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02
Dapprima, ripetendendo l'errore commesso in gioventù, scrisse di animali che conosceva
poco, e le sue favole risonarono di ruggiti e barriti. Poi si fece più umano, se così si può dire,
scrivendo degli animali che credeva di conoscere. Così la mosca gli regalò una gran quantità di
favole dimostrandosi un animale più utile di quanto si creda. In una di quelle favole ammirava la
velocità del dittero, velocità sprecata perchè non gli serviva nè a raggiungere la preda nè a garantire
la sua incolumità. Qui faceva la morale una testuggine. Un'altra favola esaltava la mosca che
distruggeva le cose sozze da essa tanto amate. Una terza si meravigliava che la mosca, l'animale più
ricco d'occhi, veda tanto imperfettamente. Infine una raccontava di un uomo che, dopo di aver
schiacciato una mosca noiosa, le gridò: “Ti ho beneficata; ecco che non sei più una mosca”. Con
tale sistema era facile di avere ogni giorno la favola pronta col caffè del mattino. Doveva venire la
guerra ad insegnargli che la favola poteva divenire un'espressione del proprio animo, il quale così
inseriva la mummietta nella macchina della vita, quale un suo organo. Ed ecco come avvenne.
Allo scoppio della guerra italiana, Mario temette che il primo atto di persecuzione che l' I. e
R. Polizia avrebbe esercitato a Trieste, sarebbe venuto a colpire lui - uno dei pochi letterati italiani
restati in città - con un bel processo che forse l'avrebbe mandato a penzolare dalla forca. Fu un
terrore e nello stesso tempo una speranza che lo agitò, facendolo ora esultare ed ora sbiancare dal
terrore. Egli si figurava che i suoi giudici, tutto un consiglio di guerra composto dei rappresentanti
di tutte le gerarchie militari, dal generale in giù, avrebbe dovuto leggere il suo romanzo, e - se ci
doveva essere giustizia - studiarlo. Poi certamente sarebbe giunto un momento un po' doloroso. Ma
se il consiglio di guerra non era composto di barbari, si poteva sperare che, dopo letto il romanzo,
per premio, la vita gli sarebbe stata risparmiata. Perciò egli scrisse molto durante la guerra,
rabbrividendo di speranza e di terrore ancora più di un autore che sa che c'è un pubblico che aspetta
la sua parola per giudicarla. Ma, per prudenza, scrisse solo delle favole dal senso dubbio, e, nella
speranza e nella paura, le piccole mummie gli si vivificarono. Il consiglio di guerra non avrebbe
mica potuto condannarlo facilmente per la favola che trattava di quel gigante grosso e forte che
combatteva su una palude contro degli animali più leggeri di lui, e che periva, sempre vittorioso, nel
fango che non sapeva sostenerlo. Chi avrebbe potuto provare che si trattava della Germania? E
perchè pensare alla stessa Germania a proposito di quel leone, che vinceva sempre, perchè non
s'allontanava di troppo dalla propria grande, bella tana, finchè non si scopriva che la grande, bella
tana si prestava ad un affumicamento d'esito sicuro?
Ma così Mario s'abituò a moversi nella vita sempre accompagnato dalle favole, come se
fossero state le tasche del suo vestito. Progresso letterario ch'egli doveva alla polizia, la quale però
si dimostrò del tutto ignorante della letteratura paesana, e lasciò in pace, per il corso di tutta la
guerra, il povero Mario disilluso e rassicurato.
Poi ci fu un altro piccolo progresso nella sua opera con la scelta di protagonisti più adatti.
Non più gli elefanti, tanto lontani, nè le mosche dagli occhi privi di ogni espressione, ma i cari,
piccoli passeri ch'egli si prendeva il lusso (grande lusso, a Trieste, di quei giorni) di nutrire nel suo
cortile con briciole di pane. Ogni giorno egli spendeva qualche tempo a guardarli moversi, ed era
quella la parte più brillante della giornata, perchè la più letteraria, forse più letteraria delle stesse
favole che ne risultavano. Se desiderava addirittura di baciare le cose di cui scriveva! Di sera, sui
tetti vicini e su un alberello intristito nel cortile, sentiva cinguettare i passeri, e pensava che prima
di piegare sulla schiena al sonno la testina, si dicessero le avventure della giornata. Al mattino era
lo stesso cicaleccio vivo e sonoro. Si dicevano certamente i sogni della notte. Come lui stesso
vivevano fra le due esperienze, quella della vita reale e quella dei sogni. Erano infine degli animali
che avevano una testa in cui potevano annidarsi dei pensieri, e avevano dei colori, degli
atteggiamenti eppoi anche una debolezza da far compassione, e delle ali da destare l'invidia, perciò
la vera e propria vita. La favola restò tuttavia la piccola mummia irrigidita da assiomi e teoremi,
ma almeno la si potè scriver sorridendo.
E la vita di Mario s'arricchì di sorrisi. Un giorno scrisse:
“Il mio cortile è piccolo, ma, con l'esercizio, vi si potrebbero spendere dieci chilogrammi di
pane al giorno”. Un vero sogno di poeta cotesto. Dove trovare in quell'epoca dieci chilogrammi di
pane per gli uccellini privi di tessera? Un altro giorno: “Vorrei saper abolire la guerra sul piccolo
ippocastano nel mio cortile, la sera, quando i passeri cercano il miglior posto per la notte, perchè
sarebbe un buon segno per l'avvenire dell'umanità”. |
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2
Al principio, repetiendo los errores cometidos en su juventud, describió animales que conocía poco y sus fábulas resonaban de rugidos y bramidos. Después se humanizó, si se puede llamarlo así, describiendo animales que creía conocer mejor. De esta manera la mosca le regaló gran cantidad de fávolas, que se reveló de esta manera ser un animal mucho más útil de lo que se creía. En una de estas fávolas admiraba la velocidad de los dípteros, una velocidad inútil porque no le sirvió ni a atrapar una presa, ni a garantizar su indemnidad. La moraleja la sacó una tortuga. Otra fábula elogiaba la mosca que destruía todas las cosas sucias que tanto amaba. Una tercera fábula se asombró del hecho que la mosca, que tantos ojos tiene, ve tan mal. Finalmente una racontaba de un hombre que gridó a la mosca, después de haberla aplastado: "Te ho santificado, ahora no eres una mosca." Con este sistema era fácil de tener todos los días una fábula lista con el café de la mañana. Hacía falta que llegara la guerra para enseñarle que la fábula podía ser la expresión del propio estado de ánimo inseriendo este la pequeña mumia en la máquina de la vida como si fuese un órgano de ella. Esto ocurrió así. Al estallar la guerra italiana, Mario temía que la primera victima de la persecución que la policia real llevaría a cabo sería él, unos de los pocos literatos italianos que se habían quedado en la ciudad, con un bello proceso que le habría condenado a colgar del patíbulo. Era un terror y al mismo tiempo una esperanza que le agitaba, haciendole vacilar entre la exaltación y el terror. Se imaginó que sus jueces, todo un consejo de guerra compuesto de todas las hierarquías militares, del general hacía rangos inferiores, habían leído su novela y, si justicia existía, studiado. Después habría habido un momento un poco más doloroso. Pero si el consejo de guerra no era compuesto de bárbaros, se podía esperar, que, como premio, le sería regalado la vida. Por lo tanto escribía mucho durante la guerra, estremeciendo más de esperanza y de terror que un autor que tiene un publico que está atento a sus palabras para formarse una opinión. Pero por prudencia escribió solo fábulas con doble sentido y en la esperanza y el temor las pequeñas mumias se llenaron de vida. El consejo de guerra no habría podido jamás condenarlo así no más por la fábula que trataba de aquel gigante grande y fuerte que luchaba en un pantano contra los animales más ligeros que él y que, a pesar de que siempre salió vencedor, pereció en el pantano que no le sostenía. ¿Quién habría podido comprobar que se trataba de Alemania? Y porque pensar en Alemania en relación con este león que siempre ganaba, porque no se alejaba mucho de su grande, hermosa cueva, hasta que se descubrió que esta grande, bella cueva servía de salida de emergencia? De esta manera Mario se acostumbró a moverse en la vida en compañia de sus fábulas como si estas fueron las bolsas de su vestido. Un progreso leterario que debió a la policía, la cual sin embargo no sabía nada de esta literatura rural y dejó en paz, durante toda la guerra, a Mario, desilusionado y tranquilizado. Después había otro pequeño progreso en su obra al elegir protagonistas más adecuados. Ya no eran los elefantes, tan lejos, ni las moscas cuyos ojos carecían de cualquier expresión, sino los amables, pequeños gorriones que el nutría, un lujo grande en el Triest de aquellos tiempos) en su patio con migas de pan. Cada día se dedicaba un tiempo a mirar cómo se movían y esto era el tiempo más brillante del día, porque era el más literario, a lo mejor más literario que las fábulas que eran el resultado de este tiempo. ¡Quería realmente besar las cosas sobre los cuales escribía! De noche, oía sobre los techos y sobre el árbol entristecido del patio gorjear los gorriones y pensaba que antes de que plegaran su cabecita sobre la espalda para dormir se contaban las aventuras del día. Por la mañana eran los mismos trinos vivos y coloridos. Se contaban seguramente los sueños de la noche. Como él vivían entre los dos estados, él de la vida real y él de los sueños. Eran para resumir animalitos que tenían una cabeza en la cuál podían anidar pensamientos y tenían colores, inclinaciones y encima una debilidad que inspiraba compasión, alas que despertaban envidia, o sea la verdadera y propia vida. La fábula siguió siendo sin embargo la pequeña mumia entumecida por los axiomas y teoremas, pero por lo menos se podía escribirlos con una sonrisa. Un día escribió: "Mi patio es pequeño, pero con un poco de entrenamiento se puede distribuir ahí 10 kilos de pan al día". Verdaderamente un sueño de un poeta frustrado. ¿Dónde encontrar en este entonces diez kilos de pan por los pajaritos desprovistos de una cartilla de racionamiento? Y en un otro día: "Quiesiera saber como terminar con la guerra en el pequeño castaño de mi patio, de noche, cuando los gorriones buscan el mejor sitio para pasar la noche, porque sería un buen signo para el futuro de la humanidad."
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