pobrecillo de Matías Pascal quería tomar el tole para América... Y entonces estas 82.000 liras ¿diremos que se las había ganado allá mi padre?... ¡Pero no! ... Con 82.000 liras hubiera esperado, antes de embarcarse, a que su mujer diera a luz con toda comodidad en tierra firme. Y, además, que un inmigrante no logra reunir tan fácilmente en América 82.000 liras. Mi padre... —y a propósito: ¿cómo se llamaba mi padre? Pues Pablo. Eso es: Pablo Meis—. Mi padre, Pablo Meis, habíase engañado como tantos otros. Tres, cuatro años anduvo bregando el pobre con la perra vida, hasta que, ya en el colmo de la miseria, escribióle desde Buenos Aires una carta a mi abuelo... Sí, al abuelo; yo tenía que haberlo conocido también; debía de ser un viejecito por el estilo de aquel que acababa de apearse del tren y que tan enterado parecía en materia de Iconografía cristiana. ¡Caprichos misteriosos de la fantasía! ¿Por qué inexplicable necesidad y de dónde tomaba yo pie para imaginarme en aquel instante a mi padre, a aquel pobre Pablo Meis, como una bala perdida? Pero, sí, ya caigo. ¡Era que le había dado tantos disgustos al abuelito! Habíase casado contra su voluntad y marchádose a América. Seguramente sería también de opinión que Cristo había sido muy feo. Y muy feo en verdad y muy ceñudo habíalo visto allá en América cuando, teniendo a la mujer en vísperas de parto, apenas hubo recibido el socorro que el abuelo le mandaba, embarcóse para Europa. Pero ¿por qué diantre había tenido que nacer yo durante la travesía? ¿No hubiera sido mejor darme por nacido en América, en la Argentina, pocos meses antes de haberse vuelto a la patria mis padres? ¡Sí! Eso es, precisamente; al abuelito habíale enternecido la inocencia del nietecillo, y por mí, únicamente por mí, había accedido a perdonar al hijo descastado. De suerte que yo había cruzado el charco, muy pequeñito todavía, y quizá en tercera clase, habiendo pescado durante la travesía una bronquitis, de la que por milagro escapé con vida. ¡Eso es! ¡Como que siempre me lo estaba recordando el abuelito! Sin embargo, yo no debía quejarme, cual suele hacer la gente, de no haberme muerto, cuando sólo tenía unos meses. No; porque, en resumidas cuentas, ¿qué dolores había tenido yo que sufrir en esta vida? Tan solamente uno, a decir verdad: el de la muerte de mi pobre abuelito, con el cual habíame criado. Porque mi padre, Pablo Meis, hombre aturdido e incapaz de aguantar un yugo, había vuelto a marcharse a América a los pocos meses, dejándonos a mi madre y a mí con el abuelito; y allá, en América, habíaselo llevado al otro barrio la fiebre amarilla. A los tres años habíame quedado yo huérfano también de madre, por lo cual apenas si recordaba a los autores de mis días, no conservando de ellos más que esta ligera idea. Y no paraba ahí la cosa, sino que ni siquiera sabía a punto fijo el lugar donde se meció mi cuna. ¡Había sido en la Argentina, sí! Pero ¿dónde? El abuelito tampoco lo sabía, o por no habérselo dicho nunca mi padre, o por habérsele ido de la memoria; y yo no podía recordarlo. Resumiendo: A) Hijo único de Pablo Meis. B) Nacido en América, en la Argentina, sin más indicación. C) Llegado a Italia de unos meses (bronquitis). D) Sin recuerdo ni casi noticia de los padres. E) Criado con el abuelo. ¿Dónde? Pues de acá para allá. Primero, en Niza. Recuerdos confusos: Piazza Massena, La Promenade, Avenue de la Gare... Luego en Turín. A este último punto iba ahora, revolviendo en la mente muchos proyectos; proponíame buscar una calle y una casa determinadas, donde el abuelo habíame tenido hasta edad de diez años, encomendado a una familia que ya me encargaría yo de inventarla allí, sobre el terreno, para que así tuviese más color local, como se dice ahora; y me proponía también vivir, o mejor dicho, seguir allí con la fantasía, en su tinta, la vida de Adrianito Meis cuando era pequeñín. Estas pesquisas, esta construcción fantástica de una vida no vivida realmente, sino recogida poco a poco sobre el terreno y de boca ajena, y sentida como propia, procuróme una alegría extraña v nueva, no exenta de cierta tristeza, en mis primeros tiempos de vagabundeo. Sólo que hice de ella una ocupación. Vivía, no sólo en el presente, sino también en el pasado, por aquellos años que Adriano Meis no había vivido. De todo aquello que a lo primero urdiera no se me quedó nada, o sólo muy poca cosa. No se inventa nada, en verdad, que no tenga alguna raíz, más o menos profunda, en la realidad; y hasta las cosas más peregrinas pueden ser verdaderas; mejor dicho, no hay fantasía capaz de concebir ciertos desatinos, ciertas inverosímiles aventuras que brotan del seno tumultuoso de la vida misma; pero, sin embargo, ¡cuán distinta no resulta la realidad viva y palpitante de todas esas invenciones que de ella podamos sacar! ¡De cuántas cosas sustanciales, sumamente nimias e inimaginables, no necesita nuestra ficción para convertirse nuevamente en aquella misma realidad de donde la sacamos! ¡De cuántos hilos que vuelvan a unirla con la enmarañadísima madeja de la vida, y que nosotros habíamos cortado con el fin de darle independencia! Ahora bien: ¿qué era yo, sino un hombre inventado? Una ficción ambulante que quería y, además, necesitaba por fuerza que tener una vida propia, aunque basada en la realidad. Asistiendo al espectáculo de la vida arena v observándola al pormenor, percibía sus infinitos eslabones, y al mismo tiempo veía muchos de mis hilos destrozados. ¿Podría yo volver a anudar con la realidad estos cabos sueltos? ¡Quién sabe adónde me arrastrarían! Pudiera ser que de pronto se volviesen riendas de desbocados corceles que dieran en el fondo de un precipicio con el mísero carro de mi forzada ficción. No. Lo que yo debía hacer era anudar estos cabos sueltos solamente con la imaginación. Y por calles y jardines íbame a la zaga de los chiquillos de cinco a diez años, y estudiaba sus ademanes y sus juegos, y retenía en la memoria sus expresiones, a fin de poder construir poco a poco la imaginada infancia de Adriano Meis. Y logrélo tan bien, que, por último, esa niñez fantástica cobró en mi mente consistencia como de cosa real. No quise imaginarme otra madre. Hubiérame parecido que profanaba la memoria viva y dolorosa de mi madre verdadera. Pero mi abuelo, sí; al abuelito de mis primeras fantasías sí me empeñé en crearlo de pies a cabeza. ¡Oh, y de cuántos abuelitos verdaderos, de cuántos viejecillos a los cuales fui siguiendo y estudiando por las calles de Turín, Milán, Venecia y Florencia, vino a componerse aquel abuelito mío! Cogíale a uno la tabaquera; a otro el bastoncillo; a estotro los lentes y la sotabarba; a un cuarto el modo de andar y de sonarse las narices, y a un quinto el de hablar y reír; y con todo ello hice como resultante un viejecito muy pulido, un tanto gruñón, amante de las artes; un abuelito sin prejuicios, que no quiso que yo siguiera un curso regular de estudios, prefiriendo enseñarme él de palabra, y llevarme consigo, de acá para allá, por museos y bibliotecas. Con él a mi lado, como una sombra, visité Milán, Padua, Venecia, Rávena, Florencia, Perusa, y aquel abuelito fantástico acompañábame siempre, hablándome a veces por boca de un cicerone viejo. Pero yo quería vivir también por mi cuenta en el presente. De cuando en cuando asaltábame la idea de aquella libertad mía, ilimitada, única, y experimentaba una inesperada alegría, tan violenta, que me causaba algo así como un vértigo; sentíala entrárseme por el pecho con un suspiro larguísimo y amplio que me levantaba el alma toda. ¡Solo! ¡Solo! ¡Solo! ¡Dueño absoluto de mis actos! ¡Sin tener que darle cuentas a nadie! ¡A nadie! Podía ir a donde quisiera. ¿A Venecia? ¡Pues a Venecia! ¿A Florencia? ¡Pues a Florencia! Y a todas partes me seguía esa felicidad. ¡Ah! Recuerdo cierta tarde, en Turín, a los primeros meses de mi nueva vida, a orillas del Lungo Po, junto al puente que con un dique contiene el envite de las aguas que fragorosas bullen. Era el aire de maravillosa transparencia; las cosas todas, en sombra, parecían esmaltadas por efecto de aquella limpidez, y yo, contemplando aquel espectáculo, sentíme tan dichoso, tan embriagado de libertad, que hasta temí volverme loco, no poder resistir por más tiempo. Había ya consumado de pies a cabeza mi transformación exterior; todo afeitado, con unos lentes de color azul claro y el pelo largo, artísticamente revuelto, ¡parecía enteramente otro! Deteníame a veces a hablarme a mí mismo delante de un espejo y no podía contener la risa. “¡Adriano Meís! ¡Para ti es la vida! ¡Qué lástima que tengas que ir hecho un adefesio! ... Pero, después de todo, ¿qué más te da? Ruede la bola. Si no fuera por este ojo que conservas de aquel otro, de aquel bestia, no resultarías tan feo, después de todo, pese a lo estrafalario de tu figura. Cierto que mueves a risa a las señoras. Pero de ello no tienes tú, en el fondo, la culpa. Si aquel otro tío no hubiera gastado el pelo corto no te verías obligado ahora a llevar tu melena; y también me consta que no vas así de afeitado como un cura por tu gusto. ¡Paciencia! Cuando las bellas rían... ríete tú también; es lo mejor que hacer puedes.» Vivía, por lo demás, conmigo y de mi sustancia. Apenas si cruzaba la palabra con los fondistas, camareros y vecinos de mesa, y jamás entablaba con ellos conversación seguida. Es más: de la cortedad que experimentaba hube de inferir que no era yo dado a la mentira. Esto aparte de que tampoco los demás mostraban mucha gana de pegar conmigo la hebra, acaso porque, al ver mi rara estampa, tomábanme por extranjero. Recuerdo que estando en Venecia tropecé con un anciano gondolero que se empeñó en que yo era alemán o austríaco, sin que hubiera forma de sacarlo de su error. Yo había nacido en la Argentina, sí, señor; pero de padres italianos. Mi verdadera «rareza», digámoslo así, era muy otra, y sólo yo la sabía: que yo no era ya yo; en ningún registro civil constaba mi persona, excepto en el de Miragno, sólo que como muerto y con otro nombre. No me pesaba de ello; aunque, la verdad, eso de que me tomaran por austríaco no me hacía ni pizca de gracia. Nunca tuve ocasión de pararme a pensar en el sentido de la palabra patria. ¡En aquel tiempo tenía yo otros quebraderos de cabeza! Pero ahora, que tenía ocio y vagar, iba dando en la flor de ponerme a meditar sobre una porción de cosas que nunca hubiera pensado que pudieran interesarme lo más mínimo. A decir verdad, paraba mientes en ellas sin querer, y las más de las veces concluía por encogerme de hombros, contrariado. Pero en algo tenía que ocupar el pensamiento cuando me cansaba de dar vueltas y ver cosas. Para sustraerme a las reflexiones molestas e inútiles solía ponerme a emborronar pliegos enteros de papel con mi nueva firma, ensayándome a escribir con otra letra, para lo cual cogía la pluma de modo distinto a como antes lo hiciera. Sólo que luego rasgaba de pronto el papel y tiraba la pluma. ¡Pero si yo podía pasar incluso por analfabeto! ¿A quién tenía yo que escribirle? Ni recibía ni podía recibir en la vida ya cartas de nadie. Este pensamiento, que no era el único tampoco, hacía que volviese la vista al pasado. Volvía a contemplar con la imaginación mi casa, la Biblioteca, las calles de Miragno y la playa, y preguntábame: «¿Seguirá todavía de luto Romilda? Puede que sí, por no dar que hablar a la gente. ¿Qué hará?» Y me la figuraba como tantas veces la viera en casa; y también me imaginaba a mi suegra, que seguramente hablaría pestes de mí. «Ninguna de las dos —pensaba— habrá ido ni siquiera una vez a hacer una visita en el cementerio a ese pobre hombre, con la muerte tan cruel que tuvo. ¡Quién sabe dónde me habrán enterrado! Quizá tía Escolástica no habrá querido gastar en mi entierro lo que gastó en el de mi madre; y mucho menos Roberto, el cual habrá dicho: «¿Quién le mandó matarse? Después de todo, de bibliotecario como estaba podía vivir con sus dos liras diarias de sueldo.» De forma que lo más probable es que me hayan echado a la fosa común lo mismo que a un perro... ¡Pero, en fin, no pensemos más en ello! Sólo lo siento por ese pobre hombre que quizá tuviera parientes más humanos que los míos y que lo hubieran tratado mejor... Aunque, después de todo, ¿qué le importa a él ya tampoco? Ese ya no piensa en nada.» Continué viajando algún tiempo. Pasé las fronteras de Italia; visité las hermosas comarcas del Rin hasta Colonia, siguiendo el curso del río a bordo de un barco; detúveme en las poblaciones principales: Mannheim, Worms, Maguncia, Bingen, Coblenza... De buena gana hubiera ido más allá de Colonia, internándome por Alemania y alargándome quizá hasta Noruega, sino que luego pensé que debía poner freno a mi libertad. Con el dinero que encima llevaba tenía que mantenerme por toda la vida, y no era gran cosa. Aun podía vivir unos treinta años; y en la situación en que me encontraba, al margen de toda ley, sin documento alguno que probase no ya otra cosa sino mi existencia real, hallame incapacitado para buscar ningún empleo; de suerte que, si no quería acabar mal, tenía que reducirme a una vida modesta. Echadas las cuentas, vi que no debía gastar más de doscientas liras al mes; cierto que era una mezquindad; pero ¿no había vivido ya dos años con menos y teniendo familia? En el fondo empecé ya a estar un poco cansado de aquel vagabundeo, siempre solo y sin hablar con nadie. Instintivamente, comenzaba a echar de menos algo de compañía. Lo noté un día de noviembre en Milán, recién llegado de mi excursión por Alemania. Hacía frío y amenazaba lluvia al caer la tarde. Al pie de un farol hube de ver a un viejo que vendía cerillas y que con la caja que llevaba colgada del cuello no podía arrebujarse bien en una raída capa que le cubría los hombros. De los puños, apretados junto a la barba, colgábale hasta los pies una cuerdecilla. Inclinéme a mirarlo mejor, y descubrí que entre las maltrechas botas tenía un perrito muy chiquito y como recién nacido, que tiritaba de frío y gimoteaba, acurrucado entre los pies del hombre. ¡Pobre animalito! Preguntéle al viejo si me lo vendía. Contestóme que sí y que me lo daría por muy poco, con todo y valer mucho, porque cuando fuera mayor sería una gran cosa: un perrazo de tomo y lomo. —Veinticinco liras... El pobre perrillo siguió tiritando, sin dar muestras de engreírse con aquellos elogios; sabía de seguro que su dueño, al pedirme por él ese precio, no rendía tributo a sus futuros méritos, sino a la sandez que había creído leerme en la cara. Yo, entre tanto, había tenido tiempo de reflexionar en que comprando aquel perro me haría, sí, de un amigo discreto y fiel, que para quererme y estimarme no había de preguntarme nunca quién yo fuese de verdad, ni de dónde venía, ni si tenía los papeles en regla. Pero al mismo tiempo de cargar con él había que pagar contribución por tenerlo; ¡yo que no pagaba ninguna! Tal reflexión aguóme la fiesta. Parecióme que iba a comprometer por vez primera mi libertad y que ya la estaba ofendiendo ligeramente. —¿Veinticinco liras? ¡Adiós! —díjele al cerillero viejo. Caléme el sombrero hasta los ojos, y bajo la fina llovizna que ya caía del cielo alejéme de allí, aunque considerando por vez primera que sí, que era hermosa, sin duda, aquella mi libertad ¡ limitada, pero también un poco tirana, ya que no me consentía ni siquiera comprarme un insignificante perrillo.






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