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XI: Di sera, guardando il fiume
Man mano che la familiarità cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori. - Libero! - dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà. Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio. - Libertà... libertà... - mormoravo. - Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove? Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. « Ecco la vita! » pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand'era sola, fingeva di non accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch'io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle? Ecco, ella ora, posato l'annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell'atteggiamento, e bisogno di solitudine. Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: « Perché, del resto, » mi domandavo, « dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento forse un'umiliazione per lei. Forse ella rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno d'affittar camere e d'avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le faccio forse paura, povera bambina, con quest'occhio e con questi occhiali... ». Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo i libri, restavo un po' perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori, da quella noja smaniosa. Andavo, secondo l'ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l'impressione di sogno, d'un sogno quasi lontano, ch'io m'ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M'accostai a una di esse, e allora quell'acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità. Ritornando per via Borgo Nuovo, m'imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po' il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio: - Allegro! Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi. - Allegro! - ripeté, accompagnando l'esortazione con un gesto della mano che significava: « Che fai? che pensi? non ti curar di nulla! ». E s'allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro. A quell'ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch'esso mi aveva suscitati, l'apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m'intronarono: restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell'uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata. « Allegro! Si, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l'allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Ne so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d'esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà... Torniamo a casa! » Ma quella era la notte degl'incontri. Passando, poco dopo, per Tordinona quasi al bujo, intesi un forte grido, tra altri soffocati, in uno dei vicoli che sbucano in questa via. Improvvisamente mi vidi precipitare innanzi un groviglio di rissanti. Eran quattro miserabili, armati di nodosi bastoni, addosso a una donna da trivio. Accenno a quest'avventura, non per farmi bello d'un atto di coraggio, ma per dire anzi della paura che provai per le conseguenze di esso. Erano quattro quei mascalzoni, ma avevo anch'io un buon bastone ferrato. E vero che due di essi mi s'avventarono contro anche coi coltelli. Mi difesi alla meglio, facendo il mulinello e saltando a tempo in qua e in là per non farmi prendere in mezzo; riuscii alla fine ad appoggiar sul capo al più accanito un colpo bene assestato, col pomo di ferro: lo vidi vacillare, poi prender la corsa; gli altri tre allora, forse temendo che qualcuno stesse ormai per accorrere agli strilli della donna, lo seguirono. Non so come, mi trovai ferito alla fronte. Gridai alla donna, che non smetteva ancora di chiamare ajuto, che si stesse zitta; ma ella, vedendomi con la faccia rigata di sangue, non seppe frenarsi e, piangendo, tutta scarmigliata, voleva soccorrermi, fasciarmi col fazzoletto di seta che portava sul seno, stracciato nella rissa. - No, no, grazie, - le dissi, schermendomi con ribrezzo. - Basta... Non è nulla! Va', va' subito... Non ti far vedere. E mi recai alla fontanella, che è sotto la rampa del ponte lì vicino, per bagnarmi la fronte. Ma, mentr'ero lì, ecco due guardie affannate, che vollero sapere che cosa fosse accaduto. Subito, la donna, che era di Napoli, prese a narrare il « guajo che aveva passato » con me, profondendo le frasi più affettuose e ammirative del suo repertorio dialettale al mio indirizzo. Ci volle del bello e del buono, per liberarmi di quei due zelanti questurini, che volevano assolutamente condurmi con loro, perché denunziassi il fatto. Bravo! Non ci sarebbe mancato altro! Aver da fare con la questura, adesso! comparire il giorno dopo nella cronaca dei giornali come un quasi eroe, io che me ne dovevo star zitto, in ombra, ignorato da tutti... Eroe, ecco, eroe non potevo più essere davvero. Se non a patto di morirci... Ma se ero già morto! - E vedovo lei, scusi, signor Meis? Questa domanda mi fu rivolta a bruciapelo, una sera, dalla signorina Caporale nel terrazzino, dove ella si trovava con Adriana e dove mi avevano invitato a passare un po' di tempo in loro compagnia. Restai male, lì per lì; risposi: - Io no; perché? - Perché lei col pollice si stropiccia sempre l'anulare, come chi voglia far girare un anello attorno al dito. Cosi... E vero, Adriana? Ma guarda un po' fin dove vanno a cacciarsi gli occhi delle donne, o meglio, di certe donne, poiché Adriana dichiarò di non essersene mai accorta. - Non ci avrai fatto attenzione! - esclamò la Caporale. Dovetti riconoscere che, per quanto neanche io vi avessi fatto mai attenzione, poteva darsi che avessi quel vezzo. - Ho tenuto difatti, - mi vidi costretto ad aggiungere, - per molto tempo, qui, un anellino, che poi ho dovuto far tagliare da un orefice, perché mi serrava troppo il dito e mi faceva male. - Povero anellino! - gemette allora, storcignandosi, la quarantenne, in vena quella sera di lezii infantili. - Tanto stretto le stava? Non voleva uscirle più dal dito? Sarà stato forse il ricordo d'un... - Silvia! - la interruppe la piccola Adriana, in tono di rimprovero. - Che male c'è? - riprese quella. - Volevo dire d'un primo amore... Sù, ci dica qualche cosa, signor Meis. Possibile, che lei non debba parlar mai? - Ecco, - dissi io, - pensavo alla conseguenza che lei ha tratto dal mio vezzo di stropicciarmi il dito. Conseguenza arbitraria, cara signorina. Perché i vedovi, ch'io mi sappia, non sogliono levarsi l'anellino di fede. Pesa, se mai, la moglie, non l'anellino, quando la moglie non c'è più. Anzi, come ai veterani piace fregiarsi delle loro medaglie, così al vedovo, credo, portar l'anellino. - Eh sì! - esclamò la Caporale. - Lei storna abilmente il discorso. - Come! Se voglio anzi approfondirlo! - Che approfondire! Non approfondisco mai nulla, io. Ho avuto questa impressione, e basta. - Che fossi vedovo? - Sissignore. Non pare anche a te, Adriana, che ne abbia l'aria, il signor Meis? Adriana si provò ad alzar gli occhi su me, ma li riabbassò subito, non sapendo - timida com'era - sostenere lo sguardo altrui; sorrise lievemente del suo solito sorriso dolce e mesto, e disse: - Che vuoi che sappia io dell'aria dei vedovi? Sei curiosa! Un pensiero, un'immagine dovette balenarle in quel punto alla mente; si turbò, e si volse a guardare il fiume sottostante. Certo quell'altra comprese, perché sospirò e si volse anche lei a guardare il fiume. Un quarto, invisibile, era venuto evidentemente a cacciarsi tra noi. Compresi alla fine anch'io, guardando la veste da camera di mezzo lutto di Adriana, e argomentai che Terenzio Papiano, il cognato che si trovava ancora a Napoli, non doveva aver l'aria del vedovo compunto, e che, per conseguenza, quest'aria, secondo la signorina Caporale, la avevo io. Confesso che provai gusto che quella conversazione finisse così male. Il dolore cagionato ad Adriana col ricordo della sorella morta e di Papiano vedovo, era infatti per la Caporale il castigo della sua indiscrezione. Se non che, volendo esser giusti, questa che pareva a me indiscrezione, non era in fondo naturale curiosità scusabilissima, in quanto che per forza doveva nascere da quella specie di silenzio strano che era attorno alla mia persona? E giacché la solitudine mi riusciva ormai insopportabile e non sapevo resistere alla tentazione d'accostarmi a gli altri, bisognava pure che alle domande di questi altri, i quali avevano bene il diritto di sapere con chi avessero da fare, io soddisfacessi, rassegnato, nel miglior modo possibile, cioè mentendo, inventando: non c'era via di mezzo! La colpa non era degli altri, era mia; adesso l'avrei aggravata, è vero, con la menzogna; ma se non volevo, se ci soffrivo, dovevo andar via, riprendere il mio vagabondaggio chiuso e solitario. Notavo che Adriana stessa, la quale non mi rivolgeva mai alcuna domanda men che discreta, stava pure tutta orecchi ad ascoltare ciò che rispondevo a quelle della Caporale, che, per dir la verità, andavano spesso un po' troppo oltre i limiti della curiosità naturale e scusabile. Una sera, per esempio, lì nel terrazzino, ove ora solitamente ci riunivamo quand'io tornavo da cena, mi domandò, ridendo e schermendosi da Adriana che le gridava eccitatissima: - No, Silvia, te lo proibisco! Non t'arrischiare! - mi domandò: - Scusi, signor Meis, Adriana vuol sapere perché lei non si fa crescere almeno i baffi... - Non è vero! - gridò Adriana. - Non ci creda, signor Meis! E stata lei, invece... Io... Scoppiò in lagrime, improvvisamente, la cara mammina. Subito la Caporale cercò di confortarla, dicendole: - Ma no, via! che c'entra! che c'è di male? Adriana la respinse con un gomito: - C'è di male che tu hai mentito, e mi fai rabbia! Parlavamo degli attori di teatro che sono tutti... così, e allora tu hai detto: « Come il signor Meis! Chi sa perché non si fa crescere almeno i baffi?... », e io ho ripetuto: « Già, chi sa perché... ». - Ebbene, - riprese la Caporale, - chi dice « Chi sa perché... », vuol dire che vuol saperlo! - Ma l'hai detto prima tu! - protestò Adriana, al colmo della stizza. - Posso rispondere? - domandai io per rimetter la calma. - No, scusi, signor Meis: buona sera! - disse Adriana, e si alzò per andar via Ma la Caporale la trattenne per un braccio: - Eh via, come sei sciocchina! Si fa per ridere... Il signor Adriano è tanto buono, che ci compatisce. Non è vero, signor Adriano? Glielo dica lei... per che non si fa crescere almeno i baffi. Questa volta Adriana rise, con gli occhi ancora lagrimosi. - Perché c'è sotto un mistero, - risposi io allora alterando burlescamente la voce. - Sono congiurato! - Non ci crediamo! - esclamò la Caporale con lo stesso tono; ma poi soggiunse: - Però, senta: che è un sornione non si può mettere in dubbio. Che cosa è andato a fare, per esempio, oggi dopopranzo alla Posta? - Io alla Posta? - Sissignore. Lo nega? L'ho visto con gli occhi miei. Verso le quattro... Passavo per piazza San Silvestro... - Si sarà ingannata, signorina: non ero io. - Già, già, - fece la Caporale, incredula. - Corrispondenza segreta... Perché, è vero, Adriana?, non riceve mai lettere in casa questo signore. Me l'ha detto la donna di servizio, badiamo! Adriana s'agitò, seccata, su la seggiola. - Non le dia retta, - mi disse, rivolgendomi un rapido sguardo dolente e quasi carezzevole. - Né in casa, né ferme in posta! - risposi io. - E vero purtroppo! Nessuno mi scrive, signorina, per la semplice ragione che non ho più nessuno che mi possa scrivere. - Nemmeno un amico? Possibile? Nessuno? - Nessuno. Siamo io e l'ombra mia, su la terra. Me la son portata a spasso, quest'ombra, di qua e di là continuamente, e non mi son mai fermato tanto, finora, in un luogo, da potervi contrarre un'amicizia duratura. - Beato lei, - esclamò la Caporale, sospirando, - che ha potuto viaggiare tutta la vita! Ci parli almeno de' suoi viaggi, via, se non vuol parlarci d'altro. A poco a poco, superati gli scogli delle prime domande imbarazzanti, scansandone alcuni coi remi della menzogna, che mi servivan da leva e da puntello, aggrappandomi, quasi con tutte e due le mani, a quelli che mi stringevano più da presso, per girarli pian piano, prudentemente, la barchetta della mia finzione poté alla fine filare al largo e issar la vela della fantasia. E ora io, dopo un anno e più di forzato silenzio, provavo un gran piacere a parlare, a parlare, ogni sera, lì nel terrazzino, di quel che avevo veduto, delle osservazioni fatte, degli incidenti che mi erano occorsi qua e là. Meravigliavo io stesso d'avere accolto, viaggiando, tante impressioni, che il silenzio aveva quasi sepolte in me, e che ora, parlando, risuscitavano, mi balzavan vive dalle labbra. Quest'intima meraviglia coloriva straordinariamente la mia narrazione; dal piacere poi che le due donne, ascoltando, dimostravano di provarne, mi nasceva a mano a mano il rimpianto d'un bene che non avevo allora realmente goduto; e anche di questo rimpianto s'insaporava ora la mia narrazione. Dopo alcune sere, l'atteggiamento, il tratto della signorina Caporale erano radicalmente mutati a mio riguardo. Gli occhi dolenti le si appesantirono d'un languore così intenso, che richiamavan più che mai l'immagine del contrappeso di piombo interno, e più che mai buffo apparve il contrasto fra essi e la faccia da maschera carnevalesca. Non c'era dubbio: s'era innamorata di me la signorina Caporale! Dalla sorpresa ridicolissima che ne provai, m'accorsi intanto che io, in tutte quelle sere, non avevo parlato affatto per lei, ma per quell'altra che se n'era stata sempre taciturna ad ascoltare. Evidentemente però quest'altra aveva anche sentito ch'io parlavo per lei sola, giacché subito tra noi si stabilì come una tacita intesa di pigliarci a godere insieme il comico e impreveduto effetto de' miei discorsi sulle sensibilissime corde sentimentali della quarantenne maestra di pianoforte. Ma, con questa scoperta, nessun pensiero men che puro entrò in me per Adriana: quella sua candida bontà soffusa di mestizia non poteva ispirarne; provavo però tanta letizia di quella prima confidenza quale e quanta la delicata timidezza poteva consentirgliene. Era un fuggevole sguardo, come il lampo d una grazia dolcissima; era un sorriso di commiserazione per la ridicola lusinga di quella povera donna; era qualche benevolo richiamo ch'ella mi accennava con gli occhi e con un lieve movimento del capo, se io eccedevo un po', per il nostro spasso segreto, nel dar filo di speranza all'aquilone di colei che or si librava nei cieli della beatitudine, ora svariava per qualche mia stratta improvvisa e violenta. - Lei non deve aver molto cuore, - mi disse una volta la Caporale, - se è vero ciò che dice e che io non credo, d'esser passato finora incolume per la vita. - Incolume? come? - Sì, intendo senza contrarre passioni... - Ah, mai, signorina, mai! - Non ci ha voluto dire, intanto, donde le fosse venuto quell'anellino che si fece tagliare da un orefice perché le serrava troppo il dito... - E mi faceva male! Non gliel'ho detto? Ma si! Era un ricordo del nonno, signorina. - Bugia! - Come vuol lei; ma guardi, io posso finanche dirle che il nonno m'aveva regalato quell'anellino a Firenze, uscendo dalla Galleria degli Uffizi, e sa perché? perché io, che avevo allora dodici anni, avevo scambiato un Perugino per un Raffaello. Proprio così. In premio di questo sbaglio m'ebbi l'anellino, comprato in una delle bacheche a Ponte Vecchio. Il nonno infatti riteneva fermamente, non so per quali sue ragioni, che quel quadro del Perugino dovesse invece essere attribuito a Raffaello. Ecco spiegato il mistero! Capirà che tra la mano d'un giovinetto di dodici anni e questa manaccia mia, ci corre. Vede? Ora son tutto così, come questa manaccia che non comporta anellini graziosi. Il cuore forse ce l'avrei; ma io sono anche giusto, signorina; mi guardo allo specchio, con questo bel pajo d'occhiali, che pure sono in parte pietosi, e mi sento cader le braccia: « Come puoi tu pretendere, mio caro Adriano, » dico a me stesso, « che qualche donna s'innamori di te? ». - Oh che idee! - esclamò la Caporale. - Ma lei crede d'esser giusto, dicendo così? E' ingiustissimo, invece, verso noi donne. Perché la donna, caro signor Meis, lo sappia, è più generosa dell'uomo, e non bada come questo alla bellezza esteriore soltanto. - Diciamo allora che la donna è anche più coraggiosa dell'uomo, signorina. Perché riconosco che, oltre alla generosità, ci vorrebbe una buona dose di coraggio per amar veramente un uomo come me. - Ma vada via! Già lei prova gusto a dirsi e anche a farsi più brutto che non sia. - Questo è vero. E sa perché? Per non ispirare compassione a nessuno. Se cercassi, veda, d'acconciarmi in qualche modo, farei dire: « Guarda un po' quel pover'uomo: si lusinga d'apparir meno brutto con quel pajo di baffi! ». Invece, così, no. Sono brutto? E là: brutto bene, di cuore, senza misericordia. Che ne dice? La signorina Caporale trasse un profondo sospiro. - Dico che ha torto, - poi rispose. - Se provasse invece a farsi crescere un po' la barba, per esempio, s'accorgerebbe subito di non essere quel mostro che lei dice. - E quest'occhio qui? - le domandai. - Oh Dio, poiché lei ne parla con tanta disinvoltura, - fece la Caporale, - avrei voluto dirglielo da parecchi giorni: perché non s'assoggetta, scusi, a una operazione ormai facilissima? Potrebbe, volendo, liberarsi in poco tempo anche di questo lieve difetto. - Vede, signorina? - conclusi io. - Sarà che la donna è più generosa dell'uomo; ma le faccio notare che a poco a poco lei mi ha consigliato di combinarmi un'altra faccia. Perché avevo tanto insistito su questo discorso? Volevo proprio che la maestra Caporale mi spiattellasse lì, in presenza d'Adriana, ch'ella mi avrebbe amato, anzi mi amava, anche così, tutto raso, e con quell'occhio sbalestrato? No. Avevo tanto parlato e avevo rivolto tutte quelle domande particolareggiate alla Caporale, perché m'ero accorto del piacere forse incosciente che provava Adriana alle risposte vittoriose che quella mi dava. Compresi così, che, non ostante quel mio strambo aspetto, ella avrebbe potuto amarmi. Non lo dissi neanche a me stesso; ma, da quella sera in poi, mi sembrò più soffice il letto ch'io occupavo in quella casa, più gentili tutti gli oggetti che mi circondavano, più lieve l'aria che respiravo, più azzurro il cielo, più splendido il sole. Volli credere che questo mutamento dipendesse ancora perché Mattia Pascal era finito lì, nel molino della Stìa, e perché io, Adriano Meis, dopo avere errato un pezzo sperduto in quella nuova libertà illimitata, avevo finalmente acquistato l'equilibrio, raggiunto l'ideale che m'ero prefisso, di far di me un altr'uomo, per vivere un'altra vita, che ora, ecco, sentivo, sentivo piena in me. E il mio spirito ridiventò ilare, come nella prima giovinezza; perdette il veleno dell'esperienza. Finanche il signor Anselmo Paleari non mi sembrò più tanto nojoso: l'ombra, la nebbia, il fumo della sua filosofia erano svaniti al sole di quella mia nuova gioja. Povero signor Anselmo! delle due cose, a cui si doveva, secondo lui, pensare su la terra, egli non s'accorgeva che pensava ormai a una sola: ma forse, via! aveva anche pensato a vivere a' suoi bei dì! Era più degna di compassione la maestra Caporale, a cui neanche il vino riusciva a dar l'allegria di quell'indimenticabile ubriaco di Via Borgo Nuovo: voleva vivere, lei, poveretta, e stimava ingenerosi gli uomini che badano soltanto alla bellezza esteriore. Dunque, intimamente, nell'anima, ci sentiva bella, lei? Oh chi sa di quali e quanti sacrifizii sarebbe stata capace veramente, se avesse trovato un uomo « generoso »! Forse non avrebbe più bevuto neppure un dito di vino. « Se noi riconosciamo, » pensavo, « che errare è dell'uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia? » E mi proposi di non esser più crudele verso la povera signorina Caporale. Me lo proposi; ma, ahimè, fui crudele senza volerlo; e anzi tanto più, quanto meno volli essere. La mia affabilità fu nuova esca al suo facile fuoco. E intanto avveniva questo: che, alle mie parole, la povera donna impallidiva, mentre Adriana arrossiva. Non sapevo bene ciò che dicessi, ma sentivo che ogni parola, il suono, l'espressione di essa non spingeva mai tanto oltre il turbamento di colei a cui veramente era diretta, da rompere la segreta armonia, che già - non so come - s'era tra noi stabilita. Le anime hanno un loro particolar modo d'intendersi, d'entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso, quando veda l'impossibilità di soddisfarli e di tradurle in atto. E ogni qualvolta due che comunichino fra loro così, con le anime soltanto, si trovano soli in qualche luogo, provano un turbamento angoscioso e quasi una repulsione violenta d'ogni minimo contatto materiale, una sofferenza che li allontana, e che cessa subito, non appena un terzo intervenga. Allora, passata l'angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano. Quante volte non ne feci l'esperienza con Adriana! Ma l'impaccio ch'ella provava era allora per me effetto del natural ritegno e della timidezza della sua indole, e il mio credevo derivasse dal rimorso che la finzione mi cagionava, la finzione del mio essere, continua, a cui ero obbligato, di fronte al candore e alla ingenuità di quella dolce e mite creatura. La vedevo ormai con altri occhi. Ma non s'era ella veramente trasformata da un mese in qua? Non s'accendevano ora d'una più viva luce interiore i suoi sguardi fuggitivi? e i suoi sorrisi non accusavano ora men penoso lo sforzo che le costava quel suo fare da savia mammina, il quale a me da prima era apparso come un'ostentazione? Sì, forse anch'ella istintivamente obbediva al bisogno mio stesso, al bisogno di farsi l'illusione d'una nuova vita, senza voler sapere né quale né come. Un desiderio vago, come un'aura dell'anima, aveva schiuso pian piano per lei, come per me, una finestra nell'avvenire, donde un raggio dal tepore inebriante veniva a noi, che non sapevamo intanto appressarci a quella finestra né per richiuderla né per vedere che cosa ci fosse di là. Risentiva gli effetti di questa nostra pura soavissima ebrezza la povera signorina Caporale. - Oh sa, signorina, - diss'io a questa una sera, - che quasi quasi ho deciso di seguire il suo consiglio? - Quale? - mi domandò ella. - Di farmi operare da un oculista. La Caporale batté le mani, tutta contenta. - Ah! Benissimo! Il dottor Ambrosini! Chiami l'Ambrosini: è il più bravo: fece l'operazione della cateratta alla povera mamma mia. Vedi? vedi, Adriana, che lo specchio ha parlato? Che ti dicevo io? Adriana sorrise, e sorrisi anch'io. - Non lo specchio, signorina - dissi però. - S'è fatto sentire il bisogno. Da un po' di tempo a questa parte, l'occhio mi fa male: non mi ha servito mai bene; tuttavia non vorrei perderlo. Non era vero: aveva ragione lei, la signorina Caporale: lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito. Pochi giorni dopo, una scena notturna, a cui assistetti, nascosto dietro la persiana d'una delle mie finestre, venne a frastornarmi all'improvviso. La scena si svolse nel terrazzino lì accanto, dove mi ero trattenuto fin verso le dieci, in compagnia delle due donne. Ritiratomi in camera, m'ero messo a leggere, distratto, uno dei libri prediletti del signor Anselmo, su la Rincarnazione. Mi parve, a un certo punto, di sentir parlare nel terrazzino: tesi l'orecchio per accertarmi se vi fosse Adriana. No. Due vi parlavan basso, concitatamente: sentivo una voce maschile, che non era quella del Paleari. Ma di uomini in casa non c'eravamo altri che lui e io. Incuriosito, m'appressai alla finestra per guardar dalle spie della persiana. Nel bujo mi parve discernere la signorina Caporale. Ma chi era quell'uomo con cui essa parlava? Che fosse arrivato da Napoli, improvvisamente, Terenzio Papiano? Da una parola proferita un po' più forte dalla Caporale compresi che parlavano di me. M'accostai di più alla persiana e tesi maggiormente l'orecchio. Quell'uomo si mostrava irritato delle notizie che certo la maestra di pianoforte gli aveva dato di me; ed ecco, ora essa cercava d'attenuar l'impressione che quelle notizie avevan prodotto nell'animo di colui. - Ricco? - domandò egli, a un certo punto. E la Caporale: - Non so. Pare! Certo campa sul suo, senza far nulla... - Sempre per casa? - Ma no! E poi domani lo vedrai... Disse proprio così: vedrai. Dunque gli dava del tu; dunque il Papiano (non c'era più dubbio) era l'amante della signorina Caporale... E come mai, allora, in tutti quei giorni, s'era ella dimostrata così condiscendente con me? La mia curiosità diventò più che mai viva; ma, quasi a farmelo apposta, quei due si misero a parlare pianissimo. Non potendo più con gli orecchi, cercai d'ajutarmi con gli occhi. Ed ecco, vidi che la Caporale posava una mano su la spalla di Papiano. Questi, poco dopo, la respinse sgarbatamente. - Ma come potevo io impedirlo? - disse quella, alzando un po' la voce con intensa esasperazione. - Chi sono io? che rappresento io in questa casa? - Chiamami Adriana! - le ordinò quegli allora, imperioso. Sentendo proferire il nome di Adriana con quel tono, strinsi le pugna e sentii frizzarmi il sangue per le vene. - Dorme, - disse la Caporale. E colui, fosco, minaccioso : - Va' a svegliarla! subito! Non so come mi trattenni dallo spalancar di furia la persiana. Lo sforzo che feci per impormi quel freno, mi richiamò intanto in me stesso per un momento. Le medesime parole, che aveva or ora proferite con tanta esasperazione quella povera donna, mi vennero alle labbra: « Chi sono io? che rappresento io in questa casa? ». Mi ritrassi dalla finestra. Subito però mi sovvenne la scusa che io ero pure in ballo lì: parlavano di me, quei due, e quell'uomo voleva ancora parlarne con Adriana: dovevo sapere, conoscere i sentimenti di colui a mio riguardo. La facilità però con cui accolsi questa scusa per la indelicatezza che commettevo spiando e origliando così nascosto, mi fece sentire, intravedere ch'io ponevo innanzi il mio proprio interesse per impedirmi di assumer coscienza di quello ben più vivo che un'altra mi destava in quel momento. Tornai a guardare attraverso le stecche della persiana. La Caporale non era più nel terrazzino. L'altro, rimasto solo, s'era messo a guardare il fiume appoggiato con tutti e due i gomiti sul parapetto e la testa tra le mani. In preda a un'ansia smaniosa, attesi, curvo, stringendomi forte con le mani i ginocchi, che Adriana si facesse al terrazzino. La lunga attesa non mi stancò affatto, anzi mi sollevò man mano, mi procurò una viva e crescente soddisfazione: supposi che Adriana, di là, non volesse arrendersi alla prepotenza di quel villano. Forse la Caporale la pregava a mani giunte. Ed ecco, intanto, colui, là nel terrazzino, si rodeva dal dispetto. Sperai, a un certo punto, che la maestra venisse a dire che Adriana non aveva voluto levarsi. Ma no: eccola! Papiano le andò subito incontro. - Lei vada a letto! - intimò alla signorina Caporale. - Mi lasci parlare con mia cognata. Quella ubbidì, e allora Papiano fece per chiudere le imposte tra la sala da pranzo e il terrazzino. - Nient'affatto! - disse Adriana, tendendo un braccio contro l'imposta. - Ma io ho da parlarti! - inveì il cognato, con fosca maniera, sforzandosi di parlar basso. - Parla così! Che vuoi dirmi? - riprese Adriana. - Avresti potuto aspettare fino a domani. - No! ora! - ribatté quegli, afferrandole un braccio e attirandola a sé. - Insomma! - gridò Adriana, svincolandosi fieramente. Non mi potei più reggere: aprii la persiana. - Oh! signor Meis! - chiamò ella subito. - Vuol venire un po' qua, se non le dispiace? - Eccomi, signorina! - m'affrettai a rispondere. Il cuore mi balzò in petto dalla gioja, dalla riconoscenza: d'un salto, fui nel corridojo: ma lì, presso l'uscio della mia camera, trovai quasi asserpolato su un baule un giovane smilzo, biondissimo, dal volto lungo lungo, diafano, che apriva a malapena un pajo d'occhi azzurri, languidi, attoniti: m'arrestai un momento, sorpreso, a guardarlo; pensai che fosse il fratello di Papiano; corsi al terrazzino. - Le presento, signor Meis, - disse Adriana, - mio cognato Terenzio Papiano, arrivato or ora da Napoli. - Felicissimo! Fortunatissimo! - esclamò quegli, scoprendosi, strisciando una riverenza, e stringendomi calorosamente la mano. - Mi dispiace ch'io sia stato tutto questo tempo assente da Roma; ma son sicuro che la mia cognatina avrà saputo provvedere a tutto, è vero? Se le mancasse qualche cosa, dica, dica tutto, sa! Se le bisognasse, per esempio, una scrivania più ampia... o qualche altro oggetto, dica senza cerimonie... A noi piace accontentare gli ospiti che ci onorano. - Grazie, grazie, - dissi io. - Non mi manca proprio nulla. Grazie. - Ma dovere, che c'entra! E si avvalga pure di me, sa, in tutte le sue opportunità, per quel poco che posso valere... Adriana, figliuola mia, tu dormivi: ritorna pure a letto, se vuoi... - Eh, tanto, - fece Adriana, sorridendo mestamente, - ora che mi son levata... E s'appressò al parapetto, a guardare il fiume. Sentii ch'ella non voleva lasciarmi solo con colui. Di che temeva? Rimase lì, assorta, mentre l'altro, col cappello ancora in mano, mi parlava di Napoli, dove aveva dovuto trattenersi più tempo che non avesse preveduto, per copiare un gran numero di documenti dell'archivio privato dell'eccellentissima duchessa donna Teresa Ravaschieri Fieschi: Mamma Duchessa, come tutti la chiamavano, Mamma Carità, com'egli avrebbe voluto chiamarla: documenti di straordinario valore, che avrebbero recato nuova luce su la fine del regno delle due Sicilie e segnatamente su la figura di Gaetano Filangieri, principe di Satriano, che il marchese Giglio, don Ignazio Giglio d'Auletta, di cui egli, Papiano, era segretario, intendeva illustrare in una biografia minuta e sincera. Sincera almeno quanto la devozione e la fedeltà ai Borboni avrebbero al signor marchese consentito. Non la finì più. Godeva certo della propria loquela, dava alla voce, parlando, inflessioni da provetto filodrammatico, e qua appoggiava una risatina e là un gesto espressivo. Ero rimasto intronato, come un ceppo d'incudine, e approvavo di tanto in tanto col capo e di tanto in tanto volgevo uno sguardo ad Adriana, che se ne stava ancora a guardare il fiume. - Eh, purtroppo! - baritoneggiò, a mo' di conclusione, Papiano. - Borbonico e clericale, il marchese Giglio d'Auletta! E io, io che... (devo guardarmi dal dirlo sottovoce, anche qui, in casa mia) io che ogni mattina, prima d'andar via, saluto con la mano la statua di Garibaldi sul Gianicolo (ha veduto? di qua si scorge benissimo), io che griderei ogni momento: « Viva il XX settembre! », io debbo fargli da segretario! Degnissimo uomo, badiamo! ma borbonico e clericale. Sissignore... Pane! Le giuro che tante volte mi viene da sputarci sopra, perdoni! Mi resta qua in gola, m'affoga... Ma che posso farci? Pane! pane! Scrollò due volte le spalle, alzò le braccia e si percosse le anche. - Sù, sù, Adrianuccia! - poi disse, accorrendo a lei e prendendole, lievemente, con ambo le mani la vita : - A letto! E tardi. Il signore avrà sonno. Innanzi all'uscio della mia camera Adriana mi strinse forte la mano, come finora non aveva mai fatto. Rimasto solo, io tenni a lungo il pugno stretto, come per serbar la pressione della mano di lei. Tutta quella notte rimasi a pensare, dibattendomi tra continue smanie. La cerimoniosa ipocrisia, la servilità insinuante e loquace, il malanimo di quell'uomo mi avrebbero certamente reso intollerabile la permanenza in quella casa, su cui egli - non c'era dubbio - voleva tiranneggiare, approfittando della dabbenaggine del suocero. Chi sa a quali arti sarebbe ricorso! Già me n'aveva dato un saggio, cangiando di punto in bianco, al mio apparire. Ma perché vedeva così di malocchio ch'io alloggiassi in quella casa? perché non ero io per lui un inquilino come un altro? Che gli aveva detto di me la Caporale? poteva egli sul serio esser geloso di costei? o era geloso di un'altra? Quel suo fare arrogante e sospettoso; l'aver cacciato via la Caporale per restar solo con Adriana, alla quale aveva preso a parlare con tanta violenza; la ribellione di Adriana; il non aver ella permesso ch'egli chiudesse le imposte; il turbamento ond'era presa ogni qualvolta s'accennava al cognato assente, tutto, tutto ribadiva in me il sospetto odioso ch'egli avesse qualche mira su lei. Ebbene e perché me n'arrovellavo tanto? Non potevo alla fin fine andar via da quella casa, se colui anche per poco m'infastidiva? Che mi tratteneva? Niente. Ma con tenerissimo compiacimento ricordavo che ella dal terrazzino m'aveva chiamato, come per esser protetta da me, e che infine m'aveva stretto forte forte la mano... Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi: « Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero? »

 

capitulo 11 - de noche, mirando al rio A medida que iba subiendo de punto la familiaridad, por efecto de la consideración y benevolencia que me atestiguaba el amo de la casa, iba aumentando también para mí la dificultad en el trato, la secreta desazón que ya antes había experimentado, y que ahora solía adquirir la agudeza de un remordimiento, al verme allí, metido de hoz y de coz en aquella familia, como un intruso, con nombre postizo y la cara desfigurada, con una existencia ficticia y poco menos que inconsciente. Y formaba el propósito de mantenerme al paño, en cuanto me fuere posible, recordándome continuamente a mí mismo que no debía acercarme demasiado a la vida ajena, sino, por el contrario, rehuir toda intimidad y contentarme con vivir al margen. “¡Libre!”, decía yo todavía; pero ya comenzaba a penetrar el sentido y a medir los linderos de esta libertad mía. Porque esa libertad mía significaba, por ejemplo, el estarme allí por las noches mirando al río, que corría negro y callado por entre los muelles nuevos y los puentes, que en él reflejaban las luces de sus faroles, temblonas como sierpecillas de fuego; seguir con la fantasía el curso de aquellas aguas desde la remota fuente apenina, al través de tantos campos, y ahora al través de la ciudad, para volver luego a cruzar nuevos campos, hasta llegar a su desembocadura, y fingirme después con el pensamiento el mar tenebroso y palpitante en el que aquellas aguas, tras tanto correr irían a perderse, y, finalmente, abrir la boca ¿e fastidio. «Libertad... Libertad», murmuraba yo. Pero ¿no sería lo mismo también en otro sitio? Algunas noches veía en la azoteílla de al lado a la madrecita de casa, a la niña vestida de largo, regando las macetas. “¡Esa es la vida!”, pensaba yo, y seguía con la mirada a la simpática nena en aquella su hermosa tarea., esperando a cada instante que alzase los ojos hacia mi ventana. Pero en vano. Sabía que estaba yo allí; mas cuando estaba sola fingía no advertirlo. ¿Por qué? ¿Sería sólo efecto de su timidez tal cortedad, o que no se le había pasado aún el enojo y me guardaba rencor en secreto por la poca consideración con que yo, cruelmente, me obstinaba en tratarla? Ahora la muchachita, dejando la regadera, habíase asomado al retilillo de la azotea y contemplaba también el río, quizá por darme a entender que no le daba frío ni calor mi presencia, y que tenía otras cosas mucho más serias en qué pensar en aquella actitud, y aun ansias de estar sola. Yo sonreía para mis adentros al pensar en estas cosas; pero luego, al ver que se iba de la azotea, reflexionaba que quizá pudiera equivocarme en mi juicio, a causa del despecho que sentimos al ver que no reparan en nosotros. «Y, después de todo —preguntábame—, ¿a santo de qué habría ella de reparar en mí ni de dirigirme la palabra sin necesidad? Yo personifico aquí la desgracia de su vida, la locura de su padre, y quizá represente para ella una humillación. Acaso eche de menos aquel tiempo en que su padre era empleado en activo y no necesitaba alquilar parte de sus habitaciones ni meter extraños en casa. ¡Y un extraño de mi catadura! ¡Quién sabe si le infundiré miedo con este ojo y estas gafas! ...” El rumor de algún coche al pasar el cercano puente de madera sacábame de esas reflexiones; daba un bufido y me apartaba de la ventana; pasaba revista con los ojos a la cama v los libros, y concluía por encogerme de hombros, ponerme el sombrero y echarme a la calle, con a esperanza de ahuyentar así aquel enojoso tedio. Ibame, según me daba, o a las calles de más tráfago o a parajes solitarios. Recuerdo cierta noche, en la plaza de San Pedro, la impresión de sueño, de un sueño casi remoto, que me hizo aquel mundo secular allí recogido, entre los brazos del majestuoso pórtico, en el silencio, que parecía subir de punto con el continuo fragor de las dos fuentes. Acerquéme a una de ellas, y entonces parecióme que aquel agua era la única cosa viva que había allí, antojándoseme todo lo demás como espectral y profundamente melancólico en la solemnidad silenciosa y quieta. Al volver por la calle de Borgo Nuovo hube de toparme con un borracho, el cual, al pasar junto a mí y verme que iba tan pensativo, inclinóse; luego levantó la cabeza, mirándome a la cara de hito en hito, y, por último, díjome, zarandeándome ligeramente el brazo: —¡Alégrese, hombre! Yo me paré en seco, sorprendido, y quedéme mirándole de pies a cabeza. —¡Alégrese! —repitió el borracho acompañando la exhortación con un gesto de la mano, que significaba: «¿Qué haces? ¿En qué piensas? ¡No te preocupes por nada!» Y alejóse dando tumbos, cogiéndose con una mano a las paredes. A semejante hora, en aquella calle desierta, tan cerca del gran templo, y revolviendo en la mente los pensamientos que me sugiriera la aparición del borracho y su extraño consejo, cariñoso y de filosófica piedad, dejáronme desconcertado, y quedéme no sé cuánto rato siguiendo con la vista a aquel hombre, hasta que, por último, todo aquel asombro mío hubo de resolverse en una gran carcajada. “¡Alegrarse!” Sí, eso está muy bien, amigo mío. Sólo que yo no puedo irme a la taberna, como tú, a buscar esa alegría que me aconsejas en el fondo de un vaso. ¡No sabría encontrarla, de fijo! ¡Ni allí, ni en parte alguna! Yo voy al café, amigo mío, entre gente de pro, que fuma y charla de política. Alegres todos podríamos serlo, y hasta felices, según un ahogadete imperialista que frecuenta mi café; sólo con una condición: la de que habría de gobernarnos un buen rey absoluto. Tú, pobre borrachín filósofo, no entiendes de estas cosas; ni siquiera te pasan por la imaginación. Pero la verdadera causa de todos nuestros males, de esa calamidad nuestra, ¿sabes tú cuál es? Pues la democracia, amigo mío, la democracia; esto es, el gobierno de la mayoría. Porque cuando el poder está en manos de un solo individuo, éste sabe que es uno solo y que tiene que contentar a muchos; mientras que cuando los muchos gobiernan, sólo piensan en contentarse a sí mismos, y entonces tienes la tiranía más pesada y odiosa: la tiranía disfrazada de libertad. ¡Naturalmente! O, si no, ¿por qué crees que yo estoy triste? Pues precisamente por esa tiranía disfrazada de libertad... Pero ¡ volvámonos a casa!” Mas estaba de Dios que aquélla había de ser la noche de los encuentros. Al pasar poco después por Tordinona, que estaba casi a oscuras, hube de oír un recio grito, entre otros sofocados, en una de las callejuelas que van a desembocar a esta calle. Y de pronto atravesóseme en el camino un grupo de hombres que reñían. Eran cuatro miserables, pertrechados de gruesos garrotes, que la habían emprendido con una mujerzuela del arroyo. Menciono esta aventura, no por hacer alarde de un acto de valor, sino por confesarles el miedo que hube de pasar con las consecuencias que pudo traerme el lance. Eran cuatro aquellos tíos, pero yo también llevaba mi buen bastón de hierro. Cierto que dos de ellos sacaron contra mí navajas; pero defendíme lo mejor que pude, haciendo el molinete y dando saltos a tiempo de acá para allá, a fin de que no me cogieran en medio, hasta que logré por fin asestarle al de más cuidado un porrazo tremendo en la cabeza con el puño de hierro del bastón. Tambaleóse el desalmado y luego echó a correr; y sus tres acompañantes, temiendo acaso que acudiese alguien más a los alaridos de la mujer pusieron también pies en polvoroso. Yo resulté, no sé cómo, con una herida en la frente. Rogué a la mujer, que no paraba de gritar pidiendo auxilio, hiciese el favor de callarse; pero ella, al verme con la cara chorreando sangre, no pudo contenerse, y llorando, toda temblona, hizo por socorrerme, vendándome con el pañuelo de seda que llevaba al pecho y que en la reyerta habíasele hecho jirones. —No, no, gracias —díjele, apartándome con repugnancia—. Basta... No ha sido nada. ¡Quítate de en medio en seguida, que no te vean! Y encaminéme a la fuente que hay bajo la rampa del puente cercano, para lavarme la frente. Pero estando en esa operación, llegaron dos guardas desalados, empeñados en saber lo que había ocurrido. En seguida la mujer, que era de Nápoles, púsose a contarles lo que me había pasado, deshaciéndose en las palabras más afectuosas y admirativas de su repertorio dialectal a mi respecto. Costóme la mar de trabajo verme libre de aquellos dos guardias, tan celosos de su profesión, que se habían empeñado en que les acompañase a la Comisaría para presentar una denuncia. Pero ¡no faltaba más que eso: que tuviera yo que habérmelas con la Comisaría y salir al día siguiente en la sección de sucesos convertido en un cuasi héroe, en lugar de estarme calladito en la sombra, sin que nadie supiese de mí! ¡Yo ya no podía ser héroe de verdad sino a condición de morir en la refriega! ... ¡Y ya estaba muerto! —¿Es usted viudo, por casualidad, señor Meis, y usted dispense la pregunta? Esta preguntita disparóme a boca de jarro una noche la señorita de Caporale, estando en la azoteílla en compañía de Adriana y mía, pues habíanme invitado a hacerles tertulia al aire libre. Al pronto quedéme de una pieza; pero luego respondí: —No. ¿Por qué? —Pues porque siempre está usted andándose con el pulgar en el dedo del corazón, como si quisiera darle vueltas a un anillo. ¿Verdad, Adriana? ¡Hay que ver en lo que se fijan las mujeres o, mejor dicho, ciertas mujeres, porque Adriana declaró que ella no había reparado en tal detalle! —Eso será que no te has fijado —exclamó la señorita de Caporale. Tuve que reconocer que, aunque tampoco yo había reparado nunca en ello, podría ser que tuviese aquella costumbre. —Efectivamente —vime obligado a añadir—: llevé puesto mucho tiempo un ajustador que luego tuve que mandar a un platero para que me lo cortara, porque me apretaba mucho el dedo y me hacía daño. —¡Pobre anillito! —suspiró, retorciendo los brazos, la cuarentona, que aquella noche estaba en vena de hacer monadas infantiles—. ¿Tan ajustado le venía? Y, con todo eso, ¿no se decidía usted a sacárselo? Quizá fuera recuerdo de un... —¡Silvia! —atajóla Adrianita en tono de reproche. —Pero ¿qué hay de malo en lo que digo? —continuó la solterona—. Quería decir de un primer amor. Vamos a ver, señor Meis: díganos algo de su vida. ¿Es posible que esté siempre tan callado? —Pues para que vean ustedes que soy franco. Me choca la consecuencia que ha sacado Silvia de la costumbre que tengo de andarme en el dedo del corazón. Me parece una consecuencia completamente arbitraria, señorita. Porque los viudos, que yo sepa, no acostumbran a quitarse el anillo de alianza. Resulta pesada alguna vez la mujer, no el anillo, en faltando aquélla. Antes bien, así como a los veteranos les gusta ufanarse de sus medallas y veneras, así el viudo se complace en lucir su alianza. —¡Ah! ¿Sí? —exclamó la señorita de Caporale—. ¡Con qué habilidad desvía usted la conversación! —¡Cómo! ¡Si lo que hago es ahondar más en ella! —¿Quién habla de ahondar? Yo no ahondo nunca en las cosas. Me pareció eso que le he dicho, y nada más. —¿Le pareció a usted que yo tenía cara de viudo? —Sí, señor. ¿No te lo parece a ti también, Adriana? Adriana probó a posar en mí la mirada, alzando los ojos, que volvió a bajar enseguida, no acertando, con lo tímida que era, a sostener la ajena mirada. Sonrió levemente, con aquella su sonrisa dulce y triste, y dijo: —¡Qué sé yo de la cara que tengan los viudos! ¡Hay que ver si eres curiosa! En aquel instante debió de cruzarle por la mente un pensamiento, alguna imagen, pues dio muestras de turbación y se puso a mirar al río. La otra entendió lo que quería decir aquello, sin duda, pues lanzó un suspiro y se volvió también a mirar al río. Una cuarta persona, invisible, había venido seguramente a interponerse entre nosotros. Yo también hube de comprender enseguida el gesto de Adriana, al reparar en que llevaba alivio de luto, y al punto deduje que Terencio Papiano, aquel cuñado suyo, que a la sazón se hallaba en Nápoles, no debía de tener cara de viudo desconsolado, y que, por consecuencia, era yo quien la tenía, al decir de la señorita de Caporale. Confieso que me holgué no poco de que la conversación terminase de aquella manera. Pues la pena que le había entrado a Adriana al recuerdo de la hermana difunta y de Papiano, el viudo, era para la pianista el justo castigo de su indiscreción. Sólo que, si hemos de ser justos, esa que a mí parecíame indiscreción, ¿no era en el fondo una curiosidad natural y disculpabilísima, en cuanto que por fuerza había de ocasionarse con aquella suerte de extraño silencio que había difundido en torno a mi persona? Y puesto que la soledad se me había hecho ya insufrible, y yo no sabía resistir a la tentación de acercarme al prójimo, que estaba en su derecho al querer saber con quién tenía que habérselas, era menester que yo respondiese a sus preguntas, satisfaciendo su lógica curiosidad del mejor modo posible, esto es, mintiendo e inventando. ¡No había término medio! La culpa no era de nadie, sino mía; y ahora iba a agravaría, es verdad, con la mentira; pero si no me avenía a ello, si me dolía mentir, lo que debía hacer era quitarme de en medio, irme de aquella casa y reanudar mi vida solitaria y errante. Noté que Adriana misma, la cual nunca me hacía pregunta alguna que no fuere discretísima, era toda oídos en tanto yo contestaba a las preguntas de la pianista, que, a decir verdad, solía rebasar los límites de la curiosidad natural y excusable. Una noche, por ejemplo, estando en la azoteílla, donde acostumbrábamos a reunirnos a la sazón, cuando yo volvía a casa, después de cenar, preguntóme riendo y apartando a Adriana, que le gritaba en el colmo de la agitación: “¡No, Silvia! ¡Te lo prohíbo! ¡No le digas nada!”: —Usted dispense, señor Meis. Pero Adriana tiene curiosidad por saber por qué no se deja usted el bigote... —¡Diga usted que no es verdad! —gritó Adriana—. ¡No la crea usted, señor Meis! Ha sido ella la que... Yo... Y la simpática madrecita echóse a llorar de pronto. La pianista trató de consolarla, diciéndole: —¡Pero, por Dios, Adrianita, no te pongas así! ... ¡Que no es nada malo! ... Adriana apartóla de un codazo. —¡Sí que es malo, porque echas una mentira y me la cargas a mí! ... ¡Y por eso me pongo como me pongo! Mire usted, señor Meis: le voy a contar la verdad... Estábamos hablando de los cómicos, que van todos... así, y entonces Silvia fue y me dijo: “¡Como el señor Meis! ¿Por qué no se dejará bigote?» Y entonces fui yo y repetí como un eco: ¿Por qué no se lo dejará?» —Eso es —asintió la pianista—. Pero quien dice por qué, es que quiere saberlo. —Pero ¡si fuiste tú la primera que lo dijo! —protestó Adriana, en el colmo de la agitación. —¿Me permiten ustedes que conteste a esa pregunta? —pregunté yo, a fin de poner paz entre ellas. —No. Usted dispense, señor Meis; pero yo me voy. ¡Buenas noches! —exclamó Adriana, y se levantó para irse. La pianista la cogió de un brazo. —¡Pero, mujer; no seas tonta! ¡Si lo dije por broma! ... Don Adriano es tan bueno, que se hace cargo. ¿No es verdad, don Adriano? ¡Vamos, hombre! Dígale usted por qué no se deja el bigote. Aquella vez echóse Adriana a reír, aunque con los ojos cuajados todavía de lágrimas. —Eso es un misterio —respondí yo entonces alterando cómicamente la voz—. ¡Es que... ando metido en una conspiración! —¡No lo creemos! —exclamó la pianista en el mismo tono; pero luego añadió—: Aunque, oiga usted, lo parece; ¡no cabe duda! Y si no, dígame: ¿qué fue a hacer esta tarde, por ejemplo, después de comer, a Correos? —¿Yo, en Correos? —sí, señor; en Correos. No lo niegue usted, que lo vi yo con estos ojos que se ha de comer la tierra. A eso de las cuatro. Pasaba yo por la plaza de San Silvestre... —Pues se habrá usted equivocado, señorita. Le aseguro que no era yo. —¡Ya, ya! —exclamó la pianista, incrédula—. Correspondencia secreta... Porque aquí, en casa, ¿ verdad, Adrianita?, nunca hay carta para este caballero... Lo sé por la criada. Adriana revolvióse molesta en la silla. —No le haga caso —me dijo, dirigiéndome una rápida mirada condolida y casi acariciante. —¡Ni en casa ni en la lista de Correos! —respondí yo—. Tiene usted razón, señorita. Nadie se acuerda de escribirme, por la sencilla razón de que no tengo ningún amigo. —¿Ni uno siquiera? Pero ¿es posible? ¿Ni uno? —Ni uno. Yo no tengo más que a mi sombra en esta vida. Hasta ahora no he hecho más que pasearla conmigo de acá para allá, y nunca me detuve en ningún sitio el tiempo necesario para hacerme de algún amigo. —¡Dichoso usted —exclamó la solterona, suspirando—, que ha podido viajar tanto! Bueno; pues oiga usted: si no quiere hablarnos de otra cosa, ¿por qué no nos cuenta algo de sus viajes? Poco a poco, vencidos los escollos de las primeras preguntas desconcertantes, y dando de lado a otros con los remos de la mentira que me servían de palanca y de puntal, agarrándome como con ambas manos a los que más de cerca me amagaban, a fin de orillarlos con mucho tino y prudencia, logró por fin la barquilla de mi ficción salir a alta mar e izar la vela de la fantasía. Después de año y pico de forzado silencio, sentía yo un gran gusto en hablar por los codos todas las noches, en la azoteílla, de lo que viera en mis viajes, de las observaciones que hiciera y de los lances que me sucedieran andando por esos mundos. Maravillábame yo mismo de haber recogido en mis viajes tantas impresiones que con el silencio estaban como enterradas en mi interior, y que ahora, al dar rienda suelta a la lengua, resucitaban y fluían con admirable vivacidad de mis labios. Esta íntima maravilla prestaba extraordinario colorido a mis relatos, y del deleite que las dos mujeres atestiguaban sentir al escucharme, iba naciendo en mí el pesar por no haber gozado antes de aquel bien, pesar que hacía subir de punto más todavía el aliciente de mi narración. Al cabo de unas noches no más, ya habían cambiado radicalmente la actitud y el tono de la pianista para conmigo. Sus mustios ojos llenáronsele de una languidez tan intensa, que hacían pensar más que nunca en la imagen del contrapeso interno de plomo, resaltando más grotesco que nunca el contraste entre ellos y la carota de máscara carnavalesca. ¡No cabía duda: la señorita de Caporale habíase enamorado de mí! La ridícula sorpresa que hubo de causarme aquel descubrimiento fue causa de que advirtiera que todas aquellas disertaciones mías de por las noches no habían ido enderezadas, ni remotamente, a ella, sino a la otra, que siempre me escuchaba silenciosa. Saltaba a la vista, sin embargo, que aquella otra habíalo comprendido así, pues a poco hubo de establecerse entre nosotros como un tácito acuerdo de holgarnos a hurtadillas del cómico e imprevisto efecto que mis razonamientos habían surtido en las sensibilísimas fibras sentimentales de la cuarentona pianista. Mas no se crea que con este descubrimiento dejaron de ser absolutamente puros los pensamientos que Adriana me inspiraba. Aquella su candoroso bondad, impregnada de tristeza, no podía inspirar pensamientos de otra índole; pero, a pesar de eso, llenábame de alegría aquella primera confidencia que ella me otorgaba, tenue y silenciosa confidencia, tan extremada cuanto su delicada timidez lo consentía. Reducíase a una fugaz mirada, comparable a un destello de suavísima gracia; a una sonrisa de conmiseración por la ridícula presunción de aquella pobre solterona; a alguna benévola llamada al orden, que me hacía con los ojos, y a un leve ademán de cabeza cuando yo me extralimitaba un poco, para nuestro secreto solaz, al darles jarilla a las esperanzas de aquélla, que ya tocaba en el ápice de la dicha, ya se despeñaba en el abismo del desconsuelo por alguna salida mía, inesperada y violenta. —¡Qué mal debe usted andar del lado izquierdo —díjome cierta vez la pianista—, si es verdad eso que usted dice, y yo no creo, de haber atravesado hasta ahora incólume por la vida! —¿Incólume? —Sí; quiero decir sin haber caído nunca en las redes de una pasión. —¡Ah! ¡Eso, nunca, señorita; nunca! —Bueno; pero usted no ha llegado a decirnos todavía la procedencia de aquel anillito que le mandó cortar a un platero porque le venía demasiado justo. —Y me hacía daño... ¿No se lo expliqué ya?... Sí, señorita. ¡Era un recuerdo de mi abuelo! —¡A otra con ésa! —Como usted quiera: pero haga cuenta que puedo decirle a usted hasta cuándo me lo regaló. Fue un día, en Florencia, al salir de la Galería degli Uffizzi, por haber confundido yo, que entonces tendría unos doce años, un cuadro del Perugino con otro de Rafael. En premio de aquella coladura, regalóme mi abuelito del anillo. Porque ha de saber que mi abuelo creía firmemente que aquel cuadro del Perugino era obra de Rafael. ¡Ya tiene usted explicado el misterio! Y ahora comprenderá usted que entre la manecita de un chico de doce años y esta manaza de que en la actualidad disfruto, hay alguna diferencia. ¿Ve usted? Ahora todo yo soy así como esta manaza mía, que no se aviene a llevar anillitos graciosos. Corazón, lado izquierdo, como usted dice, puede que lo tenga; pero yo soy justo conmigo mismo, señorita, y cada vez que me miro al espejo con este lucido par de gafas, a las que, después de todo debo estarles agradecido, siento que se me caen los palos del sombrajo, y me digo: ¿Cómo puedes hacerte la ilusión, querido Adriano, de que vaya a enamorarse de ti ninguna mujer? —¡Vaya una ocurrencia! —exclamó la pianista—. Usted cree ser justo consigo mismo al hablar así y, en cambio, resulta usted el colmo de la injusticia para con nosotras. Porque, para que usted lo sepa, señor Meis, la mujer es más generosa que el hombre y no se limita, como éste, a fijarse en el físico. —Pues entonces debemos reputar a la mujer por más valiente que el hombre. Porque yo, francamente, reconozco que, aparte la generosidad, se necesitaría también un poquito de valor para querer a un hombre de mi estampa. —¡Quite usted allá! Usted, por lo visto, goza en sentar plaza de feo, según lo que dice y hace, que no parece sino que quiere pasar por más feo de cuanto lo sea. —En eso tiene usted razón; pero ¿sabe usted por qué hago eso? Pues para que nadie tenga que tenerme lástima. Si hiciese por disimular en algún modo mi fealdad, no faltaría quien dijese: «Miren a ese desgraciado que va tan orondo creyendo que, por haberse dejado el bigote, ya parece más guapo». Mientras que así nadie puede decir nada. ¿Que soy feo? Bueno; pero lo soy con colmo, a la luz del sol, sin andar con paños calientes. ¿Qué me dice usted a esto? La pianista lanzó un profundo suspiro. —Digo que hace usted mal —me respondió—. Si probase usted a dejarse un poco de barba, por ejemplo, ya vería cómo usted mismo notaba que no es ese monstruo de fealdad que pretende parecer. —Pero ¿y este ojo? —preguntéle. —Hombre, puesto que habla usted de él con tanto desparpajo —saltó la pianista—, le diré con toda franqueza lo que hace días tengo en la punta de la lengua: ¿Por qué no se somete usted, y usted dispense, a una operación que hoy día resulta facilísima? De querer usted, no tardaría en verse libre de ese ligero defecto. —¿Lo ve usted señorita? —concluí yo—. Será verdad eso de que la mujer es más generosa que el hombre; pero fíjese usted en que, con mucha suavidad, acaba usted de aconsejarme que haga por ponerme otra cara. ¿Por qué insistía yo tanto sobre aquel tema? ¿Acaso porque hubiera deseado que la pianista me declarase allí sin rodeos, en presencia de Adriana, que ella era capaz de quererme; es más, que ya me quería, tal y como era: todo afeitado y con aquel ojo extraviado? Nada de eso. Tanto porfiar y tanto hacerle a la solterona preguntitas premeditadas, obedecían a haber notado yo que Adriana experimentaba un placer acaso inconsciente al oír las contestaciones victoriosas que aquélla me daba. Llegué a comprender de esa suerte que, no obstante mi estrambótico aspecto, ella podía quererme. No se lo dije ni a mi sombra; pero, a partir de aquella noche, antojóseme más blando el lecho que yo ocupaba en aquella casa, más simpáticos cuantos objetos me rodeaban, más ligero el aire que aspiraban mis pulmones, más azul el cielo y más espléndido el sol. Empeñéme en creer que todo aquel cambio se debía a haber muerto Matías Pascal en el molino de La Cabaña y a haber yo recobrado, finalmente, el equilibrio después de andar extraviado algún tiempo en mi nueva e ilimitada libertad y alcanzado el ideal que me propusiera; a saber: hacer de mí otro hombre y vivir otra vida, de la que ahora ya sentíame henchido. Y el alma volvióseme jovial, como cuando era un jovenzuelo, y sacudió de sí el veneno de la experiencia. Hasta dejó de parecerme tan pesado el señor Paleari; la sombra, la niebla, el humazo de su filosofía habíanse desvanecido al sol de mi nuevo alborozo. ¡Pobre don Anselmo! De las dos cosas en que, según él, debíamos pensar los mortales, no se percataba él, que sólo pensaba en una, aunque, ¡qué diantre!, también él había rendido tributo a la vida allá en sus mocedades. Más digna de compasión era la señorita de Caporale, que ni siquiera empinando el codo lograba la alegría de aquel inolvidable borracho de la calle de Borgo Nuovo. Ella, la pobre, quería vivir, y consideraba poco generosos a los hombres, que sólo reparan en la hermosura física. ¿Pero tan hermosa de alma sentíase ella? ¡Quién sabe de cuáles y cuántos sacrificios hubiera sido capaz verdaderamente de haber dado con un hombre generoso! Quizá entonces no hubiera catado el vino. «Si nosotros mismos reconocemos —pensaba yo— que el errar es propio del hombre, ¿no resulta la justicia una crueldad?» Y formé el propósito de no volver a ser cruel con la pianista. Formé el propósito; pero, ¡ay de mí!, que fui cruel sin saberlo; y tanto más cruel cuanto menos quise serlo. La amabilidad con que la trataba añadió nuevo pábulo a su natural fuego. Y sucedía que, en tanto yo hablaba, la pobre de la solterona se ponía muy pálida, mientras que a Adriana le salían los colores. Yo apenas si me percataba de lo que decía; pero sí sentía que jamás alguna de mis palabras, ni su tono y expresión, llegaban a extremar tanto la turbación de aquella a quien, en realidad, iban dirigidas, como para romper la armonía secreta que ya, sin que pudiera yo explicar la causa, reinaba entre nosotros. Tienen las almas un modo particular de entenderse, de entrar en intimidad unas con otras y hasta de tutearse, mientras nuestros cuerpos se hallan todavía sujetos al comercio de vulgares palabras y a la esclavitud de las exigencias sociales. Tienen las almas sus necesidades especiales y sus aspiraciones propias, de las que se veda a sí mismo el cuerpo adquirir conciencia y sentido cuando ve la imposibilidad de satisfacerlos y traducirlos en acto. Y siempre que dos seres que se comuniquen de esta suerte entre sí, únicamente con las almas se encuentran solos en algún lugar, sienten una turbación angustiosa y casi una repugnancia violenta aun al más mínimo contacto material; un sufrimiento que los aleja y separa y que cesa de pronto, en cuanto aparece un tercero. Pasada ya entonces la congoja aquella, las dos almas sollispadas se buscan y sonríen desde lejos. ¡Cuántas veces no hice yo con Adriana la experiencia de lo que acabo de decir! Sólo que la cortedad que yo le inspiraba entonces era efecto de su natural pudoroso y tímido, y la mía creía yo se debiese al remordimiento que me dejaban las mentiras que me veía obligado a urdir frente al candor y la ingenuidad de aquella plácida y dócil criatura. Yo la veía ya con otros ojos. Pero ¿no sería que, efectivamente, habíase transformado de un mes a esta parte? ¿No se encendían ahora en una más viva luz interior sus fugaces miradas? ¿Y no delataban sus sonrisas no costarle ya tanto aquel esfuerzo por dárselas de madrecita juiciosa? Sí; quizá ella también obedeciera instintivamente a mi misma necesidad, al ansia de crearse la ilusión de una nueva vida, sin meterse a averiguar cuál ni cuál no. Un deseo vago, cual una aura del alma, habíale abierto a ella, lo mismo que a mí, una de las ventanas del futuro, por la cual llegaba hasta nosotros un rayo de luz de mareante tibieza, que nos bañaba benigna, mientras no nos decidíamos a acercarnos a aquella ventana ni para cerrarla de nuevo ni para ver qué panorama se divisaba desde ella. La pobre de la pianista experimentaba los efectos de aquella nuestra purísima embriaguez. —¿Sabe usted, señorita —hube yo de decirle cierta noche—, que estoy casi resuelto a seguir su consejo? —¿Cuál? —me preguntó. —Pues el de ir a que me opere un oculista. La solterona batió palmas muy contenta. —Muy bien —exclamó—. Vaya usted a ver al doctor Ambrosini. Es el mejor. A mi pobre mamá, que esté en gloria, le hizo la operación de las cataratas. ¿Ves, Adriana, cómo el espejo habló por fin? ¿Qué te decía yo? Adriana sonrióse, y yo también me sonreí. —No ha sido que me haya hablado el espejo, señorita —respondíle yo—, sino que la necesidad aprieta. De algún tiempo a esta parte ha dado en dolerme el ojo, y aunque en la vida me sirvió de nada, no querría, sin embargo, perderlo. Mentía como un bellaco. Tenía razón la pianista: el espejo me había hablado, y me había dicho que si con sólo una operación relativamente ligera lograba borrarme del rostro aquella desairada seña personal tan característica del difunto Matías, ya podría Adriano Meis hasta quitarse las gafas azules, dejarse el bigote y ponerse en consonancia del mejor modo posible, corporalmente, con el cambio experimentado por sus condiciones de espíritu. Pero de estas últimas debía, sin embargo, apearme de improviso, pocos días después, una escena nocturna, a la que asistí escondido detrás de las maderas de una de las ventanas de mi cuarto. Desarrollóse la escena en la azoteílla, donde hasta las diez habíame estado yo de palique con las dos mujeres. Al retirarme a mi cuarto, púseme a leer distraído uno de los libros predilectos del señor Paleari sobre la reencarnación. En cierto momento parecióme oír que hablaban en la azoteílla, y agucé el oído por ver si estaba allí Adriana. No. Eran dos personas las que hablaban, quedo y con mucha animación; pero una de las voces era de hombre, y no la del señor Paleari. Hombres en la casa no habíamos más que él y yo; así que, lleno de curiosidad, asoméme a la ventana y miré por las maderas. Parecióme distinguir en la oscuridad a la pianista. Pero ¿quién era el individuo con quien hablaba? ¿Habría llegado inesperadamente de Nápoles Terencio Papiano? Por cierta palabra que hubo de pronunciar más alto la pianista, comprendí que se estaban ocupando en mi persona. Acerquéme más a la persiana y agucé todavía más el oído. Aquel sujeto mostrábase enojado por las noticias que seguramente le habría dado de mí la pianista; ésta procuraba ahora serenarlo. —¿Es rico? —preguntó el hombre, una vez en el curso del coloquio. Y la pianista repuso: —No lo sé a punto fijo..., aunque lo parece. Porque él vive sin hacer nada... —¿Y está en casa siempre? —¡Ca, no! Además, ya lo verás mañana... Dijo exactamente así: verás. Luego lo tuteaba. Luego el tal Papiano, que no podía ser otro el sujeto, era amante de la señorita de Caporale. Pero entonces, ¿cómo me había estado haciendo aquella tantos arrumacos? Subió de punto mi curiosidad; pero cual si lo hicieran adrede, ellos bajaron todavía más la voz. No pudiendo ya valerme del oído, apelé a la vista. Y pude comprobar que la solterona le tenía puesta una mano en el hombro a su interlocutor, el cual no tardó en apartarla con malos modos. —Pero ¿cómo podía yo evitarlo? —exclamó la pianista, alzando un poco la voz con desesperación intensa—. ¿Quién soy yo ni qué represento en esta casa? —Anda y llama a Adriana ordenó el otro con imperio. Al oír el nombre de Adriana pronunciado en aquel tono, apreté yo los puños y sentí que la sangre se me alborotaba. —Está durmiendo —dijo la pianista. A lo que el otro, hosco y amenazador, repuso: —Bueno, pues ve y despiértala enseguida. No sé cómo me contuve para no abrir con furia la ventana. El esfuerzo que hice para imponerme aquel freno hizo que por un momento volviese en mí; las mismas palabras que acababa de pronunciar con tanta desolación la pobre pianista se me vinieron a los labios: «¿Qué soy yo ni qué represento en esta casa?» Apartéme de la ventana. Pero al momento recordé la disculpa de que me traían a mí en boca aquellos dos personajes, que hablaban de mí, y que el tipo aquel quería todavía interrogar, por lo visto, a Adriana; así que yo tenía el deber de averiguar y poner en claro cuáles eran sus condiciones y sentimientos para conmigo. Pero la facilidad con que admití aquella disculpa por la indelicadeza que cometía espiando y fisgando a hurtadillas, dióme a entender y dejóme traslucir que si yo echaba por delante lo de mi interés personal, hacíalo únicamente por no darme por enterado de aquel otro interés, más vivo, que otra personita me inspiraba en aquel instante. Torné a mirar por los resquicios de la persiana. Ya no estaba la pianista en la azotea. El otro individuo habíase quedado solo y ahora se había puesto a mirar al río, con los codos sobre el pretil y la cara entre las manos. Presa de una ansiedad loca, aguardé agachado, apretándome enérgicamente las rodillas con las manos, la llegada de Adriana a la azoteílla. Aquella larga espera no se me hizo ni pizca de pesada, sino que, por el contrario, hubo de procurarme una viva y creciente satisfacción, pues inferí de ella que Adriana resistíase a rendirse al imperio de aquel bellaco. Quizá la pianista la estuviese rogando con las manos juntas que acudiese a su llamada. Y el otro, en tanto, allí, en la azoteílla, esperaba comido del despecho. Llegué hasta hacerme la ilusión de que la solterona iba a venir a decirle a aquel tío que Adriana no quería levantarse. Pero no, que ya estaba allí. Papiano salióle enseguida al encuentro. —¡Váyase usted a acostar! —intimóle a la pianista—, que tengo que hablar con mi cuñada. Obedeció la solterona, y entonces Papiano aprestóse a cerrar la puerta de comunicación de la azotea con el comedor. —¡Eso no! —gritó Adriana, tendiendo un brazo hacia la puerta. —Es que tengo que hablarte —saltó el cuñado con tono desabrido, esforzándose por bajar la voz. —Pues habla de una vez. ¿Qué es lo que quieres decirme? —exclamó Adriana—. ¿Tanta prisa te corría, que no has podido aguardarte a mañana? —No. ¡Tengo que hablarte ahora mismo! —replicó el otro, cogiéndola de un brazo y tirando de ella. —Pues acaba, hombre —gritó Adriana zafándose airadamente. Yo no pude contenerme ya y abrí la persiana. —¡Oh, señor Meis! —exclamó Adriana—. ¿Quiere usted hacer el favor de venir un momento? —¡Allá voy, señorita! —respondí al punto. El corazón dióme un brinco de alegría y de gratitud; de un salto me planté en el corredor; pero al salir, encontréme junto a la puerta de mi cuarto, casi acurrucado encima de un baúl, a un jovencito esmirriado, muy rubio, con una cara entre larga y muy descolorida, que abría como a duras penas un par de ojos azules, muy lánguidos y bobalicones. Quedéme un momento sorprendido, mirándolo; luego pensé que sería el hermano de Papiano, y salí a la azotea. —Señor Meis —díjome Adriana—, aquí le presento a mi cuñado Terencio Papiano, que acaba de llegar de Nápoles. —¡Mucho gusto en conocerle! —exclamó aquél, descubriéndose. Y, haciéndome una reverencia, estrechóme calurosamente la mano. —Siento haber estado tanto tiempo ausente de Roma; pero estoy seguro de que mi cuñadita habrá sabido atenderle debidamente; ¿no es verdad? Si echase de menos alguna cosa, no tiene más que decirlo, ¿ eh?... Si necesitase, por ejemplo, una mesa de escribir más grande.... o algún otro mueble, díganoslo sin andar con ceremonias... Nosotros tenemos a gala el complacer a nuestros huéspedes... —Gracias, gracias —repuse yo—; pero no me hace falta nada absolutamente. —No tiene que darme las gracias, que ésa es nuestra obligación... Y si me necesita para alguna cosa, no tenga reparo en disponer de mí... pero, Adriana, hija mía, tú ya te habías acostado. Vuélvete a la cama, si quieres... —¡Ya, para qué! —exclamó Adriana sonriendo con su acostumbrada melancolía—. Ya que estoy levantada... Y se arrimó al pretil para mirar al río. Comprendí que no quería dejarme solo con el cuñado. ¿Qué era lo que temía? Quedóse allí absorta, al parecer, en la contemplación del río, mientras el hombre, sin ponerse el sombrero, me hablaba de Nápoles, donde había tenido que estarse más tiempo del que pensaba, copiando infinitos documentos del archivo particular de la duquesa Teresa Ravaschieri Fieschi, nuestra madre la duquesa, como la llamaban todos, o nuestro paño de lágrimas, como en justicia debía llamarse; documentos de extraordinario valor, llamados a arrojar nueva luz sobre el fin del reino de las dos Sicilias, y principalmente sobre la figura de Cayetano Filangieri, príncipe de Satriano, que el marqués de Giglio, don Ignacio Giglio d’Auletta, con el cual estaba Papiano de secretario, proponíase ilustrar con una biografía prolija y veraz. Veraz, por lo menos, en cuanto se lo consintiera su fidelidad y adhesión a los Borbones. Parlaba por los codos. Saltaba a la vista que se escuchaba a sí mismo, complaciéndose en aquella verborrea, empleando expresiones de folletín por entregas y recalcando sus palabras con risas y gestos oportunos. Yo le escuchaba sin pestañear, asintiendo de vez en cuando con la cabeza a lo que decía, y echando alguna que otra furtiva mirada a Adriana, que seguía absorta en la contemplación del río. —¡Claro! —exclamó Papiano con voz de barítono—. ¡Como que el marqués de Giglio d’Auletta es un partidario de los Borbones y un clerical de tomo y lomo! Y haber de servirle yo de secretario.... yo, que... (tengo que andar con tapujos para decirlo hasta en mi misma casa); yo que todas las mañanas lo primero que hago es saludar con la mano la estatua de Garibaldi en el Janículo. ¿No la ha visto usted? Desde aquí se divisa admirablemente. Yo me quedaría ronco de gritar: “¡Viva el veinte de septiembre!” ¡Le digo a usted...! Aunque, por lo demás, el marqués es una bellísima persona, sólo que reaccionario a machamartillo... ¡Qué vamos a hacerle! Todo por el cocido. ¡Le juro a usted que algunas veces me entran unas ganas de escupirle! Y de rabia de no poder hacerlo, se me forma en la garganta un nudo que me ahoga... Pero ¡qué hemos de hacerle! ¡El cocido! Encogióse por dos veces de hombros, levantó los brazos y se aporreó los muslos. —Oye, tú, Adrianita —exclamó luego, llegándose a la joven y ciñéndole el talle con ambas manos—. Anda, vete a acostar; ya es tarde. Y este caballero tendrá sueño. Delante de la puerta de mi cuarto estrechóme la mano Adriana con inusitada energía. Yo, al quedarme solo, tuve algún tiempo cerrado el puño como para prolongar la presión de su mano. Toda la noche me la pasé cavilando y dándoles vueltas en el magín a mil pensamientos. La ceremoniosa hipocresía, el zalamero y locuaz servilismo de aquel tipo y su mala índole eran tales como para hacerme intolerable la permanencia en aquella casa, en la cual —no había duda— quería mandar como amo y señor, aprovechándose de la bonachería del suegro. ¡Quién sabe qué mañas emplearía a ese fin! Podía figurármelo, al ver la facilidad con que cambiara radicalmente de actitud en mi presencia. ¿Pero por qué vería con tan malos ojos el que yo viviese en la casa? ¿Por qué no sería yo para él un huésped como cualquier otro? ¿Qué sería lo que la pianista le había contado de mí? ¿Podía él seriamente sentir celos de mí por culpa de aquella estrambótico amante? ¿O tendrían sus celos otro origen? Aquella su manera de proceder, arrogante y recelosa; el modo como echó de la azotea a la pianista para quedarse a solas con Adriana, a la que al principio interpelara con tanta violencia; la rebeldía de la joven y su oposición a que cerrara la puerta; la turbación de que daba muestras cada vez que se le mentaba a su cuñado ausente, todo eso corroboraba para mí la odiosa sospecha de que el tal cuñadito tenía sus miras particulares sobre ella. Pero, aunque así fuere, ¿por qué me devanaba yo tanto los sesos? ¿No era dueño, al fin y al cabo, de irme de aquella casa en cuanto el tal Papiano me resultara molesto? ¿Quién me sujetaba allí? Nadie. Sólo que con ternísima complacencia recordaba luego que Adriana habíame llamado desde la azoteílla como implorando mi protección, y que al despedirse me había apretado muy fuerte la mano... Había dejado abierta la persiana. Y en su vano dejóse ver de pronto la luna, ni más ni menos que si hubiera querido fisgarme y cogerme desvelado todavía en la cama para decirme: —¡Estoy al cabo de la, calle de todo, rico! Y tú, ¿no lo estás?... ¿De veras?...  






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